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REGIONI - page 28

Eurogruppo, il sì alla riforma del MES e i nodi da sciogliere

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Lunedì 30 novembre, l’Eurogruppo, l’organo informale che raccoglie i ministri degli Stati membri di economia e finanze dell’eurozona, ha trovato un accordo sulla riforma del MES, il “Meccanismo Europeo di Stabilità”. I ministri hanno approvato la modifica del trattato che ridisegna gli aiuti tradizionali del MES, al fine di prevenire le crisi e non curarle con rigide condizionalità. Il Commissario all’economia Paolo Gentiloni ha definito l’incontro un vero “successo”, anche perché la riforma è stata avviata due anni fa e, anche a causa del Covid-19, era attesa da oltre un anno. Per entrare in vigore però, avrà bisogno della conferma del Consiglio europeo e del via libera dei Parlamenti nazionali.

La necessità di una riforma del MES

Il MES è un’istituzione intergovernativa che non rientra tra le istituzioni dell’Unione europea ma che, tuttavia, è stata istituita al fine di aiutare i paesi dell’eurozona che si trovano in difficoltà. Nasce nel 2012 proprio con lo scopo di mettere in comune i fondi dei paesi dell’area euro e utilizzarlo per aiutare gli stati membri in grave crisi, come fu per la Grecia, Cipro, Portogallo e Irlanda. Tuttavia, da anni si parla della necessità di una riforma del trattato dell’organizzazione in quanto, per ricevere l’aiuto, ogni Stato avrebbe dovuto accettare un rigido piano di riforme – con misure quali tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni, liberalizzazioni – ed essere sottoposto alla sorveglianza di un comitato costituito da Commissione europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale. Nato come tentativo di rendere l’eurozona economicamente unita e solidale nell’affrontare le crisi, questo meccanismo è stato oggetto di numerose critiche, anche opposte tra loro, con la solita contrapposizione di paesi. Se per i paesi del Nord Europa si tratta di un incentivo dato ai paesi del Sud per spendere più di quanto possiedono, molti paesi criticano le rigide misure previste in cambio degli aiuti. A partire dal 2018 dunque, si è iniziata a discutere la riforma del meccanismo e l’approvazione definitiva è arrivata solo a fine 2020.

Cosa prevede la riforma

Si tratta di un allargamento delle competenze del MES in quanto contempla una serie di nuovi compiti per il Meccanismo. In particolare, si prevede un ulteriore sviluppo degli strumenti del MES, il rafforzamento del ruolo del Meccanismo nella progettazione, nella negoziazione e nel monitoraggio dei programmi di assistenza finanziaria. Poi, si annuncia la creazione di un sostegno per il Fondo di risoluzione unico, che potrà essere finanziato dal MES quale rete di protezione per le banche a rischio. Quest’ultimo è un importante passo in avanti verso l’Unione bancaria e, vista la sua rilevanza, entrerà in vigore nel 2022 invece che nel 2024. Il presidente dell’Eurogruppo Donohoe considera tale sostegno comune come una rete di sicurezza che “rafforzerà e integrerà il pilastro di risoluzione dell’unione bancaria” garantendo che “il fallimento di una banca non danneggi l’economia in generale”. La riforma elimina, inoltre, il Memorandum previsto per imporre le condizioni di aiuto per i paesi che richiedono l’attivazione del Meccanismo, e lo sostituisce con una lettera d’intenti che assicura il rispetto delle regole del Patto di stabilità. I Paesi potranno ottenere i prestiti usufruendo di linee di credito precauzionali, senza concordare misure economiche particolari, se rispettano pienamente i parametri del trattato di Maastricht: rapporto deficit/Pil sotto il 3%, rapporto debito/Pil al 60%. Al momento, dieci Paesi, tra cui l’Italia, non rientrano in tali parametri.

Seppur di fondamentale importanza, il via libera dell’Eurogruppo alla riforma del MES non è vincolante né definitivo. Al contrario, è il punto di partenza e la base dell’accordo che dovrà essere oggetto del prossimo Consiglio europeo, per il quale la decisione finale passerà dai ministri dell’economia e delle finanze ai capi di Stato e di governo dell’eurozona. In caso di immediata intesa nel Consiglio europeo, si potrà procedere con l’atto che rende davvero operativo il consenso: la firma del trattato potrà avvenire con tutta probabilità a gennaio 2021. Tuttavia, il MES rimane un’organizzazione intergovernativa: necessita dunque dell’approvazione, in via definitiva, dei Parlamenti nazionali e solo allora potrà entrare in vigore.

