GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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The Panama Papers: i potenti del mondo alla sbarra

ECONOMIA di

“Non è stata una bella settimana!” . Con queste parole il Premier Britannico David Cameron si è presentato agli elettori commentando la vicenda che lo ha visto protagonista nell’ambito dell’inchiesta Panama Papers.

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Cameron sostiene di non aver mai evaso il fisco inglese ed è addirittura arrivato a rendere pubblica, per la prima volta nella storia di Downing Street, la propria posizione finanziaria fin dal suo primo anno di premierato, il 2010.

Nell’imbarazzato tentativo di ricostruirsi credibilità presso un elettorato a cui ha chiesto per anni austerità e rinunce e che è meno avvezzato di altri a perdonare le debolezze dei propri leader, il Premier si è giustificato sostenendo che le quote di società off-shore di cui sarebbe titolare deriverebbero esclusivamente dal lascito ereditario del padre, Ian Cameron, finanziere di spicco della City per decenni.

Decisamente più amara la sorte del Premier dell’Islanda,  Iolander Sigmundur, che, di fronte ai concittadini che ancora faticano a riprendersi dalla grande crisi del 2008, è stato costretto a dimettersi per aver fatto operazioni off-shore per mettere al sicuro i propri risparmi.

Coinvolto anche Vladimir Putin: anche se il suo nome non è uscito direttamente, sono molto gli indizi che lo associano a numerose società panamensi. Il Cremlino ha reagito alla notizia gridando al complotto americano e censurando i media.

Niente al confronto del Great Chinese Firewall, il sistema che impedisce ai cittadini della Repubblica Popolare di navigare su Internet alla ricerca di fonti di informazione libere circa il coinvolgimento del Gotha del Partito Comunista: fra i tanti nomi spicca quello di un nipote di Mao, con buona pace di generazioni di rivoluzionari.

Senza contare i leader dei paesi arabi, o Victor Poroshenko dell’Ucraina, o le stelle dello sport, con icone quali Jarno Trulli o Lionel Messi, bandiera della nazionale Argentina di calcio e del Barcellona.

In Italia fino ad oggi sono usciti i nomi eccellenti di Luca Cordero di Montezemolo (che smentisce), lo stilista Valentino, Barbara D’Urso e Carlo Verdone (!). Ben più serio il coinvolgimento di numerosi istituto bancari.

TAX HAVENS

“The Panama Papers” è il nome ufficiale di un’inchiesta condotta dall’International Consortium of Investigative Journalism (ICIJ), un network internazionale di testate per il giornalismo d’inchiesta.

Richiamando l’inchiesta degli anni ’70 denominata “Pentagon Papers”, un team internazionale di professionisti (il cui terminale per l’Italia è il settimanale l’Espresso) per più di un anno ha esaminato una sterminata mole di dati e verificato le informazioni che ne venivano fuori, fino ad arrivare alle pubblicazioni di questi giorni.

L’inchiesta ha preso il via grazie ad un whisteblower che circa un anno e mezzo fa ha sottratto 2,8 terabyte di dati dall’archivio dello studio legale panamense Mossack Fonseca, specializzato nella creazione di società off-shore.

Lo studio, operante dal 1977 e mai indagato prima, ha al suo attivo la creazione di 215.000 società in 204 paesi con il coinvolgimento di più di 14000 intermediari finanziari.

L’hacker ha “passato” tutto il materiale alla testata tedesca Suddeutsche Zeitung che, vista la mole di lavoro, ha coinvolto l’ICIJ.

Il risultato è uno dei più grandi scoop della storia del giornalismo, diramato in diretta streaming mondiale da centinaia di testate diverse e destinato a tenere banco per i prossimi mesi, con conseguenze che si protrarranno forse per anni.

WHERE ARE THE AMERICANS?

Mentre il fragore suscitato dalle rivelazioni non accenna a diminuire, alcuni si sono posti la domanda, considerato il relativamente basso numero di americani coinvolti. Tanto più strano se si pensa agli strettissimi rapporti vigenti fra Washington e il Paese dello Stretto.

Ci si sarebbe aspettato una maggiore presenza di personaggi legati al big business a stelle e strisce, invece no, solo nomi di seconda e terza fila. E’ quanto ha cercato di appurare anche la testata Politico, influente magazine web. Fra le ragioni che giustificherebbero la vicenda ci sarebbero la diffidenza degli americani verso Panama a favore di altri paradisi fiscali, la relativa facilità con cui aggirare il sistema impositivo all’interno degli stessi Stati Uniti, il virtuosismo yankee che determina una percentuale di evasione totale limitata, circa il 4%.

L’inchiesta è appena iniziata e nuove rivelazioni si susseguono giornalmente, pertanto è ancora presto per capire se c’è qualcuno che si sta avvantaggiando dagli scossoni geopolitici che ne seguiranno.

Leonardo Pizzuti

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Al via l’offensiva economica di Teheran

L’accordo sul nucleare, reso esecutivo nel mese di gennaio, ha visto terminare molte delle sanzioni economiche che da decenni gravavano sulla Repubblica Islamica, decretando così il suo ufficiale reinserimento nella competizione economica internazionale. Tuttavia, come riferisce il Consiglio per il Discernimento, l’ostilità di molti paesi è ancora viva, così come la volontà di frenare la ripresa economica del paese. Parallelamente, la stessa fiducia dell’Iran nei confronti, ad esempio, di alcuni partner europei, dovrà essere riconquistata gradatamente. In altre parole, la scelta di Teheran verte ancora sull’ormai decennale strategia dell’economia di resistenza, che ha insegnato al paese a migliorare lo sfruttamento delle risorse interne e minimizzare la vulnerabilità e i danni derivanti dalle misure sanzionatorie. È proprio questa politica, infatti, che ha permesso all’economia iraniana di sopravvivere a decenni di isolamento, rimanendo (in termini di PIL) la seconda del Medio Oriente e la settima in Asia.

