GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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I Servizi di Sicurezza Italiani e la Minaccia Cyber

BreakingNews/Difesa/INNOVAZIONE di

Il 27 Febbraio a Palazzo Chigi il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il Direttore Generale del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza (DIS), Prefetto Alessandro Pansa, hanno presentato la Relazione sulla Politica dell’Informazione per la Sicurezza 2016.

La Relazione e’ il rapporto annuale con il quale i Servizi di Sicurezza presentano i risultati di un anno di attivita’ in sorveglianza, prevenzione e repressione di fenomeni che possano mettere in pericolo la sicurezza dei cittadini italiani.

IL QUADRO DI RIFERIMENTO

Dal punto di vista del quadro geopolitico internazionale il 2016 e’ stato l’anno della discontinuita’: Brexit in Gran Bretagna, ascesa della nuova amministrazione Trump negli Stati Uniti, perdita’ di incisivita’ dell’Unione Europea e della Comunita’ Internazionale in genere. Contestualmente si sono aggravate le sfide rappresentata dal jihadismo internazionale, dalla crescita economica e la sicurezza delle frontiere.

L’Italia per geografia, storia e appartenenze politiche, interagisce simultaneamente con tutte queste dinamiche, in un rapporto di reciproca influenza col contesto. Stante l’elevato livello di complessita’ dei fenomeni, si va affermando nella classe dirigente e nell’opinione pubblica un concetto condiviso e diffuso di sicurezza, che supera il monopolio statele per approdare una sistema di partnership pubblico – privato.

La Relazione tratteggia quelli che sono le sfide più rilevanti per il sistema Italia: il terrorismo internazionale di matrice jihadista nelle varie forme che assume, l’immigrazione, le sfide economiche dettate dalla Brexit e dalle modifiche cui andra’ incontro il Mercato Unico, la Libia.

 

LA MINACCIA CYBER

Trasversale a tutti questi temi e’ la minaccia Cyber, a cui viene infatti dedicato il Documento di Sicurezza Nazionale, allegato alla relazione.

La prima direttrice di sviluppo viene identificata nelle “evoluzioni architetturali”, e cioe’ il potenziamento delle capacita’ cibernetica del paese.

In questo ambito, il sistema istituito nel 2013 e’ in grado di apportare costantemente correttivi grazie ad una connaturata capacita’ di autoanalisi e spinta all’adozione di nuove tecnologiche coperte da stanziamenti in aumento.

La seconda direttrice, “fenomenologica”, e’ invece incentrata sulla minaccia cyber che ha interessato soggetti rilevanti sotto il profilo della sicurezza nazionale.

La minaccia e’ multiforme, passando da rischi per gli asset critici e strategici nazionali a quelle connesse al cybercrime, al cyber-espionage ed alla cyberwarfare, per arrivare a fenomeni di hacktivism e dall’uso della rete a fini di propaganda e reclutamento da parte di gruppi terroristici transnazionali.

Sono due i framework in cui opera il Dipartimento.

Il Tavolo Tecnico CYBER-TTC e’ lo strumento per garantire le attività di raccordo inter-istituzionale.

Nel corso del 2016 il TCC ha varato il nuovo Piano Nazionale, valido per il triennio 2016 – 2018, con il quale aggiornare le capacita’ nazionali secondo le nuove direttrici di sviluppo.

Le innovazioni hanno riguardato lo sviluppo delle capacità di prevenzione e reazione ad eventi cibernetici, e il coinvolgimento del settore privato ai fini della protezione delle infrastrutture critiche – strategiche nazionali e dell’erogazione di servizi essenziali.

Il TCC e’ stato inoltre osservatore attivo nel processo NATO che ha portato alla definizione del Cyber Spazio quale nuovo dominio operativo e della necessità che in esso la NATO debba defend itself as effectively as it does in the air, on land, and at sea.

Una statuizione vincolata dal successivo Cyber Defence Pledge, l’impegno preso dai membri dell’Alleanza, di rafforzare le comuni difese.

In considerazione della potenzialita’ destabilizzante di attacchi cibernetica ad istituzioni finanziarie, il TCC ha inoltre collaborato all’istituzione del CERT della Banca d’Italia.

Per quanto riguarda invece la Partnership pubblico privato, il DIS opera tramite il TTI – Tavolo Tecnico Imprese.

Sono stati quindi organizzati incontri articolati su due livelli:

“livello strategico”, nel cui ambito vengono forniti aggiornati quadri sullo stato della minaccia cyber nel nostro Paese.

“livello tecnico”, dedicati all’analisi di “casi studio”, dei quali vengono condivisi i relativi indicatori di compromissione.

Sotto il profilo operativo, l’azione di tutela e prevenzione si è focalizzata sulla raccolta di informazioni utili alla profilazione di attori ostili al fine di ottimizzare la difesadi: Enti della PA, infrastrutture critiche, operatori privati di carattere strategico, nonche’ delle reti telematiche nazionali.

 

LE MINACCE E LE PROSPETTIVE

Attivita’ particolare e’ stata posta nello studio degli ecosistemi cibernetica quali i sociali network e nel reverse engineering di armi in grado di minarne il funzionamento.

Chiaro, infine, lo stato delle minacce:

Cyber-espionage, è stato pressoché costante l’an-damento dei “data breach” in danno di Istituzioni pubbliche ed imprese private, anche attraverso manovre di carattere persistente Queste campagne sono per lo più attribuili ad attori statutari

Cyber terrorismo, si è continuato a rilevare sui social network, da parte di gruppi estremisti, attività di comunicazione, proseli- tismo, radicalizzazione, addestramento, finanziamento e rivendicazione delle azioni ostili.

Attivismo digitale, riconducibile soprattutto alla comunità Anonymous Italia, esse hanno fatto registrare una generale diminuzione del livello tecnologico delle azioni offensive

La prospettiva di breve – medio termine e’ la crescita della minaccia cibernetica da parte di tutti gli attori, statuali, criminali, terroristici e insider con un accanimento verso i settori ad elevato know how.

Su tali settori si concentrera’, oltre che sugli altri aspetti evidenziati, l’azione del Governo Italiano per il tramite del DIS.

Yemen: la crisi dimenticata

Medio oriente – Africa/POLITICA di

Fallite le 48 ore di cessate il fuoco in atto dal 19 al 21 novembre scorso tra il gruppo ribelle Houthi e le forze fedeli al Presidente Hadi in Yemen. Molteplici sono state le violazioni da entrambe le parti sin dall’inizio della tregua, motivo per cui ne è stata esclusa un’estensione. Lo stesso cessate il fuoco previsto per la notte del 17 novembre scorso era andato in fumo in seguito a una serie di scontri verificatesi nella città di Taiz, che avevano portato all’uccisione di più di venti persone.