Le reazioni in Italia

Il ministro dell’Economia italiano Gualtieri, nell’approvare la riforma del MES, ha specificato un elemento importante da sottolineare: la riforma del MES non riguarda la linea di credito approvata per lo scoppio della crisi da Covid-19, quella del “MES sanitario”. Il ministro ha dunque precisato che l’approvazione della riforma non equivale all’attivazione del MES da parte dell’Italia e, anche una volta approvata in via definitiva dal Parlamento, la modifica non comporta obblighi per l’Italia. Tuttavia, questa continua a dividere la maggioranza italiana, mentre il ministro dell’Economia ha affermato che si tratta di “un risultato positivo e importante su un testo equilibrato che ha richiesto un negoziato intenso”. Proprio per queste divergenze e poiché il MES è da almeno un anno al centro del dibattito politico italiano, la posizione dell’Italia ha avuto una rilevanza particolare. “Vorrei ringraziare Roberto Gualtieri per il suo coraggio politico poiché l’unico Stato della zona euro in cui questa questione è diventata un’importante questione di politica interna è stato l’Italia”, ha detto a tal proposito il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire. Se per il commissario all’Economia Gentiloni si tratta di una “buona notizia per cittadini e imprese”, il capo politico del Movimento 5 Stelle ha sottolineato che “la riforma del MES e il suo utilizzo sono due elementi totalmente distinti”, e parte del Movimento continua ad essere contrario anche alla riforma stessa.

L’approvazione della riforma è dunque ancora lontana e necessita del doppio vaglio Consiglio europeo – dove il Primo ministro Conte non mancherà di riportare anche la visione del primo partito al governo – e Parlamento nazionale, dove la maggioranza è divisa.

UE-ASEAN: il partenariato strategico e la cooperazione nella gestione del Covid-19

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Il 1° dicembre, la 23ª videoconferenza ministeriale ASEAN-UE ha riunito i Ministri degli Esteri dell’Unione europea e i loro omologhi dei 10 Stati membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico. I ministri hanno ribadito il ruolo significativo svolto dall’ASEAN e dall’Unione europea nel plasmare l’agenda politica, socioeconomica e di sicurezza a livello regionale e globale, dando vita ad un partenariato strategico che sigla l’evoluzione delle relazioni. Riconoscendo l’unicum rappresentato della connettività e dall’ integrazione regionale dell’ASEAN e dell’UE, è stato ribadito l’impegno reciproco a promuovere la connettività all’interno e tra le due organizzazioni. In virtù del suo ruolo di primo piano tra tutti i partners del Sud-est asiatico, l’UE ha, inoltre, annunciato un nuovo programma da 20 milioni di euro per sostenere la preparazione e la capacità di risposta degli Stati membri dell’ASEAN nella gestione della pandemia da Covid-19.

Le relazioni UE-ASEAN

Le relazioni tra l’Europa e il Sud-est asiatico sono state ufficialmente avviate nel 1972. Tuttavia, è solo di recente che questo rapporto ha subito dei cambiamenti significativi.

Attualmente l’UE e l’ASEAN intrattengono efficaci rapporti di cooperazione in vari campi: dalla politica all’economia, dal commercio agli investimenti, dalla difesa alla sicurezza ed alla connettività tra i popoli. L’Unione europea ha istituto vari programmi per i Paesi membri dell’ASEAN-Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore, Thailandia, Sultanato del Brunei, Vietnam, la Birmania (Myanmar), Laos e Cambogia-al fine di aiutarli a fronteggiare le sfide non convenzionali legate alla sicurezza, ai cambiamenti climatici ed alle catastrofi ambientali, guadagnandosi un posto di primo piano tra tutti i partners dell’ASEAN.

Oltre a cooperare con l’ASEAN come organizzazione, l’UE mantiene altresì relazioni bilaterali con i singoli Stati membri, concretizzatesi ad esempio nell’Accordo di Libero Scambio UE-Singapore e in quello tra UE e Vietnam (EVFTA).