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L’apertura verso l’estero sarà, dunque, molto mirata: l’obiettivo è potenziare i settori chiave, continuando a sfruttare il patrimonio interno che ad oggi ha garantito buoni frutti, come ad esempio le infrastrutture industriali e l’industria petrolchimica. Priorità è data, perciò, agli investimenti dall’estero, all’aumento delle esportazioni di prodotti non petroliferi e al come ovviare al problema delle riserve di valuta estera ancora congelate dalle sanzioni. Nel momento in cui l’attenzione internazionale è concentrata sulla lotta all’ISIS, Teheran inizia la propria “offensiva” economica, gettando le basi per intese commerciali soprattutto con paesi asiatici e africani.

Per quanto concerne l’import-export, Iran e Russia stanno studiando la creazione di una zona di libero scambio, come ha affermato il ministro dell’Energia russo Alexsandr Novak. La prima bozza del progetto indica prodotti metallici e chimici come oggetto principale dell’export russo verso l’Iran; dall’Iran, invece, arriverebbero rifornimenti di frutta e verdure per un ammontare annuo di un miliardo di dollari, una crescita rilevante rispetto ai circa 194 milioni attuali.

Accordi significativi anche con il Vietnam. I due paesi mirano a incrementare il volume dei rapporti commerciali da 350 milioni a 2 miliardi di dollari nell’arco di cinque anni, con progetti in diversi settori, dall’agricoltura, al turismo, all’energia alle innovazioni tecnologiche. Al fine di favorire la cooperazione, è stato siglato anche un Memorandum of Understanding tra le rispettive banche centrali. Trattative in corso anche con la Turchia di Erdogan, la Costa d’Avorio e diversi paesi africani, che si dichiarano propensi a potenziare i rapporti economici con la Repubblica Islamica. I progressi compiuti da quest’ultima nel settore energetico, sanitario, tecnologico e delle infrastrutture la rende, infatti, un partner ideale per soddisfare le diverse esigenze del continente nero.

Per quanto riguarda il settore energetico, due i progetti principali in ballo. Il primo riguarda la costruzione di un gasdotto sottomarino che colleghi l’Iran all’India: 1.400 km di infrastruttura che permetterà di aggirare la zona economica esclusiva pakistana, portando in India fino a 31,5 milioni di metri cubi di gas al giorno. Un investimento importante, circa 4,5 miliardi di dollari, che conferma –e premia- le buone relazioni mantenute tra le due nazioni anche durante il regime delle sanzioni. La seconda novità riguarda una collaborazione scientifica e tecnologica tra l’Elettra Sincrotone di Trieste e l’Institute for Research in Fundamental Sciences di Teheran. Punti nevralgici la formazione del personale tecnico scientifico iraniano e la progettazione congiunta di una nuova linea di luce, da impiegare sia nello studio di fenomeni chimici e biologici, ma anche nel settore industriale.

Dal Pakistan arriva una svolta importante nel settore bancario. Essendo alcune sanzioni ancora vigenti, il pagamento in dollari dei prodotti importati dall’Iran non risulta ancora fattibile. Da qui la decisione da parte degli imprenditori pakistani di aprire lettere di credito (LC) in euro, anziché nella valuta americana. In questo modo, non saranno più le banche americane ad essere le intermediare, bensì quelle europee, che non avranno dunque motivo di non autorizzare il pagamento.

Sembra, dunque, che l’Iran abbia una chiara strategia economica in mente. Da un lato puntare sulle ricchezze interne, come ad esempio il petrolio – l’Iran inizierà a collaborare con gli altri paesi produttori circa il congelamento della produzione soltanto quando l’output iraniano raggiungerà la quota di 4 milioni di barili al giorno; dall’altro, potenziare settori economici chiave, intensificando i rapporti con le medie e grandi potenze asiatiche, privilegiandole sui paesi del Medio Oriente ed occidentali, segno evidente che la diffidenza nei confronti di chi più ha beneficiato delle sanzioni è lungi dall’essere superata.

 

Paola Fratantoni

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Germania divisa sull’immigrazione

EUROPA/POLITICA di

“Un giorno difficile” per il partito, così si è espressa la Cancelliera tedesca Angela Merkel all’indomani delle elezioni regionali tedesche, tenutesi il 15 marzo scorso. Il CDU (Christlich Demokratische Union) perde, infatti, la maggioranza in due stati federali su tre, Baden-Wuttemberg e Renania-Palatinato. Un risultato significativo: seppur il CDU resti la forza di maggioranza, vediamo emergere nettamente le posizioni dell’Alternative für Deutschland (AfD), partito di estrema destra guidato da Frauke Petry. Tema della discordia: le politiche sull’immigrazione.

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In risposta alla crisi dei rifugiati provenienti dalla Siria e da altri paesi del Medio Oriente, la Cancelliera Merkel da mesi sostiene la politica dell’open-door, in base alla quale la Germania garantisce asilo ai rifugiati e ai migranti provenienti dalle zone di guerra. Nel corso del 2015, più di un milione di persone hanno attraversato la frontiera tedesca. Una politica “umanitaria”, che si distanzia, tuttavia, dalle posizione prese da altri paesi europei, come la Slovenia che ha optato per la chiusura delle frontiere, o l’Austria, che ha imposto controlli più severi ai confini e un tetto massimo di rifugiati da accogliere.

Diametralmente opposta la posizione dell’AfD, fautore della chiusura delle frontiere. “Asylchaos beenden” -il motto del partito- esprime chiaramente un senso di preoccupazione per la stabilità interna del paese. L’AfD sostiene una linea politica conservatrice, votata alla difesa dei valori tradizionali cristiani. L’afflusso costante e corposo degli immigrati musulmani viene percepito come una minaccia a questi valori: un atteggiamento xenofobo, dunque, che pare trovare sempre maggior appoggio tra la popolazione tedesca.