Se è vero che siamo lontani dalla cessione delle ostilità sul campo, ancora più remota è un’intesa politica, che dovrebbe porre fine ad un conflitto che logora il paese da ormai 20 mesi. Nelle scorse settimane sono stati intensi i colloqui e gli incontri tra il Segretario di Stato americano John Kerry, l’inviato speciale delle Nazioni Unite Ismail Ould Cheikh Ahmed e paesi mediatori come l’Oman per trattare con le parti in conflitto e concordare un piano per ripristinare stabilità e sicurezza nel paese.

Molteplici le proposte rifiutate, tra cui l’ultima presentata da Kerry, in base al quale il Presidente Hadi avrebbe dovuto cedere il potere ad un nuovo vice presidente in cambio del ritiro dei ribelli dalle maggiori città del paese e la cessione degli armamenti di questi a parti terze neutrali.

Ad oggi, nessun accordo risulta, dunque, stabilito, data la riluttanza di entrambi gli attori a cedere quella parte di potere e di controllo che hanno sul paese. Da un lato, infatti, il Presidente Hadi rifiuta di cedere il passaggio dei propri poteri, dall’altro gli Houthi premono per mantenere il proprio arsenale militare. Ciò, infatti, garantisce loro un certo potere nella politica nazionale, rendendo il movimento un plausibile nuovo Hezbollah in Yemen, oppositore politico rilevante ma anche militarmente forte.

Sebbene l’attenzione internazionale sia attualmente riposta su altri temi, il conflitto in Yemen diventa giorno dopo giorno sempre più rilevante nei giochi politici regionali e internazionali.

Facciamo un passo indietro e torniamo alle origini dello scontro, nel novembre 2011, quando in seguito alle sollevazioni popolari l’allora Presidente Ali Abdullah Saleh è costretto a cedere in potere a Abdrabbuh Mansur Hadi. Il nuovo presidente, tuttavia, non riesce a gestire diverse problematiche capillari dello stato, come la disoccupazione, la corruzione, la fame e il terrorismo, lasciando così la popolazione in balia di piaghe che eliminano ogni speranza di ripristinare la stabilità nel paese.

Nel settembre del 2014, con il supporto dell’ex presidente Saleh, il gruppo ribelle denominato Houthi, movimento politico-religioso di matrice zaidita (ramo dello Sciismo), assume il controllo della regione settentrionale del paese ed entra nella capitale Sana’a. L’allora presidente Hadi viene messo agli arresti domiciliari e costretto alla fuga verso la città di Aden nel mese successivo.

Si formano, così, due fazioni: gli Houthi, alleati di Saleh, che controllano la capitale Sana’a e il governo internazionalmente riconosciuto del Presidente Hadi, con base ad Aden. In questo scenario si inseriscono sostenitori e alleati da entrambe le parti. Nel marzo del 2015 una coalizione militare a guida saudita inizia una campagna aerea contro le postazioni ribelli, nell’ottica di restaurare il governo Hadi. Da allora più di 10.000 persone sono rimaste uccise nel conflitto e le condizioni di vita nel paese sono peggiorate drasticamente, determinando uno stato di crisi umanitaria.

Dall’altro lato, invece, per quanto ripetutamente negato, pare esserci il sostegno politico e militare dell’Iran, con un gioco simile a quello già visto in Libano con Hezbollah. Secondo il Brigadiere Generale Ahmad Asseri, portavoce della coalizione saudita, esisterebbe proprio un legame tra il gruppo terroristico Hezbollah e gli Houthi. Esponenti del gruppo libanese sarebbero, infatti, stati rintracciati tra i militanti sciiti in Yemen.

Completano il quadro i gruppi terroristici di Al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP) e lo Stato Islamico (ISIS), che sfruttano l’instabilità della regione per portare avanti la propria agenda politica, riuscendo a prendere il controllo di alcuni territori nelle province meridionali (area controllata dal governo Hadi) e rendendo sempre più complessa la possibilità di ripristinare la sicurezza nel paese.

Risulta, dunque, evidente come il conflitto in Yemen non si limiti esclusivamente alle parti direttamente in campo, ma coinvolga numerosi attori esterni e sia collegato alle dinamiche di potere dell’intera regionale mediorientale. Ancora una volta, infatti, si ritrova la coppia Arabia Saudita-Iran, in lotta per l’egemonia nella regione e si ripropone la divisione tra una componente sciita, attualmente in controllo del Nord del paese, e una sunnita, facente capo al governo Hadi.

Oltre ad essere teatro della proxy war tra Riyadh e Teheran, lo scontro in Yemen rappresenta un fattore destabilizzante anche per il commercio internazionale. L’arsenale missilistico degli Houthi garantisce, infatti, ai ribelli gli strumenti necessari per colpire le navi in transito nello stretto di Bab el-Mandeb, una delle rotte più trafficate del commercio mondiale. Circa 4 milioni di barili transitano giornalmente in questo tratto di mare: è evidente come la sicurezza in questa zona diventi una condizione necessaria non solo per gli attori regionali ma anche per ulteriori stakeholder, come i paesi europei e gli Stati Uniti, fortemente dipendenti dalle riserve energetiche proveniente da questa regione.

Diventa, dunque, più comprensibile il motivo per cui le trattative con gli Houthi includano la cessione delle armi ribelli a delle unità neutrali; altrettanto chiaro è il perché questi ultimi abbiano dichiarato di voler mantenere almeno le armi leggere, garantendosi, così, uno strumento per mantenere potere nelle dinamiche nazionali, regionali e globali.

Le consultazioni continueranno nella speranza di raggiungere un accordo il prima possibile. Resta, tuttavia, da vedere quale sarà l’atteggiamento assunto dalla nuova amministrazione americana nei confronti del problema. In base alle dichiarazioni rilasciate da Donald Trump, infatti, gli Stati Uniti dovrebbero restare fuori da conflitti che non minacciano direttamente gli interessi nazionali e la guerra in Yemen non rappresenterebbe una priorità.

 

Paola Fratantoni

Elezioni usa: incognite e attese all’alba dell’era Trump

AMERICHE/POLITICA di

La vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane ha suscitato, negli Usa e nel mondo, sensibili preoccupazioni, data la totale “verginità” politica del neoeletto e gli argomenti “politicamente scorretti”, a più riprese utilizzati durante la corsa verso la Casa Bianca.    Abbiamo assistito, nelle ultime settimane, alle manifestazioni di protesta popolare che si sono svolte negli Stati Uniti, un fenomeno cui non eravamo abituati, in quelle dimensioni e con quell’intensità di esasperazione, nei confronti dell’elezione di un Presidente di quel grande paese.    Anche in Europa si avverte il timore diffuso di una nuova era della politica americana che possa compromettere il rapporto di collaborazione e di alleanza strategica che finora si è sviluppato tra le due sponde settentrionali dell’Atlantico.    Incombe lo spettro di un tendenziale disinteresse verso il destino dell’Unione Europea.    Al tempo stesso, taluni osservatori ipotizzano la rinuncia ad un certo interventismo nelle crisi più gravi che minacciano il pianeta e un rapporto preferenziale con la Russia di Putin.