Nonostante l’esistenza di alcuni ostacoli, derivanti dalle differenze culturali, dalle distanze geografiche e politiche, nonché dalle differenze economiche e sociali, le due organizzazioni sono determinate nel trovare le strategie adatte per beneficiare dei vantaggi offerti dalla cooperazione internazionale, al fine di costruire un rapporto duraturo ed efficace.

La 23ª videoconferenza ministeriale: l’avvio del partenariato strategico

Il 1° dicembre, nell’ambito della 23ª videoconferenza ministeriale ASEAN-UE, le due organizzazioni hanno aperto un nuovo capitolo nella loro relazione di lunga data, diventando partners strategici.

Entrando nel merito della videoconferenza, quest’ultima è stata copresieduta dall’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, e dal Ministro degli Affari esteri di Singapore, Vivian Balakrishnan, in qualità di paese coordinatore per le relazioni del dialogo ASEAN-UE. Al vertice hanno partecipato i Ministri degli Esteri o i loro rappresentanti di tutti gli Stati membri dell’ASEAN e dei 27 Stati membri dell’UE, oltre al segretariato dell’ASEAN e alla Commissione europea, rappresentata dalla Commissaria per le partnerships internazionali, Jutta Urpilainen. I ministri hanno ribadito il ruolo significativo svolto dall’ASEAN e dall’Unione europea nel plasmare l’agenda politica, socioeconomica e di sicurezza a livello locale e globale. Riconoscendo l’unicum rappresentato della connettività e dall’ integrazione regionale dell’ASEAN e dell’UE, è stato ribadito l’impegno reciproco a promuovere la connettività all’interno e tra le due organizzazioni. In tale ottica di rafforzamento della cooperazione attraverso la connettività è stato istituito un partenariato strategico, siglando l’evoluzione delle relazioni, con l’impegno a tenere regolari vertici tra i rispettivi leader.

La connettività tra i popoli è così promossa nello spirito di pace, inclusività, sviluppo, cooperazione, sostenibilità economica, fiscale, finanziaria, sociale e ambientale, fondandosi su condizioni di parità nonché su norme di mutuo vantaggio, in conformità agli standard internazionali pertinenti.

“Questo partenariato strategico rappresenta due elementi fondamentali: in primo luogo il riconoscimento del fatto che, davanti alla crescente insicurezza geopolitica e alle sfide al multilateralismo, l’UE e l’ASEAN avvieranno relazioni più strette. In secondo luogo, l’opportunità per un maggiore dialogo tra i leader così da tenere d’occhio e dare forma alle possibilità di una cooperazione più approfondita in materia di commercio, sicurezza e difesa, come anche di sviluppo sostenibile” queste le parole di Josep Borrell a conclusione della videoconferenza.

Il programma di aiuti per la gestione della pandemia da Covid-19

Oltre ad aver inaugurato un nuovo capitolo nell’ambito delle relazioni reciproche, l’Unione europea ha altresì annunciato, tramite la Commissaria per le partnerships internazionali, Jutta Urpilainen, un nuovo programma da 20 milioni di euro per sostenere la preparazione e la capacità di risposta degli Stati membri dell’ASEAN nella gestione della pandemia da Covid-19, migliorando il coordinamento regionale e rafforzando la capacità dei sistemi sanitari nel sud-est asiatico, con particolare attenzione alle popolazioni vulnerabili. Il programma di aiuti, che si inserisce nell’ambito della risposta globale dell’UE alla pandemia da coronavirus, ha una durata di 42 mesi e sarà attuato dall’Organizzazione mondiale della sanità, in stretta collaborazione con le autorità nazionali e il segretariato dell’ASEAN.

“Il programma di risposta e preparazione alla pandemia del sud-est asiatico fa parte della risposta di solidarietà da 350 milioni di euro dell’Unione europea per sostenere i nostri partner ASEAN nell’affrontare la pandemia COVID-19. Un forte coordinamento regionale sull’accesso a informazioni, attrezzature e vaccini è essenziale per superare questa crisi. Siamo in questo insieme e, come partner, più forti insieme ” ha dichiarato Jutta Urpilainen.