Tra i voti a favore dell’AfD, infatti, non vi sono solo quelli dell’estrema destra tradizionale. Si uniscono al coro anche molti conservatori, tradizionalmente più vicini alle posizioni del CDU ma disillusi dalle politiche centriste promosse dalla Merkel. L’alternativa populista offerta dal partito della Petry sembra, invece, avvicinarsi maggiormente alle esigenze e alle idee di questa componente.

Ci troviamo di fronte ad un elettorato tedesco fortemente polarizzato. Da un lato, chi ha sostenuto e continua a sostenere le politiche di apertura della Merkel, per la quale la paura più concreta non è l’afflusso dei rifugiati, bensì la chiusura delle frontiere. Così facendo, si metterebbero in pericolo i principi cardine dell’Unione Europea, come la libera circolazione delle persone, il libero commercio e la moneta unica. Dall’altro lato, invece, l’estrema destra xenofoba punta su un approccio più radicale, volto a difendere l’integrità e la sicurezza nazionale a scapito dei valori comunitari come, appunto, la libera circolazione.

Copione già visto: in Francia con l’ascesa del partito estremista della Le Pen ed ora negli Stati Uniti con i successi di Trump. Sembra crescere, dunque, nei paesi occidentali l’insofferenza verso politiche troppo permissive circa l’arrivo di stranieri. E il senso di insicurezza dovuto alle continue minacce e agli attentati compiuti in diverse capitali europee di certo non favorisce una linea di pensiero più aperta.

Sullo sfondo di questo contrasto interno troviamo, inoltre, le trattative condotte dalla Bundeskanzlerin in ambito UE con la Turchia, nell’ottica di siglare un accordo sugli immigrati. La nazione di Erdogan ha recentemente richiesto altri tre miliardi di finanziamenti in aggiunta ai tre già previsti, proponendo un meccanismo di scambio tale per cui per ogni profugo siriano riammesso, l’UE ne accolga uno già residente in Turchia. Richieste “comprensibili”, secondo la Germania; diversa, invece, la reazione di altri leader europei, come il premier belga Charles Michel che definisce l’accordo come una sorta di ricatto.

Tuttavia, né l’esito delle elezioni, né i pareri diversi in seno all’UE hanno fatto cambiare idea alla Merkel: nessuna inversione di rotta nella open door policy, mentre l’accordo con la Turchia rimane l’unica strada possibile per risolvere la crisi.

Probabili, dunque, le ripercussione sia a livello nazionale che europeo. In Germania, la CDU non rischia soltanto di vedere crescere l’estrema destra, ma mette a repentaglio la stabilità interna del partito. Lo stesso Horst Seehofer, leader della CSU, partito gemello della CDU in Bavaria, ha pesantemente criticato le scelte della Merkel, affermando che di fronte a simili risultati elettorali l’unica risposta accettabile sia una cambiamento della linea politica. A livello europeo, la distanza tra una Germania in prima linea nell’Unione e gli altri Membri mette ancora una volta in dubbio la credibilità e la stabilità dell’istituzione nonché l’efficacia di un qualunque accordo con la Turchia. Considerando che sono molti i paesi europei ad avere interessi in gioco, una risposta europea deve obbligatoriamente tenere in considerazione le diverse esigenze. E se la Merkel vuole continuare a mantenere la leadership non può chiudere gli occhi sulle posizioni altrui.

 

Paola Fratantoni

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Digitalizzazione in crescita per l’UE

EUROPA/INNOVAZIONE di

Il 25 febbraio scorso la Commissione Europea ha pubblicato i risultati dell’edizione 2016 dell’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI). Notizie incoraggianti, dati i progressi registrati nel complesso; tuttavia, siamo ancora distanti dal pieno sviluppo delle nostre potenzialità digitali.

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Di cosa si tratta?

Il DESI (Digital Economy and Society Index) è uno strumento online che permette di misurare i progressi compiuti dai paesi membri dell’Unione Europea nel campo della digitalizzazione economica e sociale. Più di 30 indicatori vengono utilizzati per definire il DESI e sono raggruppati in cinque distinte aree: connettività (25% del valore totale), capitale umano/abilità digitali (25%), utilizzo di internet (15%), integrazione della tecnologia digitale (20%), servizio pubblico digitale (15%). Questo indice serve, dunque, ad individuare quali sono i settori in cui il paese di riferimento necessita maggiori investimenti per poter migliorare le proprie performance.

L’indice non solo dipinge il quadro generale dell’UE, ancora lontana dai livelli di digitalizzazione di potenze come gli Stati Uniti o il Giappone, ma mette anche in risalto le differenze notevoli tra i paesi membri. Danimarca, Svezia e Finlandia occupano i primi posti non solo a livello europeo ma anche nelle classifiche mondiali. Fanalini di coda, invece, Repubblica Ceca, Bulgaria, Cipro, Francia, Grecia, Ungheria, Polonia e Slovacchia, che non solo hanno un DESI decisamente inferiore alla media UE, ma mostrano anche un ritmo di crescita lento, che porterà a distanziare maggiormente questi paesi dal resto dell’Europa. Il DESI, infatti, indica anche il ritmo di crescita delle nazione nel campo delle tecnologie digitali. Ed è proprio qui che si può notare, ancora una volta, un’Europa a più velocità.

Alcuni paesi presentano un indice DESI superiore alla media europea e registrano anche una crescita più veloce nell’arco dell’ultimo anno. Parliamo di Austria, Estonia, Malta, Portogallo, Germania e Paesi Bassi. Buoni i ritmi di crescita anche in Italia, Croazia, Lituania, Romania, Slovenia e Spagna, anche se l’indice DESI rimane attualmente sotto la media. Tuttavia, secondo gli analisti, vi sono buone le speranze per questi paesi di ridurre le distanze da quelli più digitalmente avanzati. In calo, invece, la crescita di Danimarca, Svezia, Finlandia, Irlanda, Belgio, Lituania e Irlanda, che mantengono, tuttavia, un indice elevato.