Tanto nelle cancellerie degli stati, quanto negli establishment dei partiti, l’outsider, l’uomo nuovo, estraneo agli schemi consueti della politica, incute sempre una certa diffidenza ed inquietudine, soprattutto quando linguaggio e programmi si rivelino decisamente stonati, rispetto alle posizioni comunemente espresse dalle leadership “professionali”.    E verso Trump non  si registra, peraltro, solo la normale perplessità che suscita il nuovo ed il “diverso”, il neoeletto ci ha sicuramente messo del suo, nel corso della campagna presidenziale e un po’ anche dopo, per evidenziare una “controtendenza”, nei confronti di posizioni e di schemi ormai consolidati.    L’allungamento del muro con il Messico, il respingimento dei clandestini, il processo alla sua rivale Hillary, la promessa abrogazione dell’Obamacare, il contrasto delle pratiche abortive, una certa diffidenza verso gli islamici sono temi che dividono inevitabilmente l’opinione pubblica  e suscitano allarme e repulsione in vasti settori della stessa, negli Stati Uniti e fuori.      La stessa immagine personale del tycoon neoeletto è stata pesantemente compromessa da battute poco edificanti sul genere femminile, riemerse negli ultimi giorni della campagna elettorale.    Ma i più “allarmati” devono tenere comunque conto che l’assetto costituzionale degli Stati Uniti prevede forme di controllo e di contrappeso che non consentono a un Presidente di discostarsi sensibilmente dall’operato dei predecessori, soprattutto su valori fondamentali della convivenza derivanti dai principi della democrazia e dello stato di diritto.     Occorre pur sempre una vigilanza costante dell’opinione pubblica e dei media, perché, in alcuni frangenti di panico e di emergenza, si possono sempre annidare tentazioni “elusive” delle conquiste di civiltà e del rispetto dei diritti umani e delle minoranze.    Questi rischi si corrono soprattutto, quando la cultura, la tensione etica che ha favorito e promosso queste conquiste, venga posta in discussione o relegata in una condizione di marginalità.    Ecco, su questo Trump dovrà dare dei segnali chiari, rasserenando quella parte di America che appare profondamente turbata dalla sua elezione.    Già in queste settimane successive all’election day, l’approccio del Presidente eletto sui temi principali del suo programma politico sembra un po’diverso e più cauto, rispetto ai toni di una campagna elettorale fin troppo aggressiva e conflittuale.   Ci sono poi i contrappesi (Congresso, Corte Suprema, in particolare) che costituiscono una solida garanzia.    Ma i segnali di moderazione, negli obiettivi e nella scelta dei collaboratori, sarebbero utili a rassicurare l’opinione pubblica interna e la comunità internazionale.

Questo vale per le politiche migratorie, la riforma sanitaria – lasciando comunque una forma di copertura per i più poveri -, la sicurezza e il rispetto di etnie, culture e religioni, Islam in particolare, distinguendo nettamente tra la professione di questa fede e i fenomeni eversivi e terroristici che, arbitrariamente, nel suo nome scatenano violenze efferate e conflitti.       Il voto a Trump è stato soprattutto un voto “contro”, di protesta nei confronti dell’establishment dominante, ha evidenziato la frustrazione della classe media, legata alla crisi economica, alla riduzione dei salari e dei posti di lavoro, anche a causa della delocalizzazione produttiva.   Un voto ispirato dall’insofferenza verso la vecchia classe politica – repubblicana e democratica – più che da fondate aspettative nei confronti del vulcanico candidato “outsider” e delle sue promesse.    Ma è stato anche un voto di accorata esortazione verso il cambiamento !!   Gli obiettivi di politica economica del tycoon catapultatosi in politica sollecitano l’ansia di riscatto di quell’America che non si sente più rappresentata dalle élites tradizionali: investimenti nelle infrastrutture (strade, ponti, aeroporti), la promozione e l’agevolazione degli insediamenti produttivi sul territorio nazionale, una certa dose di protezionismo, dalla Cina o da altri  “giganti” economici stranieri.    E, soprattutto, un consistente taglio di tasse, non semplice da realizzare con una maggioranza del suo stesso partito, nei due rami del Congresso, che però sembra preferire i tagli di bilancio.  Difficile conciliare una politica espansiva di investimenti, con la riduzione delle entrate fiscali e con l’orientamento repubblicano per i tagli di spesa.    Vedremo, in questi anni, se la ricetta funzionerà, anche a dispetto di queste criticità.     Di fronte ai fenomeni nuovi che si impongono nello scenario storico-politico, occorre sempre abbinare  ad un sano e controllato scetticismo una certa dose di fiducia e di ottimismo, confidando nelle risorse della democrazia, del pluralismo, delle forme possibili di controllo popolare.    A volte, le apparenze iniziali e i pregiudizi ingannano.      Forse non c’è un’evidente analogia, ma la vittoria di Trump mi ha ricondotto, con la memoria, a quella di Ronald Reagan su Jimmy Carter, nel 1980.   Certamente altri tempi e altra storia, molte differenze, Reagan era già un politico a pieno titolo, ex Governatore dello Stato più popoloso dell’Unione, la California e non così  “politicamente scorretto” nel linguaggio, come si è rivelato Trump, nella campagna elettorale.  Ma anche lui era considerato troppo conservatore – si era appena concluso il decennio dei “Settanta”, segnato dall’egemonia culturale di una certa sinistra intellettuale -, anche lui un poco “outsider”, per i suoi trascorsi di attore, anche lui non era molto amato dall’establishment del Partito Repubblicano – il suo partito, come nel caso di Trump – ed era ritenuto poco esperto nel campo della politica internazionale, forse perché l’approccio appariva, in qualche misura, semplicistico e approssimativo.    Eppure, nel corso dei suoi due mandati (1981-1989), si rivelò uno dei più grandi presidenti, tanto in politica interna, quanto nelle strategie internazionali e la stessa caduta del comunismo nell’Europa orientale (“Mr. Gorbaciov, tear down this wall !”), quanto la fine della Guerra Fredda possono ritenersi un effetto indotto delle sue scelte politiche.    E ancora oggi è la vera icona, l’uomo – simbolo, di quel Partito Repubblicano che all’epoca non sembrava del tutto persuaso del suo valore.       Riguardo a Trump…, staremo a vedere…, fiduciosi e senza inutili pregiudizi, rispettando il risultato elettorale.