L’impegno dell’UE per la parità di genere e l’emancipazione femminile

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Il 25 novembre 2020, in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, l’Unione europea ha presentato un ambizioso piano per promuovere la parità di genere e l’emancipazione femminile in tutte le azioni dell’Unione europea. Si tratta di un importante e, vista la giornata, simbolico passo in avanti compiuto dall’UE, sempre più attenta a tali dinamiche. I diritti delle donne sono al centro dell’azione UE da tempo ma, con l’elezione di Ursula Von der Leyen quale prima presidente donna della Commissione europea, nonché di Angela Merkel quale presidente di turno del Consiglio dell’UE, la strategia per la parità di genere subisce l’accelerazione che da tempo si aspettava.

La strategia dell’UE per la parità di genere

Lo scorso 5 marzo, la Commissione europea ha presentato la strategia per la parità di genere 2020-2025, “Verso un’Unione dell’uguaglianza”. La volontà della presidente Von der Leyen di impegnarsi in materia è presente già negli orientamenti politici e nel programma presentato quando era ancora la candidata alla carica di presidente. Una volta eletta, ha mantenuto la propria posizione presentando questa strategia al fine di compiere progressi significativi entro il 2025 per giungere ad un’Europa garante della parità di genere. L’obiettivo finale è uno solo: far si che donne e uomini siano liberi di perseguire le proprie scelte di vita con pari opportunità di realizzazione. La strategia presentata è basata sul duplice approccio dell’integrazione della dimensione di genere combinata con azioni mirate e con il principio dell’intersezionalità. È in tale contesto che si inserisce il nuovo piano d’azione sulla parità di genere.

Il piano d’azione sulla parità di genere

Il piano d’azione presentato il 25 novembre ha una portata simbolica non indifferente. In occasione della giornata internazionale dell’eliminazione della violenza sulle donne, la Commissione europea e l’Alto Rappresentante dell’Unione europea hanno reso la parità di genere e l’emancipazione femminile una vera e propria priorità dell’UE: l’obiettivo è far sì che le donne possano esercitare pienamente i loro diritti ed aumentare la propria partecipazione. Il nuovo piano d’azione per il periodo 2021-2025 mira ad accelerare i progressi nell’emancipazione delle donne, salvaguardando i risultati conseguiti. Dall’analisi fornita si evince, infatti, che nessun paese al mondo è sulla strada per raggiungere l’uguaglianza di genere e l’emancipazione. Inoltre, le conseguenze socioeconomiche della crisi da Covid-19 hanno colpito la popolazione in maniera sproporzionata, gravando principalmente sulle donne: la perdita dei posti di lavoro è superiore di 1,8 a quella degli uomini, con conseguente aumento del tasso di povertà. In estrema sintesi, il piano d’azione rende la promozione della parità di genere una priorità di tutte le politiche europee; delinea una tabella di marcia per la collaborazione con tutti i portatori di interessi; intensifica l’azione in tutti i settori strategici; invita le istituzioni a dare il buon esempio, garantendo la trasparenza dei risultati.

I cinque pilastri d’azione

Il piano d’azione presentato fornisce un quadro politico con ben cinque pilastri per accelerare i progressi verso l’adempimento degli impegni internazionali in materia. Il primo pilastro afferma che l’85% di tutte le nuove azioni nell’ambito delle relazioni esterne contribuiranno a conseguire la parità di genere e l’emancipazione femminile entro il 2025. Il secondo pilastro disciplina una visione strategica condivisa e una collaborazione con gli Stati membri e i partner a livello regionale, nazionale e multilaterale: è necessario un approccio comune per tutti gli attori dell’UE per ogni livello, dalla società civile ai giovani, dai portatori di interessi ai governi nazionali. Il terzo pilastro è un invito ad accelerare i progressi, concentrandosi sulle principali aree tematiche di impegno: la lotta contro la violenza di genere, la promozione dell’emancipazione economica, sociale e politica; l’accesso universale all’assistenza sanitaria e ai diritti delle donne; la parità nella partecipazione e nella leadership. Il quarto pilastro invita l’UE a dare il buon esempio in materia di parità di genere ed emancipazione femminile, anche attraverso l’istituzione di una leadership equilibrata. Infine, ci si impegna nel monitoraggio dei risultati al fine di verificare sempre i miglioramenti apportati dal piano d’azione.