Cosa si può fare, dunque, per migliorare la situazione? Lo scorso anno l’UE ha approvato la strategia per il mercato unico digitale, una serie di azioni che i paesi dovranno portare a termine entro la fine del 2016 volte a coordinare e standardizzare il processo di digitalizzazione nei vari paesi. Tale strategia verte su tre pilastri: migliorare l’accesso ai beni e ai servizi digitali per consumatori e imprese in tutta Europa; creare un contesto favorevole e pari opportunità per lo sviluppo delle reti digitali; massimizzare il potenziale di crescita nel settore.

Nei fatti, sembra che la strategia attuata stia dando i suoi frutti. Il 71% delle famiglie europee ha ora accesso alla banda larga ad alta velocità (nel 2014 solo il 62%) e sono in aumento anche il numero degli abbonati alla banda larga mobile con 75 contratti registrati per ogni 100 abitanti (a fronte dei 64 dell’anno precedente). È vero, tuttavia, che c’è ancora molto da lavorare, soprattutto in alcuni settori. Come emerge dal rapporto DISE, ad esempio, quasi il 45% degli europei non possiede competenze digitali di base, come l’uso della posta elettronica o degli strumenti di editing principali. L’e-commerce è una realtà ancora lontana per le piccole medie imprese: soltanto il 16% vende i propri prodotti online e solo il 7,5% anche oltre la frontiera. Non è sufficiente promuovere l’acquisto online: bisogna, altresì, stimolare maggiormente il commercio elettronico, approvando in sede europea una legislazione che protegga adeguatamente i consumatori, specialmente negli acquisti transfrontalieri. Non del tutto soddisfacenti, infine, i dati relativi ai sevizi pubblici: a fronte di una maggior varietà di servizi resi disponibili online dalle Pubbliche Amministrazioni, pare che soltanto il 32% degli utenti usufruisca di queste piattaforme.

Da un lato, dunque, è importante che l’UE fornisca una legislazione coerente ed efficace, che tuteli sia i cittadini che le imprese; dal canto loro, gli stati membri devono sostenere la creazione del mercato unico digitale, investendo in quei settori maggiormente arretrati e promuovendo la digitalizzazione tra la società civile. Realizzare quest’obiettivo permette non solo di rilanciare l’economia europea in generale e di dare nuova competitività al nostro mercato, ma consente anche ai singoli membri di sfruttare al meglio il potenziale inespresso, creando nuove opportunità (soprattutto transfrontaliere) per le imprese ma anche per i singoli.

 

Paola Fratantoni

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Si allarga black list anti-Corea del Nord

In data odierna, il Consiglio dell’Unione Europea – che, lo ricordiamo è di fatto l’organo esecutivo dell’Unione – ha aggiunto 16 persone e 12 enti alla sua “black list” di soggetti e società colpiti dalle misure restrittive europee intraprese contro le condotte della Repubblica popolare democratica di Corea.

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La decisione recepisce le nuove prescrizioni imposte dalla risoluzione 2270 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, adottata il 2 marzo 2016 in risposta ai lanci di prova di razzo nucleari da parte della Corea del Nord, avvenuti il 6 gennaio  ed  il 7 febbraio scorsi.

Gli atti formali di tale iniziativa diplomatica saranno pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale dell’Ue domani.

La misure restrittive dell’UE nei confronti della Corea del Nord sono state introdotte per la prima volta il ​​22 dicembre 2006. Le misure attuali adempiono a tutte le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU adottate dopo i test nucleari ed i lanci eseguiti dalla Corea del Nord utilizzando la tecnologia dei missili balistici ed includono anche  ulteriori misure autonomamente adottate dall’UE. Tali decisione intendono colpire la politica  nucleare ed i programmi di lancio nordcoreani

Le misure più importanti comprendono divieti di esportazione ed importazione di armi, e di ogni oggetto o tecnologia che possa contribuire a tali attività. Sia l’ONU che l’UE, in modo autonomo, hanno anche istituito misure restrittive di natura finanziaria, commerciale e nel campo dei trasporti.

Con quella odierna, L’Unione europea ha così rafforzato le sue ultime misure, che furono decise il 22 aprile 2013, recependo la risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU n. 2094.

 

Domenico Martinelli

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Sicurezza e privacy: l’eterno dilemma

EUROPA/INNOVAZIONE/POLITICA/Varie di

“Sicurezza e privacy. Eterno dilemma”. Talvolta è così. Talvolta no. Da un punto di vista relativo ed aziendale, la privacy rientra tra gli aspetti fondamentali propri della sicurezza, significando che un baco nel sistema di privacy comporterà ingenti danni all’impresa ed ai suoi clienti.

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In campo aziendale, ormai a livello mondiale, il problema della privacy è riconosciuto quale uno di quelli fondamentali, tali da implicare – nelle aziende più grandi, la separazione della figura del privacy “officer” o “consultant” da quella più generica del “security manager”.

Ma da un punto di vista assoluto, privacy e sicurezza sono due titani destinati allo scontro. Quanto e come si contrastano? Indubbiamente in Europa assistiamo ad una doppia esigenza: da un lato quella di far crescere e progredire i cittadini europei sotto il profilo dei diritti umani e dei diritti individuali, e la privacy forse, al primo colpo d’occhio sembrerebbe uno dei più importanti diritti individuali, quasi da assurgere, al giorno d’oggi, nella categoria dei diritti naturali. Da un altro punto di visita occorre che le istituzioni nazionali ed europee invadano letteralmente la privacy dei residenti e degli stranieri che chiedono di soggiornare nel vecchio continente.