Di fondamentale importanza deve ritenersi la scelta dei componenti dello staff, collaboratori, consiglieri, ministri.    Questo vale soprattutto per un Presidente privo di esperienza politica.  E’ all’interno della squadra che, in genere, maturano le decisioni importanti.

Nello scenario internazionale, sarà necessario, a mio giudizio, assegnare la priorità alla ricostituzione degli Stati falliti – Siria e Libia, in particolare –, fonte di tensione e di instabilità.   E, soprattutto, chiudere il conflitto siriano, con la catastrofe umanitaria che quotidianamente produce, in termini di vittime, sofferenze e migrazioni di massa.      La maggiore apertura verso Putin dovrebbe spingere Trump verso una “distensione costruttiva”, superando il clima di revival di Guerra Fredda che si è determinato negli ultimi anni e realizzando una forma di cooperazione finalizzata soprattutto alla pacificazione della Siria.   Una cooperazione che includa a pieno titolo un’Europa  che appare oggi priva  della necessaria coesione e, soprattutto, di una leadership forte e rappresentativa delle diverse sensibilità, nella trepidante attesa dell’esito delle urne in Francia e Germania.     Ma la sfida deve essere raccolta, rilanciando la politica estera e di sicurezza comune.   Le divisioni e contraddizioni potrebbero, infatti, diventare il pretesto per una marginalizzazione della costruzione comunitaria, stretta tra i due “giganti” – non particolarmente “europeisti” – dello scenario mondiale.

Hillary Clinton vince il primo dibattito presidenziale

AMERICHE/POLITICA di

Il primo dibattito presidenziale tra Hillary Clinton e Donald Trump si è svolto il 26 settembre all’Hofstra University di Hempstead, New York, a partire dalle 9 di sera. La candidata democratica Hillary Clinton ed il repubblicano Donald Trump si sono sfidati in un acceso dibattito su importati temi di politica interna ed estera. Questo primo dibattito ha rappresentato per gli statunitensi l’opportunità di conoscere meglio le proposte politiche e la personalità dei due candidati alla Casa Bianca. Le elezioni presidenziali sono programmate per il prossimo 8 novembre ed il consenso verso i due candidati dipenderà in parte dalla loro performance nel corso dei tre dibattiti in programma.

Il dibattito è durato 90 minuti ed è stato suddiviso in tre principali aree tematiche: la prosperità, la direzione che seguirà il Paese e la sicurezza. Per quanto riguarda la prima area tematica, i candidati sono stati invitati ad esprimere la loro posizione sul tema del lavoro. Clinton ha proposto al riguardo di creare un’economia che sia in grado di avvantaggiare tutte le classi sociali e non soltanto i più ricchi. L’idea è creare nuovi posti di lavoro investendo in infrastrutture, innovazione, tecnologia, energie rinnovabili e piccole imprese. Inoltre, Hillary ha sostenuto la necessità di rendere la società più equa alzando il salario minimo, promuovendo il diritto alla retribuzione dei giorni di malattia, i permessi familiari retribuiti e l’università gratuita. D’altra parte, Donald Trump ha sostenuto che il principale problema relativo al lavoro negli Stati Uniti è la fuga delle imprese all’estero. Ciò si verifica a causa delle tasse elevate che le imprese pagano nel Paese. Successivamente, ai due candidati è stato chiesto di esporre i loro programmi relativamente alla tassazione. Donald Trump ha quindi proposto di tagliare le imposte alle imprese in modo consistente dal 35% al 15%, in modo da attrarre imprese nel Paese e creare nuovi posti di lavoro. La Clinton, invece, ha espresso una visione opposta sul prelievo fiscale, affermando che il suo programma prevede un incremento delle imposte sulle classi abbienti ed una riduzione delle imposte per le piccole imprese e le classi sociali più svantaggiate. Il suo scopo è permettere l’affermarsi di una più consistente classe media e ridurre le disuguaglianze. A questo punto del dibattito, è stata sollevata la questione della mancata pubblicazione da parte di Trump delle imposte da lui pagate. Pur non trattandosi di un obbligo, i precedenti Presidenti degli Stati Uniti hanno adottato una prassi relativa alla pubblicazione dei documenti relativi al pagamento delle imposte, in modo da dare prova della loro correttezza di fronte agli elettori. Trump ha risposto all’accusa affermando che renderà noti tali documenti quando Hillary pubblicherà le sue email.

Con riferimento alla seconda area tematica, i due candidati sono stati interrogati sulla delicata questione razziale esistente nel Paese. Hillary Clinton ha evidenziato come la prima sfida sarà ristabilire fiducia tra le collettività statunitensi e la polizia. Tale sfida richiede, a suo avviso, una riforma della giustizia e l’introduzione di restrizioni al possesso di armi. Diversamente, Trump ha affermato la necessità di ristabilire legge ed ordine rafforzando i poteri della polizia e promuovendo metodi come lo “Stop and frisk”. Si tratta di una pratica usata dalla polizia che consiste nel fermare persone ritenute sospette e sottoporle a perquisizione. Tuttavia, la Clinton ha ricordato che tale metodo è stato dichiarato incostituzionale.

In relazione alla terza area tematica, relativa alla sicurezza, i candidati hanno affrontato il tema degli attacchi informatici diretti a sottrarre informazioni riservate al Paese. La Clinton ha evidenziato come la sicurezza informatica sarà una priorità per il prossimo Presidente degli Stati Uniti ed ha accusato espressamente la Russia di essere responsabile di un recente attacco informatico. Trump, invece, ha chiarito che non è stata provata la responsabilità della Russia nell’attacco, che potrebbe esser stato orchestrato da un altro Paese. Successivamente, é stato approfondito il tema dell’home grown terrorism e dell’ISIS. Anche su questo punto i candidati hanno espresso posizioni diverse. Trump ha sostenuto che la nascita dell’ISIS è stata il prodotto dei maldestri interventi in Medio Oriente realizzati dai precedenti governi USA. Ha, inoltre, criticato una politica estera fondata sugli interventi militari all’estero e l’alleanza della NATO, considerata un peso economico considerevole per il Paese. D’altra parte Hillary Clinton ha espresso il proprio supporto alla politica estera del Presidente Obama, ricordando che sono state ottenute importanti vittorie senza l’uso delle armi, come l’accordo con l’Iran. Ha inoltre ricordato l’importanza della NATO per garantire la sicurezza degli Stati Uniti, così come la validità degli altri trattati internazionali stipulati dagli USA con i suoi alleati.