Le reazioni nell’UE

Il nuovo piano è stato presentato con un forte entusiasmo da parte delle istituzioni europee. L’Alto Rappresentante Josep Borrel ha affermato che “la partecipazione e la leadership delle donne e delle ragazze è essenziale per garantire democrazia, giustizia, pace, sicurezza, prosperità e un pianeta più verde”, ed ha aggiunto che “grazie a questo nuovo piano d’azione intendiamo accelerare e incentivare i progressi verso la parità di genere”. Anche la Commissaria per i partenariati internazionali, Jutta Urpilainen, ha affermato “un maggiore impegno nella parità di genere è fondamentale per una ripresa sostenibile dalla crisi Covid-19 a livello mondiale e per la costruzione di società più eque, inclusive e prospere. Le donne e le ragazze sono in prima linea di fronte alla pandemia e devono essere anche al timone della ripresa”.

Meno entusiasti sono apparsi invece i paesi dell’Est Europa: parte del gruppo Visegrad, dopo il veto sul Recovery Fund, ha mostrato la propria contrarietà verso il piano d’azione. Polonia e Ungheria, in particolare, non sembrano condividere con gli altri Stati membri l’insieme dei valori che l’UE intende promuovere nelle proprie relazioni con i Paesi terzi, tra cui figura anche la parità di genere. I due paesi, pur affermando di sostenere la parità uomo-donna, non intendono fare in modo che il riferimento all’uguaglianza di genere allarghi il campo anche alla comunità LGBTIQ.

Francia: il violento sgombero della polizia e la contestata legge sulla sicurezza

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Gli eventi francesi tornano ad essere al centro dei dibattiti dell’opinione pubblica. Il 23 novembre la polizia francese ha sgomberato in modo violento centinaia di migranti che avevano allestito un accampamento in Place de la République, a Parigi. Le immagini del violento sgombero, diffuse dai media, hanno suscitato le proteste dei partiti di sinistra, ma anche di quelli che sostengono la maggioranza di governo, delle Ong e dei sindacati. Il giorno successivo, in un clima politico già compromesso da simili tensioni, si sono aggiunte nuove contestazioni in seguito all’approvazione da parte dell’Assemblea Nazionale di una controversa proposta di legge sulla sicurezza, presentata dal partito del Presidente Emmanuel Macron, La République En Marche. Nel mirino i diritti civili e la libertà di stampa: se la legge sarà approvata anche dal Senato renderà più complicato per i giornalisti raccontare le azioni violente o illegali della polizia, con il rischio che queste diventino più frequenti e diffuse. I due eventi risultano essere, dunque, strettamente connessi, in una Francia già provata dal secondo confinement nel tentativo di gestire l’aumento dei contagi da Coronavirus.

Lo sgombero a Place de la République

Il 23 novembre, con l’aiuto di volontari, circa 400 migranti – la maggior parte originari dell’Afghanistan – si sono accampati in Place de la République, piazza simbolica di Parigi, sede di numerose manifestazioni. Soltanto un’ora dopo le forze dell’ordine sono intervenute rimuovendo in modo violento le loro tende, in alcuni casi con le persone ancora all’interno, tra le proteste degli attivisti e degli stessi migranti, utilizzando gas lacrimogeni e granate assordanti per disperdere gli occupanti, i quali si sono rifugiati nelle vie adiacenti alla piazza.

I migranti, secondo l’associazione umanitaria “Utopia 56”, provenivano dal campo di Saint-Denis, sgomberato lo scorso 17 novembre. Il Prefetto della polizia di Parigi, Didier Lallement, all’inizio dell’anno ha deciso, infatti, di applicare il principio della “tolleranza zero” nei confronti dei campi di migranti nella capitale francese e da allora molti migranti si erano spostati proprio a Saint-Denis. Tuttavia, in seguito allo sgombero del 17 novembre, una parte dei essi era stata trasferita in centri di accoglienza o palestre nell’Ile-de-France, ma tra le 500 e le 1000 persone vagavano per le strade della periferia parigina.