Questo, com’è ovvio, per chiari motivi di ordine e sicurezza pubblica, al fine di contrastare i tristissimi fenomeni di cui tutti i giorni sentiamo e leggiamo: dall’immigrazione clandestina, al traffico di migranti, dal terrorismo, al riciclaggio di danaro. Ed è per questo che l’Europa si sta dotando di strumenti normativi volti a disciplinare da un lato i doveri/diritti dei cittadini in campo privato e, dall’altro, i doveri/diritti delle istituzioni nei confronti dei cittadini. Stiamo parlando, rispettivamente, del Regolamento e della Direttiva sulla Protezione dei dati. “Regolamento” e “Direttiva” sono due parole molto generiche, che recano invece nomenclature giuridiche molto più complesse e lunghe, ma che, nel settore della protezione dati, fanno immediatamente capire a cosa si riferiscono. In entrambe le fonti normative, di imminente promulgazione – pare che entrambi i provvedimenti abbiano superato gli step della discussione in Trilogo – si definiscono ruoli, competenze, soggetti destinatari ed “attori” del sistema di protezione dati e, conseguentemente, di privacy, che presto riguarderanno Europa, Stati Membri e Paesi c. d. Terzi. Molta importanza verrà ovviamente affidata, si presume, alle autorità nazionali di controllo, ossia ai rispettivi Garanti della Privacy nazionali, che sono già in parte coordinati dal Garante Europeo per la Protezione dei Dati.

Da un punto di vista operativo e spicciolo, comunque, dovrebbe cambiare poco, ma sarà utilissimo dare una volta per tutte uniformità alle singole legislazioni nazionali e prevedere comuni procedure di accesso ai dati e di contenzioso in materia.

In ogni caso, ad oggi, le istituzioni Europee e nazionali che agiscono nel campo della sicurezza sono – in estrema e profonda sintesi – legittimamente titolari delle potestà relative all’uso, alla raccolta ed alla detenzione dei dati, per adempiere ai loro fini istitutivi ed ai loro scopi istituzionali. La c. d. “Iniziativa Svedese”, le c. d. “Decisioni di Prüm” altro non sono che tentativi normativi, già recepiti od in corso di recepimento per migliorare l’uso delle informazioni ed il loro scambio tra Stati membri.

Ed è qui il nodo centrale della questione: secondo la giurisprudenza europea e nazionale, è stata sinora generalmente considerata giusta la compressione del diritto alla privacy, se lo stesso interesse confligge con interessi superiori, quale il diritto alla vita, od il principio secondo cui occorre evitare che un reato venga perpetrato o portato a compimento. E sono di fatto questi i principi, per così dire, filosofici, che sottendono all’esistenza normativa delle più disparate banche dati – talune ancora nemmeno in funzione – che supportano la giustizia e le forze di polizia europee nella loro quotidiana missione di prevenzione del e contrasto del crimine.

Nello specifico settore ci sono state fondamentali sentenze della Corte di Giustizia Europea che hanno disciplinato e completamente ridisegnato l’architettura della protezione dati, specie nei rapporti economici  con i grandi colossi statunitensi, che sono di fatto i monopolisti della comunicazione social e dei provider di servizi online. Ad esempio, si pensi alla famosa sentenza sulla “Data Retention” (a cui facciamo integrale rimando) che ha fatto completamente saltare gli accordi finora perfettamente “efficienti” tra UE e USA. Ogni stato esterno all’UE, che gestisca materialmente dei dati di cittadini europei, prima era di fatto libero nella gestione stessa: o, meglio, pur dovendo assicurare un adeguato regime di protezione dei dati era abbastanza svincolato da forme di controllo e verifica da parte delle istituzioni comunitarie.

Nel caso degli usa si trattava del c. d. principio del “Safe Harbour”. Rivelatosi insufficiente a tutelare la privacy dei cittadini che affidavano ai colossi della telematica mondiale i propri dati, i propri interessi e le proprie fotografie, a seguito della sentenza il “Safe Harbour” è stato completamente rivisto e rimpiazzato dal più sicuro accordo denominato “Privacy Shield”. Istituzione europea deputata alla sigla di tali accordi è la Commissione che, con il nuovissimo sistema giuridico ha messo, per così dire, i paletti agli Stati Uniti, prevedendo garanzie chiare e obblighi di trasparenza applicabili all’accesso ai dati da parte del governo degli Stati Uniti, imponendo obblighi precisi alle società e una robusta applicazione, prevedendo una protezione effettiva dei diritti dei cittadini dell’UE con diverse possibilità di ricorso e ideando un meccanismo annuale di riesame congiunto dell’efficacia dello scudo.

Quindi, riassumendo, l’Europa non è in controtendenza con il buon senso: se da un lato prevede la giusta garanzia di privacy per questioni e diritti fondamentali, dall’altra riesce a bilanciare con forza la propria azione di raccolta delle informazioni necessarie alla salvaguardia dei suoi cittadini, difendendo i suoi interessi e la sua autonomia anche dagli amici oltre l’Atlantico.

Su questo dilemma permangono comunque fortissimi dubbi, specie con riguardo alle legislazioni nazionali. Si pensi, ad esempio, ai paesi in cui è illegale la prostituzione. Molti movimenti politici o semplici correnti di pensiero chiedono a gran voce la legalizzazione e la redazione di apposite norme in materia.

A parere di chi scrive una norma in materia non potrà mai essere promulgata, proprio per motivi di privacy, anche se il topic “prostituzione” è un argomento che ne lambisce molti altri: diritti umani, violenza di genere, sfruttamento, immigrazione, atti di disposizione del proprio corpo e via dicendo. Se fosse emanata una legge che regolarizzi e, di fatto, re-instituisca la prostituzione, la stessa confliggerebbe – a puro titolo esemplificativo – con le norme che impongono alle strutture ricettive di comunicare alle Autorità (e quindi di far inserire nelle banche dati) quali siano i loro avventori.