Una volta conclusosi il dibattito, un sondaggio ha rilevato che il 62% dei telespettatori ha preferito Hillary Clinton, mentre solo un 27% ha votato per Donald Trump. Hillary Clinton è apparsa al pubblico molto più preparata sul programma politico ed allo stesso tempo ha saputo gestire gli attacchi rivolti contro la sua persona da Trump sorridendo e mantenendo la calma nelle risposte. Al contrario, Trump ha reagito alle provocazioni di Hillary Clinton in modo più spontaneo ed irrequieto, arrivando anche ad alzare il tono della voce. I prossimi dibattiti tra i due candidati, in programma per il 9 ed il 19 di ottobre, saranno fondamentali per capire chi sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti.

In Francia cresce l’opposizione contro i TTIP

ECONOMIA/EUROPA di

Hollande: “Accordo impossibile prima della fine dell’anno”

Si parla ormai da alcuni mesi del Transatlantic Trade Investment Partnership (TTIP) tra  Europa e  Stati Uniti. Per spiegarla in maniera molto semplicistica si tratta di una serie di accordi commerciali tra Europa e Usa che vedrebbero come primo effetto immediato quello della diminuzione di barriere economiche che intercorrono tra i due mercati occidentali, con due principali imminenti conseguenze: se da un lato verrà favorito ancora maggiormente l’export di prodotti made in Europe, l’altra faccia della medaglia prevede anche l’immissione di prodotti a stelle e strisce nei nostri mercati.

Le polemiche fino a questo momento sono state incentrate proprio su questo ultimo punto. Molti dei prodotti che arriverebbero dal mercato statunitense infatti non rispetterebbero i canoni delle normative europee in materia di OGM e in generale di presenze di alcune sostanze in generi alimentari e non, che superano le soglie previste in Europa.
Banalizzando: un prodotto geneticamente modificato, proveniente dagli USA, potrebbe avere un costo (ma anche una qualità) inferiore, con la conseguenza che ci potrebbe essere una crisi delle alternative “di qualità” proposte dal mercato europeo.

A questo proposito  il Ministro francese per il Commercio Estero Matthias Fekl, ha dichiarato che nella prossimo consiglio dei ministri dell’economia europei che si terrà il 22 settembre a Bratislava, la Francia non ha il supporto politico per la ratifica dei trattati . Ricordiamo che nonostante i quattordici round di trattative che si sono concluse senza esito, il portavoce della Cancelliera tedesca Angela Merkel ha dichiarato lo scorso 29 agosto che le trattative sono ancora aperte.

Il popolo francese però sta iniziando a sollevare il suo malcontento così come quello tedesco. Entrambe le cittadinanze temono  delle ripercussioni molto gravi nel settore dell’agricoltura. Lo stesso presidente François Hollande ha dichiarato  il 30 agosto,  nel corso della settimana degli Ambasciatori, che “ Gli accordi non si raggiungeranno prima della fine dell’anno. Le trattative sono assenti, le posizioni non sono chiare e lo squilibrio evidente. Quindi credo che sia meglio analizzare lucidamente i fattori prima di continuare un discorso che non abbia delle basi solide e definite. Ritengo che la cosa migliore sia informare tutte le parti in causa che la  Francia non intende dare la sua approvazione in queste condizioni, ovvero senza le basi per una risoluzione positiva. La Francia vi prepara ad una visione realistica e non vuole creare illusioni: sarà impossibile concludere le trattative prima della fine del mandato dell’attuale Presidente degli Stati Uniti “.

Parole decise e pesanti quelle del presidente Hollande, che si trova in aperto contrasto con quanto dichiarato dalla sua corrispettiva tedesca . Se la Francia riuscirà a mantenere forti le sue posizioni, l’amministrazione Obama, al termine del suo mandato, non riuscirà a vedere la fine di queste trattative estremamente lunghe e complesse.

Laura Laportella

Gli “Occhi della Guerra” realizzano il primo reportage dal fronte a 360 gradi

EUROPA/INNOVAZIONE/Video di

Si può entrare dentro la guerra? Camminare nelle trincee della prima linea e provare la sensazione di chi sta lì? Gli Occhi della Guerra lo hanno fatto. Grazie ad una campagna di crowdfunding terminata con ampio successo, Gli Occhi della guerra hanno mandato tre reporter nel Donbass, la regione ucraina dove è in atto una vera e proprio guerra di cui l’Occidente non parla.

Andrea Sceresini, Lorenzo Giroffi, Alfredo Bosco hanno realizzato il primo reportage a 360 gradi dal fronte di un conflitto dimenticato nel cuore dell’Europa che continua a fare vittime, da entrambe le parti: da una parte i ribelli filorussi, appoggiati politicamente e militarmente dal Cremlino, dall’altra l’esercito regolare ucraino, le cui posizioni corrono a poca distanza dagli ultimi sobborghi cittadini. Muovendo il mouse sullo schermo, è possibile navigare a tutto tondo all’interno dell’inquadratura, osservando da vicino ogni particolare e ogni movimento.

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“Gli Occhi della Guerra continuano a puntare sull’innovazione: dopo la scelta di fare crowdfunding, questa volta abbiamo deciso di puntare sui video 360. Volevamo che il lettore facesse esperienza diretta della guerra, stando al fianco del reporter, seguendolo, vedendo quello che vede lui. Insomma, un’esperienza che solo i videogiochi riescono a dare”, spiega Andrea Pontini, Ceo de ilGiornale.it

Con i video 360 – pubblicati sul sul sito www.gliocchidellaguerra.it e sul canale youtube de Gli Occhi della Guerra – il lettore viene catapultato nel bunker a pochi metri da un feroce bombardamento, cammina sulle macerie dopo la battaglia, entra nelle case distutte dei civili disperati. Un’esperienza unica che permette di sentire da vicino l’odore della guerra, di sentire sulla pelle la paura, di provare compassione con chi la guerra la subisce passivamente, di sentire, insomma, quello che sentono i reporter.

“Tutto questo è stato possibile grazie alla collaborazione con Ricoh Theta S che ha creduto sin dall’inizio nell’iniziativa. Con Ricoh Theta S, abbiamo realizzato il primo reportage ‘immersivo’ da un fronte caldo. Altri esperimenti sono stati fatti ma mai in prima linea”, continua Pontini.

Questa è la risposta de Gli Occhi della Guerra al silenzio assordante che da mesi circonda il Donbass. I servizi sono stati girati nella zona dell’aeroporto di Donetsk, tra le trincee di Spartak e in altre località dove ogni giorno, su entrambi i lati della barricata, migliaia di ragazzi vivono, lottano e muoiono in nome di una guerra sporca che l’Occidente si ostina a non vedere. Questo lavoro è dedicato a tutti loro.

Brexit: un test sull’Europa?

EUROPA/POLITICA di

La campagna già intensa ed accesa sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea ha assunto connotati di cupa tragedia, con il barbaro delitto di cui è rimasta vittima la giovane deputata laburista ed europeista Jo Cox.   Il sangue innocente di una coraggiosa paladina dell’ideale europeo alimenta, da un lato, la carica emotiva che accompagna la consultazione referendaria, dall’altro dovrebbe indurre i sostenitori delle opzioni contrapposte a recuperare serenità di analisi e di giudizio.   Credo che, innanzitutto, debba essere sgomberato il campo dalle tinte fosche e dagli atteggiamenti ritorsivi che, pure, hanno contrassegnato, in ambito internazionale, la polemica sulla Brexit.

Come ci ha recentemente ricordato un esperto del calibro di Enzo Moavero Milanesi (Corriere della Sera del 17 giugno scorso), la Gran Bretagna ha sempre rivestito una sorta di “status” particolare, all’interno dell’Unione Europea.   Patria dell’euroscetticismo, è rimasta fuori dall’Unione monetaria, dal sistema Schengen sulla libera circolazione, da taluni vincoli in materia di diritti fondamentali e di giustizia. La sua resistenza alle forme più stringenti di integrazione non le ha tuttavia impedito di concorrere ai notevoli passi in avanti compiuti dai paesi europei nella prospettiva dell’unione politica, nell’ultimo quarto di secolo. E, come la campagna referendaria ha reso evidente, buona parte della sua popolazione, che forse giovedì si rivelerà la maggioranza, crede nella prospettiva dell’integrazione europea.   Pur dosando con attenzione il suo consenso, rispetto alle decisioni comuni e caratterizzandosi, in genere, nel contrasto delle politiche più restrittive delle sovranità nazionali, la Gran Bretagna partecipa alla politica estera e di sicurezza dell’Unione e costituisce una risorsa essenziale, ai fini di consolidare il ruolo dell’Europa nei delicati scenari globali.   Trovo dunque condivisibili gli appelli diffusi contro l’opzione Brexit, ma non gli accenti vagamente ritorsivi ed intimidatori che sembrino precludere nuovi accordi e trattati con il Regno Unito o gravi ripercussioni economiche e commerciali.

Proprio così si rafforzano nell’opinione pubblica britannica, a mio giudizio, le inclinazioni più ostili all’Europa.   Come rileva puntualmente Moavero nell’articolo citato, in caso di vittoria dei fautori della Brexit, la successiva adesione del Regno Unito allo Spazio Economico Europeo (SEE) e la rinnovata sottoscrizione degli accordi commerciali di cui ora è parte, quale membro UE, attenuerebbero sensibilmente i rischi di ricadute economiche negative.   Ancorché drammatizzare e intimidire, occorrerebbe sottolineare gli effetti benefici della permanenza del Regno nell’Unione.   Per l’uno e per l’altra.   Perché, se è vero, come ha rilevato il premier Cameron, che il suo paese perderebbe taluni benefici e opportunità – soprattutto in termini di welfare -, è altrettanto vero che, per la prima volta, in caso di Brexit, un Paese membro lascerebbe l’UE, creando un precedente che potrebbe rivelarsi contagioso.

In uno scenario in cui si rafforzano i populismi e i neonazionalismi antieuropei e sembra crescere l’insofferenza verso vincoli e oneri derivanti dall’appartenenza all’Unione – basti pensare al tema della gestione dei flussi migratori – si potrebbe innescare una deriva disgregativa dagli esiti imprevedibili.   Ci ritroveremmo un’Europa “a porte girevoli”, in cui si entra e si esce, a seconda delle opportunità e del gradimento delle politiche comunitarie.   Tale condizione favorirebbe, forse, la tendenza a promuovere le cosiddette “cooperazioni rafforzate” e a stimolare nuclei ristretti di paesi di più sicura “osservanza” europeista a realizzare modelli di più stringente integrazione, soprattutto su temi centrali, sotto il profilo politico, come le relazioni internazionali, la sicurezza e la difesa, i flussi migratori, la giustizia, i diritti civili, il welfare. Ma le “porte girevoli” determinerebbero anche una condizione di permanente precarietà del processo di integrazione, la possibilità di disertare in qualsiasi momento le intese intercorse e le obbligazioni assunte, poteri decisionali sempre più sbilanciati a favore degli Stati nazionali – , pronti magari a minacciare l’uscita, in caso di dissenso dalle politiche comuni – rispetto a quelli delle istituzioni comunitarie.

In definitiva, un cammino più incerto e discontinuo che potrebbe allentare il vincolo tra i paesi membri e indurre una condizione di complessiva debolezza dell’Europa nel suo complesso e, forse, dell’intero occidente, rispetto ai giganti emergenti, in particolare la Cina, come ha rilevato in questi giorni il Premio Nobel Shimon Peres.   Più che a un modello di federazione politica, rischieremmo di tendere verso quello della CSI, sorta per conservare una solidarietà tra le repubbliche ex sovietiche e ben lontana, nel suo concreto sviluppo storico, dal disegno di integrazione dei padri fondatori dell’Europa comunitaria.   Per questo il referendum su Brexit, nell’immaginario collettivo, al di là del quesito in se stesso, ha ingenerato la sensazione di una sorta di giudizio universale sulla tenuta dell’Unione.

Abuso di posizione dominante nei trasporti marittimi italiani

ECONOMIA/EUROPA di

In commissione Europea è stata presentata una interrogazione parlamentare per spingere l’autorità a verificare se il mercato italiano del trasporto marittimo sia effettivamente equilibrato.

L’interrogazione è stata presentata dall’Europarlamentare Maullu di Forza Italia che ha voluto sottolineare come le recenti operazioni di acquisizione verificatesi in Italia possano danneggiare i cittadini, “L’interrogazione che ho depositato – ha dichiarato Maullu –  chiede alla Commissione europea di attivarsi per vietare atteggiamenti di abuso della posizione dominante sul mercato interno. Il libero mercato deve sempre garantire una sana concorrenza, con il miglioramento dei servizi, l’affidabilità delle linee e l’equilibrio delle tariffe”

La stessa  l’Autorità Garante per la Concorrenza e il mercato italiana  ha rilevato come l’acquisizione della società Moby da parte della Compagnia Italiana Navigazione che fa’ riferimento al Gruppo Onorato Navigazione, sia di fatto un aggregazione superiore al massimo consentito.