Inevitabilmente un cliente ed una prostituta verrebbero identificati, e potrebbe altrettanto venir tracciato un profilo delle persone che frequentano quella prostituta o che frequentano quella determinata area o che, peggio, si diversificano per le loro abitudini sessuali (che sono, ad oggi, giustamente, un dato sensibilissimo). Eppure è fondamentale per le Autorità conoscere quali siano gli avventori degli alberghi, che sono soggetti alle leggi di pubblica sicurezza e che producono registrazioni dei clienti che possono rivelarsi fondamentali nella risoluzione di casi giudiziari ed investigativi.

Qui il dilemma: tutela degli interessi pubblici o tutela degli interessi individuali?

Domenico Martinelli

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UE: rimpatrio per 308 profughi

BreakingNews/EUROPA/POLITICA di

La Commissione ha confermato che la Grecia sta respingendo 308 migranti irregolari in Turchia. L’Unione Europea sta infatti intensificando i suoi sforzi per fare in modo che coloro che non si sono qualificati per ottenere la protezione internazionale in Europa siano rapidamente e realmente riaccompagnati nei loro paesi di origine o respinti verso i paesi di transito.

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Il Commissario per la migrazione, gli affari interni e la cittadinanza, Dimitris Avramopoulos, ha dichiarato: “Nell’ambito del piano d’azione comune UE-Turchia abbiamo deciso di accelerare le procedure di rimpatrio e di riammissione. La Commissione europea ha rafforzato il suo sostegno alla cooperazione in materia di rimpatrio tra gli Stati membri UE e la Turchia e i trasferimenti di oggi  dalla Grecia alla Turchia dimostrano che i nostri sforzi stanno iniziando a dare i loro frutti; se vogliamo affrontare le sfide della crisi dei rifugiati con successo abbiamo bisogno di tornare ad una gestione ordinata dei flussi migratori. Dobbiamo fare in modo che coloro che hanno bisogno di protezione vengano accettare, ma deve essere chiaro anche che coloro che non hanno diritto di restare nell’UE saranno modo rapido ed efficace respinti“.

Secondo la Commissione, per fare in modo che il sistema europeo comune di asilo funzioni, è fondamentale che la politica di rimpatrio sia pienamente funzionante. Pur nel pieno rispetto dei diritti fondamentali e del principio di accoglienza, il rimpatrio verso i paesi d’origine o verso i paesi di transito da parte dei migranti irregolari che non hanno diritto di restare nell’UE costituisce una parte essenziale degli sforzi globali dell’UE per affrontare il fenomeno della migrazione e, in particolare, per ridurre quello dell’immigrazione irregolare.

E’ per questo motivo che il rafforzamento della cooperazione in materia di respingimento con la Turchia è considerata ad oggi quale una delle priorità principali della Commissione europea. Nell’ambito del piano d’azione congiunto UE-Turchia, attivato il 29 novembre, l’UE e la Turchia si sono impegnati a rafforzare la cooperazione in materia di gestione del fenomeno migratorio – anche attraverso la prevenzione dei flussi migratori irregolari verso l’UE – e ad accelerare le procedure di respingimento degli  immigrati irregolari, in linea con le disposizioni studiate ad hoc per.

Tra ieri e oggi, pertanto, è iniziato il respingimento degli immigrati irregolari, prevalentemente di origine marocchina, algerina e tunisina.

Un segnale chiaro ed inequivocabile per coloro che sanno a priori di non aver diritto alla protezione internazionale.

Domenico Martinelli

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Un nuovo consistente fondo di aiuti economici dell’Europa ai profughi palestinesi

Ieri la Commissione europea ha approvato un pacchetto di assistenza di 252 milioni e 500 mila euro per sostenere le Autorità ed rifugiati palestinesi. E questa è solo la prima parte del pacchetto di sostegno annuo dell’UE a favore della Palestina previsto per il 2016.

L’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Unione, Federica Mogherini, ha dichiarato: “L’Unione europea rinnova il suo impegno concreto per i palestinesi attraverso questo pacchetto, l’UE sostiene la vita quotidiana dei palestinesi nei campi dell’istruzione e della sanità, proteggendo le famiglie più povere e  garantendo ai profughi palestinesi l’accesso ai servizi essenziali; questi sono passi tangibili sul campo che possono migliorare la vita dei palestinesi, ma questi passaggi non sono sufficienti. Le istituzioni palestinesi devono continuare a crescere di più, devono diventare più trasparenti, più responsabili e più democratiche. Istituzioni fondamentali e inclusive, basate sul rispetto dello stato di diritto e dei diritti umani, sono cruciali in vista della creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano. Perché quello che vogliamo raggiungere è la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano, che viva, in pace e sicurezza, al fianco dello Stato di Israele e degli altri vicini “.

Il Commissario europeo per l’allargamento e la politica di vicinato, Johannes Hahn, ha dichiarato: “L’UE rimane ferma nel suo impegno per i palestinesi e sostiene attivamente una soluzione basata su due stati La nostra assistenza per assicurare il funzionamento dell’Autorità palestinese e per sostenere i gruppi di palestinesi vulnerabili, compresi i rifugiati palestinesi, è un esempio concreto di questo impegno. Ringrazio anche tutti gli Stati membri per il loro sostegno continuo dei programmi dell’UE per questa regione tormentata, che si è dimostrato efficace”.

UNRWA-logoDel pacchetto di fondi inviato ieri, 170 milioni e 500 mila euro saranno inviati direttamente all’Autorità palestinese, attraverso il meccanismo PEGASE (Mécanisme Palestino-Européen de Gestion de l’Aide socio-Economique). Con questi fondi l’UE sosterrà l’Autorità palestinese nella fornitura di servizi sanitari ed educativi, proteggendo le famiglie più povere e fornendo assistenza finanziaria agli ospedali situati a Gerusalemme Est.

I restanti 82 milioni costituiranno un contributo al bilancio del programma di soccorso e lavori dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA). Organismo ONU che fornisce servizi essenziali per i rifugiati palestinesi in tutta la regione. Questo supporto si propone di offrire un migliore accesso ai servizi pubblici essenziali e maggiori opportunità di sostentamento per i profughi palestinesi.