Lo scorso 25 febbraio 2016 è stata presentata la nuova compagine del gruppo Onorato Navigazione che ad oggi comprende le società Tirrenia, Toremar e Moby diventando il primo gruppo passeggeri del Mediterraneo con una flotta di 64 navi, 4.000 occupati, 6,2 milioni di passeggeri trasportati, 25 porti collegati, 33mila viaggi effettuati nell’ultimo anno.

A Brussels  l’on. Maullu ha presentato nei giorni scorsi l’ interrogazione parlamentare per spingere la commissione ad una valutazione delle condizioni di mercato dei trasporti marittimi in italia, “ C’è un’effettiva mancanza di sana concorrenza sulle rotte dei traghetti che collegano il continente alla Sardegna” ha dichiarato Maullu a seguito della sua iniziativa “ L’avvicinarsi dell’estate fa emergere questo problema con maggiore forza, i cittadini e i turisti che vogliono raggiungere l’isola si vedono applicate tariffe molto alte e condizioni poco vantaggiose rispetto ad altre mete turistiche”

Una situazione ben nota all’antitrust italiano che nel mese di aprile ha denunciato la CIN ( Compagnia italiana di Navigazione) di posizione dominante nei trasporti marittimi

L’analisi svolta dal AGCM  ha evidenziato che le rotte tra  Civitavecchia-Olbia e Genova-Olbia, hanno subito negli ultimi anni una forte contrazione, determinando l’uscita di tutti gli operatori ad eccezione di CIN e Moby che sono parte dello stesso gruppo.

In questo contesto, CIN, pur essendo partecipata per una quota del 40% da Moby, si è comportata nei confronti di quest’ultima come un operatore in concorrenza,  così acquisendo crescenti quote di mercato ai suoi danni nelle stagioni estive 2013 e 2014.

Il mercato di fatto non presenta un numero adeguato di concorrenti che possano permettere una offerta di prezzi  in competizione a favore dei clienti finali e soprattutto ai danni di quella che veniva considerata continuità territoriale per i residenti delle isole maggiori che si vedono oggi penalizzati negli spostamenti da e per il continente. Su questo tema le altre compagnie di navigazione mantengono il riserbo e non concedono interviste o dichiarazioni .

L’interrogazione dell’Europarlamentare sembra avere lo scopo di spingere le istituzioni comunitarie a vigiliare sull’effettivo rispetto delle norme garanti della concorrenza e che siano effettivamente applicate misure tali da favorire un libero mercato come indicato dall’ACGM italiana che ha sentenziato che  di l’acquisizione da parte di Onorato Partecipazioni S.r.l. del controllo esclusivo di Moby S.p.A. e di Compagnia Italiana di Navigazione S.p.A., sia determinante nella costituzione di una  posizione dominante nel mercato dei servizi di trasporto marittimo di passeggeri, autovetture e merci sulle rotte Genova – Olbia e Civitavecchia – Olbia.

Le isole maggiori affrontano così una nuova stagione turistica con un calo delle presenze costante negli ultimi anni causato in primis dai costi di trasporto marittimo, calo che danneggia l’economia della Sardegna già fortemente provata dalla crisi e che vede nel settore turistico la sua unica possibilità di resistere alla crisi.

Russia, varata nuova legge antiterrorismo

Asia/POLITICA di

Da quando il conflitto è alle porte la Federazione Russa ha pensato di costituire uno schermo di tipo giuridico anti-terroistico, che però si sta rivelando essere solo un altro dei tentativi per centralizzare e rafforzare il potere dello Stato. La Duma si propone di inasprire le sanzioni per il terrorismo e l’estremismo, e, inoltre, vietare l’espatrio a coloro che possono essere sospettati di aver compiuti atti riconducibili al terrorismo. In effetti la minaccia alla quiete pubblica nelle ultime settimane, come ad esempio l’attacco degli estremisti a Stavropol’, ha fatto sì che fosse necessaria un’iniziativa del genere.
Il giorno 11 aprile 2016 sono stati presentati al parlamento due disegni di legge che andrebbero ad incidere norme contenute nel Codice Penale. Tali modifiche sono state proposte da un deputato della Duma Irina Yarovaya e dal Presidente del Comitato del Consiglio della Federazione sulla difesa e la sicurezza Viktor Ozerov.

Le modifiche sono svolte non solo nella direzione di una più severa pena per le attività affini al terrorismo. Esse andrebbero a colpire immediatamente un certo numero di sfere di vita dei cittadini, enti pubblici e strutture commerciali. L’estremismo può essere considerato anche un post su un social network, se si trova ad essere secondo il nuovo Art. 280 del codice penale affine a quelle attività considerate estremiste. Si innalza il tempo della detenzione e vengono maggiorate le multe. Sono state prese delle misure in materia di revoca della cittadinanza per coloro che sono sotto processo per atti di terrorismo e l’estremismo e impedito loro l’espatrio. E’ stata ridotta la soglia di responsabilità per i minori che dai 16 scende ai 14 anni. Inoltre le nuove sanzioni prevedono da 3000 a 5000 rubli per i cittadini che non si conformano all’obbligo di notificare al Roskomnadzor  le informazioni riguardanti l’organizzazione o lo scambio di dati tra gli utenti in rete, così anche  come violazione del dovere di memorizzare i dati per 6 mesi.

Gli autori di un nuovo pacchetto di iniziative anti-estremista vogliono in particolare limitare l’uscita dal Paese per “Ribellione armata” (Art.279 codice penale) o “Attacco contro persone o istituzioni che godono di protezione internazionale” (art. 360 del codice penale). Sono stati proposti degli articoli anche per il “terrorismo internazionale”, con la pena da 15 anni all’ergastolo, senza possibilità di libertà condizionale, e senza un termine di prescrizione e “Promozione di attività estremista”.

Oltre all’inserimento degli articoli ex novo sono state proposte anche delle puntualizzazioni come ad esempio nelle materie sulla cittadinanza della Federazione Russa. Ne può essere effettuata la revoca qualora il soggetto rientri nella sfera di giurisdizione di quegli articoli che ne provino l’affiliazione ad attività estremiste, con una puntualizzazione che esclude i casi di revoca “se una persona non ha altra cittadinanza o garanzie della sua acquisizione.”
La particolarità di queste leggi è che possono essere rivolti a chiunque. Il fatto che l’imputato o l’indagato rimarrà sul territorio della Russia, non influenzerà la sicurezza dei cittadini. Allo stesso modo, non ha alcuna importanza il fatto che per l’appartenenza a un gruppo armato illegale la responsabilità sia scesa a  14 anni. Gli autori avevano in mente la minaccia rappresentata dall’ISIS, ma i meccanismi di queste nuove leggi possono indurre in suoi abusi, grazie alle linee larghe che non hanno logica organica ma un insieme di azioni volte a rafforzare le misure di controllo. Anche il deputato della Duma di Stato Dmitry Gudkov ha puntualizzato come articoli come quelli che trattano la responsabilità la “promozione dell’attività estremista” possono considerarsi dirette all’eliminazione dell’opposizione del governo.  