Un secondo pacchetto di misure a favore dei palestinesi sarà annunciato nel corso dell’anno.

A beneficio dei lettori, precisiamo che il PEGASE è il meccanismo attraverso il quale l’Unione europea aiuta l’Autorità palestinese a costruire le istituzioni di un futuro Stato palestinese indipendente. Attraverso il pagamento delle pensioni e degli stipendi dei funzionari pubblici, assicura che i servizi pubblici essenziali continuino a funzionare. Il PEGASE fornisce anche prestazioni sociali alle famiglie palestinesi che vivono in condizioni di estrema povertà ed anche un contributo all’Autorità Palestinese per sostenere i consumi degli ospedali di Gerusalemme Est.

L’Agenzia UNRWA fornisce invece servizi essenziali per i rifugiati palestinesi in Cisgiordania, a Gaza, in Giordania, Siria e Libano. L’UE è il maggior contributore di questa Agenzia ONU specializzata. Tra il 2007 e il 2014, l’UE ha contribuito con oltre 1 miliardo di euro , tra cui 809 milioni destinati al bilancio del programma dell’ente. Inoltre, l’UE ha generosamente contribuito alle richieste dell’UNRWA nelle emergenze umanitarie e nei progetti ideati ad hoc per rispondere alle varie crisi  ed alle esigenze specifiche sorte in tutta la regione. Il partenariato tra l’UE e l’UNRWA ha permesso a milioni di rifugiati palestinesi di essere istruiti, di vivere una vita più sana, di avere accesso alle opportunità di lavoro e di migliorare le generali  condizioni di vita, contribuendo così allo sviluppo di tutta la regione.

Iran: corsa alle urne nel paese degli Ayatollah

26 febbraio 2016. Data storica per l’Iran che per la prima volta dopo la fine delle sanzioni internazionali chiama i suoi cittadini alle urne per una doppia votazione, Parlamento e Assemblea degli Esperti. Il voto è un test per la popolarità del Presidente Hassan Rouhani, dal 2013 impegnato in riforme politiche e sociali di apertura verso l’Occidente. L’esito del voto, infatti, serve a capire quanto la linea riformista del presidente si sia radicata nella società e quali possano essere i futuri sviluppi per la Repubblica.

La prima votazione riguarda il Parlamento nazionale, Majlis, composto da 290 seggi, di cui soltanto 5 destinanti ad esponenti delle minoranze religiose non musulmane. Il Parlamento è l’organo legislativo del paese, cui spetta il compito di approvare le leggi, il budget annuale e i trattati internazionali. Fino ad oggi, la maggioranza, conservatrice e fondamentalista, è stata in netto contrasto con le politiche avanzate da Rouhani. È chiaro come un nuovo assetto possa influenzare le future azioni del paese, nonché la sua posizione nei giochi internazionali. “Avete creato una nuova atmosfera con il vostro voto” ha twittato il presidente dopo l’esito delle votazioni.

L’Assemblea degli esperti, invece, è composta da 88 membri, esclusivamente accademici islamici, in carica per otto anni. È di fatto l’organo più significativo in quanto elegge la Guida Suprema del paese, la figura politica e religiosa con maggior potere. Considerando le cattive condizioni di salute dell’attuale leader, l’Ayatollah Ali Khamenei, è altamente probabile che sarà la neo-eletta Assemblea a scegliere il suo successore.

Non si tratta, dunque, solo di una nomina di consiglieri, ma di una scelta tra due linee politiche opposte. La prima fa capo all’attuale presidente Rouhani ed è caratterizzata da un’apertura, soprattutto economica, verso l’Occidente ed un tentativo di promuovere un’immagine positiva del paese fondamendalista. Dall’altro lato, invece, troviamo la Guida Suprema Khamenei, conservatore ed apertamente anti-occidentale, portavoce di una politica che mira a perseguire un’economia di resistenza ed un sistema politico basato sul potere delle Guardie Rivoluzionarie.

Il risultato delle elezioni, cui ha partecipato il 60% dell’elettorato (circa 33 milioni di persone) potrebbe avere risvolti significativi per il futuro della Repubblica Islamica. La vittoria è andata ai riformisti, con 96 seggi vinti in Parlamento, contro i 91 dei fondamentalisti e i 25 degli indipendenti. Bisogna, tuttavia, sottolineare due aspetti: in primis, il concetto di “riformisti” va letto alla luce dei parametri iraniani. Il riformismo di cui si parla è lungi da essere il nostro riformismo. Si tratta sempre di fondamentalismo, seppur mascherato da una forma di apertura verso le democrazie occidentali. Basti pensare che i veri riformisti sono stati esclusi dalla lista dei candidati eleggibili sia nell’Assemblea che al Parlamento.

Secondo punto da non tralasciare riguarda la base elettorale dei voti. I riformisti hanno guadagnato terreno nelle aree metropolitane, mentre i fondamentalisti si sono affermati maggiormente nelle zone rurali, dove vive un terzo della popolazione. Tuttavia, le otto città principali, dove risiedono circa metà degli iraniani, hanno ottenuto soltanto 57 dei 290 seggi in Parlamento. Tenendo conto che 52 seggi verranno assegnati tramite ballottaggio a fine aprile, sembra che i giochi siano ancora aperti.

Cosa aspettarsi dunque?

Maggiore apertura probabilmente sì ma non significa, come alcuni pensano (o sperano), che l’Iran assumerà le sembianze di una democrazia occidentale. È probabile, nonché auspicabile, una distensione nei rapporti con il mondo occidentale. Rimane fermo il fatto che l’Iran è regime fondamentalista basato sulla Shri’a, dove ad oggi non è data voce alle correnti più riformiste, fautrici di cambiamenti significativi in senso opposto al sistema politico, economico e sociale vigente. Riformismo non è sinonimo di democrazia.