La piattaforma Talk.rublacklist.net ha raccolto commenti inerenti a tale disegno di legge. Ne è risultato che la revisione è vista come un nuovo criterio per classificare le attività terroristiche sotto forma di “attività che destabilizzano le autorità”. Si estende il controllo delle comunicazioni di rete dei cittadini. Hosting provider, proprietari di siti web e altre persone (comprese le risorse estere), saranno  costretti a memorizzare i dati sull’ammissione, il trasferimento, il trasporto, la manipolazione varie informazioni elettroniche per sei mesi. Si parla anche dei pagamenti elettronici: saranno limitati quelli non personalizzati, ossia pagamenti effettuati senza identificare il cliente. Questo potrebbe rappresentare una lesione delle libertà personali che concernono sopratutto l’unione di più gruppi e la condivisione degli interessi dei consociati.

Così con il proposito di svolgere delle attività “anti-terroristiche”, i nuovi emendamenti risolvono contemporaneamente alcuni problemi rilevanti per La Federazione Russa come il rafforzamento dei poteri dell’FSB e della Banca Centrale,  Il rafforzamento del controllo sulle comunicazioni di rete dei cittadini, rafforzamento del controllo sulle operazioni finanziarie dei cittadini, con l’ausilio di mezzi elettronici di pagamento, rafforzamento del controllo sulle attività delle ONG.

Yauheniya Dzemianchuk

Alessandro Conte

Egitto: il caso Regeni e gli strascichi libici

La questione dei diritti umani. Il comportamento ambiguo della Francia. La Libia. L’uccisione di Giulio Regeni e lo scontro diplomatico tra Roma e Il Cairo sulle dinamiche legate alla morte del ricercatore italiano si legano ad altre questioni geopolitiche.

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“Abbiamo una visione diversa dei diritti umani rispetto all’Unione Europea. Non potete immaginare cosa succederebbe al mondo intero se questo Paese cadesse. Ciò che sta avvenendo in Egitto è un tentativo di spaccare le istituzioni dello Stato. Siamo sempre pronti a ricevere gli inquirenti italiani affinché si assicurino di tutte le misure che stiamo attivando a questo proposito”.

Queste le parole del presidente egiziano Al Sisi nel corso della conferenza stampa congiunta del 17 aprile con il suo omologo francese Francois Hollande al termine del bilaterale tra i due Paesi. Parole di facciata, volte a ricucire lo strappo con l’Italia, a seguito delle imbarazzanti indagini sulla morte di Regeni, e a rifarsi un’immagine compatibile con l’opinione pubblica internazionale, viste le continue violazioni dei diritti umani in Egitto svelate dalle varie ONG e messe in evidenza proprio dopo le torture subite dal dottorando italiano.

I rapporti tra Italia ed Egitto sono al minimo storico. Lo dimostra il richiamo dell’ambasciatore Maurizio Massari, lo dimostrano i pochi stralci messi a disposizione della Procura di Roma, incredula di fronte al fatto che la Procura Generale de Il Cairo stia insistendo sull’omicidio ad opera della banda criminale.

“In base a tali sviluppi, si rende necessaria una valutazione urgente delle iniziative più opportune per rilanciare l’impegno volto ad accertare la verità sul barbaro omicidio di Giulio Regeni”, si legge nel comunicato pubblicato dalla Farnesina venerdì 8 aprile.

Parole che fanno seguito alle tante denunce fatte in particolar modo da Amnesty International, che smentiscono le parole di Al Sisi e la versione fornita dalle autorità egiziane: “Secondo gli ultimi dati forniti dall’organizzazione egiziana “El Nadim”, che il Governo ha per altro minacciato di chiudere, dall’inizio di quest’anno i casi accertati di tortura in danno di cittadini egiziani sono stati 88 e in 8 casi c’è stato il morto – afferma il portavoce italiano di Amnesty International Riccardo Noury in un’intervista a La Repubblica -. Ora, è vero che in questo momento non esistono prove in grado di sostenere che Giulio Regeni sia stato torturato da apparati dello Stato per ordine delle autorità di quello Stato. Ma è altrettanto vero che questo sospetto esiste, è legittimo, è sostenuto dagli esiti dell’autopsia sul cadavere di Giulio, dagli elementi indiziari emersi sin qui dall’indagine e dunque bisogna che questo sospetto il governo egiziano ce lo tolga”.

Una battaglia, quella sui diritti umani e sulla tragica morte di Regeni, fatta propria dal New York Times: “Appoggiamo la battaglia dell’Italia. Gli abusi dei diritti umani in Egitto sotto il presidente Al Sisi hanno raggiunto nuovi picchi, e nonostante ciò, i governi che commerciano con l’Egitto e lo armano hanno continuato a fare affari come se niente fosse”.

Una dura reprimenda e un riferimento non celato alla Francia. L’incontro della scorsa settimana tra Hollande e Al Sisi, infatti, è servito a rinvigorire i legami commerciali tra i due Paesi, stimabili in 2,5 miliardi l’anno. Mentre le flebili denunce sui diritti umani da parte del presidente francese nel corso della conferenza stampa finale sembrano essere state fatte per salvare le apparenze.

Il gelo tra Italia ed Egitto potrebbe essere sfruttato a proprio vantaggio non solo dalla Francia, ma anche dalla Germania e dalla Gran Bretagna, nonostante il governo britannico abbia accolto la petizione di numerosi accademici e studenti e abbia chiesto “più trasparenza nelle indagini sulla morte di Giulio Regeni”.

Non solo motivi economici, ma anche risvolti geopolitici attinenti alla Libia. Se fino ad ora l’appoggio egiziano al generale Haftar e al governo di Tobruk a discapito del nuovo governo di Serraj era cosa palese, più fonti italiane ed internazionali rilanciano l’idea che anche la Francia appoggi segretamente l’esecutivo della Cirenaica a causa della presenza, in quella regione, di numerosi pozzi petroliferi.

La riconquista delle ultime ore di Bengasi da parte dell’esercito di Haftar pone ancora di più agli occhi delle potenze occidentali il tema delle alleanze trasversali internazionali al primo punto. L’Egitto, in questo senso, potrebbe divenire il pomo della discordia tra i partner internazionali impegnati a ricucire l’assetto istituzionale libico in nome della lotta al Daesh.
Giacomo Pratali

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