Inoltre, è difficile pensare che i fondamentalisti si arrendano facilmente a questi risultati. Come le percentuali mostrano, le loro idee sono prevalentemente radicate nella società rurale, che può influire considerevolmente sulla composizione finale del Parlamento. Non solo. Se Teheran ha festeggiato i risultati elettorali, diversa la reazione a Qom, il cuore sciita della Repubblica Islamica. “Le persone del vero Iran abitano qui, noi rispettiamo e seguiamo il sentiero dell’Ayatollah Khomeini e dobbiamo proteggere i nostri valori” afferma irremovibile un impiegato 23enne.

Gli interrogativi sul futuro del paese, dunque, rimangono. Nonostante la vittoria dei riformisti, forti correnti fondamentaliste permangano non soltanto tra l’élite politica ma anche tra la popolazione. Inevitabilmente, un cambiamento ci sarà ma è bene mantenere i piedi per terra. Resta da vedere, infatti, se ed in che termini la via del riformismo plasmerà un Iran effettivamente più vicino al mondo occidentale, o se il fondamentalismo hard-line troverà il modo di recuperare il terreno perso, frenando quel processo di apertura avviato negli ultimi anni da Rouhani.

Crisi libica e traffico esseri umani, il futuro di EuNavFor Med

BreakingNews/POLITICA di

EuNavFor Med è pronta per la fase operativa B2. La guerra ai trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo sarà combattuta in acque territoriali libiche, “ma ci sono una serie di sfide politiche e legali da risolvere prima di poter raccomandare questa transizione”, afferma l’ammiraglio Enrico Credendino, al comando della missione europea.

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Criticità relative alla mancata costituzione di un esecutivo di unità nazionale, che ha impedito alle Nazioni Unite di autorizzare l’arresto dei trafficanti e la distruzione dei mezzi direttamente a terra.

Il 7 ottobre 2015, il Parlamento Europeo aveva annunciato il potenziamento delle missioni militari nel Mediterraneo, finalizzate all’abbordaggio, perquisizione e confisca delle imbarcazioni utilizzate dagli scafisti. Mentre la firma dell’accordo di dicembre in Marocco tra alcune componenti della vita politica e sociale libica per la formazione di un esecutivo di unità nazionale si è rivelata illusoria, il capo della missione di Supporto delle Nazioni Unite (Unsmil), Martin Kobler, ha salutato con favore il comunicato della maggioranza dei membri del Parlamento libico, che finalmente approvano la costituzione del Governo di unità nazionale e ha chiesto loro di formalizzare l’annuncio. In attesa di una stabilità politica che scongiuri la minaccia del Daesh e legittimi EuNavFor Med a un intervento territoriale risolutivo dell’emorragia migratoria che destabilizza l’Europa, la missione resta momentaneamente “sospesa” alla fase attuale, quella della lotta agli scafisti a 12 miglia nautiche dalla costa libica.

Sebbene la comunità internazionale appoggi il premier Fayez Al Sarraj, ricevuto in Italia da Matteo Renzi, la situazione si fa critica. Da più parti si ipotizzano futuri raid aerei francesi, americani e inglesi contro le basi Isis in Libia, favorite dall’attuale caos istituzionale.

Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha ribadito l’urgenza di dar vita al Governo di accordo nazionale e concentrarsi sulla comune lotta al terrorismo. Dello stesso parere il presidente della Commissione Esteri del Senato, Pierferdinando Casini, che ha definito l’attentato del 7 gennaio scorso a Zlitan contro un centro di addestramento della polizia come parte della “strategia attuata dello Stato Islamico per rinviare l’insediamento del governo di unità nazionale concordato tra le parti e l’Onu”.

Senza un esecutivo riconosciuto a livello internazionale, EunavforMed è destinata allo stallo. Il comando della missione tuttavia ipotizza un futuro passaggio alla fase 3, con operazioni anche sulla costa, in collaborazione con le forze libiche e a partire dall’individuazione degli obiettivi, risolvendo i gap di intelligence sul business model dei contrabbandieri.

Secondo Credendino, “quando muoveremo alle fasi 2B e 3 ci saranno altre missioni sponsorizzate dalla comunità internazionale. Pertanto le attività di EuNavFor Med e delle altre operazioni vanno coordinate per mitigare i rischi di fratricidio. Il mandato dell’operazione europea dovrebbe essere esteso per la formazione e l’addestramento della Guardia costiera libica”.

Il terzo step, che non ha ancora ricevuto il via libera dell’UE, sarebbe in realtà il più efficace, poiché è in acque libiche che opera la maggioranza dei contrabbandieri, ma come fa sapere il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni, “nel Consiglio di Sicurezza Onu non ci sono spazi per autorizzare un simile intervento senza espressa richiesta libica”.

Quanto ai risultati effettivamente conseguiti, la missione ha contribuito all’arresto di 46 trafficanti e alla distruzione di 67 imbarcazioni. Ad oggi, sono 14 le nazioni europee che partecipano ad EuNavFor Med: Italia, Regno Unito, Germania, Francia, Spagna, Slovenia, Grecia, Lussemburgo, Belgio, Finlandia, Ungheria, Lituania, Paesi Bassi, Svezia. Al largo della Libia sono impegnate sei navi da guerra europee: una italiana, una inglese, una francese, una spagnola e due tedesche.

A queste, si aggiungeranno altri tre mezzi messi a disposizione da Inghilterra, Belgio e Slovenia, quattro elicotteri, numerosi droni e 1300 militari. I costi dell’intervento militare – al di là di contributo europeo annuo pari a circa 12 milioni di euro – sono a carico dei singoli Paesi partecipanti. L’Italia ha contribuito alla missione con uno stanziamento di 26 milioni di euro e l’impiego di 1.020 soldati.
Viviana Passalacqua

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Viviana Passalacqua
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