Le immagini del violento sgombero, diffuse dai quotidiani e dai social network, hanno suscitato le proteste dei partiti di sinistra, ma anche di quelli che sostengono la maggioranza di governo, delle Ong e dei sindacati. Lo stesso Ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, ha scritto su Twitter di essere rimasto «scioccato» dalle immagini dello sgombero. «Ho appena richiesto al capo della polizia un rapporto dettagliato su cosa sia realmente successo, entro mezzogiorno di domani – ha aggiunto – Prenderò le decisioni del caso non appena lo avrò ricevuto». La Prefettura di Parigi e quella dell’Ile-de-France, che hanno gestito lo sgombero, hanno replicato che «la costituzione di tali campi, organizzata da alcune associazioni, non era accettabile» e hanno ricordato che «tutte le persone bisognose di alloggio sono invitate a venire nei centri diurni dove vengono loro offerte soluzioni adatte alla loro situazione».

Le Ministre della Cittadinanza e dell’Edilizia abitativa, Marlene Schiappa ed Emmanuelle Wargon, in un comunicato congiunto diffuso il giorno successivo, hanno dichiarato che i migranti dovrebbero essere trattati «con umanità e fraternità» e hanno assicurato che il Prefetto della regione Ile-de-France ha individuato «240 posti nei centri di accoglienza e nelle strutture ricettive di emergenza» e che «4.500 posti aggiuntivi per i richiedenti asilo saranno finanziati dal governo nel 2021».

La controversa legge sulla sicurezza

Il 24 novembre, in un clima politico già molto teso a causa degli eventi di Place de la République, si sono aggiunte nuove contestazioni in seguito all’approvazione da parte dell’Assemblea Nazionale di una controversa proposta di legge sulla sicurezza, presentata dal partito del presidente Emmanuel Macron, La République En Marche. I critici sostengono che, se sarà approvata anche dal Senato, colpirà i diritti civili e la libertà di stampa. L’Articolo 24, il più contestato, introduce un nuovo reato per chiunque diffonda immagini in grado di «danneggiare l’integrità fisica e morale» degli agenti di polizia, con condanne che possono arrivare ad un anno di carcere e al pagamento di 45mila euro di multa. La legge renderebbe più complicato per i giornalisti raccontare le azioni violente o illegali della polizia, con il rischio che eventi come quelle di Place de la République diventino più frequenti e diffusi.

Tra le altre cose, la legge in questione stabilisce le regole per l’uso di droni, restringe la vendita di fuochi d’artificio usati spesso dai manifestanti durante le proteste, e dà maggiori poteri agli agenti della polizia locale.

Si tratta dell’ultima di una serie di iniziative avviate negli ultimi mesi dal governo di Macron con l’obiettivo di contrastare il crimine e il terrorismo.

La nuova legge ha raccolto parecchi consensi a destra, ma allo stesso tempo ha suscitato l’indignazione della sinistra, che ha accusato Macron di voler andare incontro alle richieste della destra radicale in vista delle prossime elezioni presidenziali, che si terranno nel 2022.

A dicembre il Parlamento francese esaminerà un’altra proposta di legge voluta dal partito di Macron, avente l’obiettivo di contrastare quello che il Presidente, in un discorso tenuto ad ottobre, aveva definito «separatismo islamista», termine impiegato per indicare il fatto che molti membri della comunità musulmana vivrebbero in una «società parallela», porosa al fondamentalismo islamico e contraria ai valori secolari della Repubblica francese. Il discorso di Macron è stato seguito dal ritorno del terrore in Francia, pertanto, nei prossimi mesi, il Governo francese sarà chiamato ad agire con cautela e a ponderare le proprie azioni, in una Francia già provata dal secondo confinement nel tentativo di gestire l’aumento dei contagi da Coronavirus.

 

Unione europea e Stati Uniti: di nuovo amici?

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Il 3 novembre si sono tenute le elezioni più importanti e più seguite del 2020, le presidenziali americane, il cui esito è arrivato solo dopo qualche giorno: Joe – Joseph Robinette – Biden, il candidato del Partito Democratico, è stato eletto 46° presidente degli Stati Uniti d’America. Il candidato democratico ha sconfitto il presidente in carica, Donald Trump, sia in termini di voto popolare che nel voto dei collegi elettorali. L’elezione di Biden a Presidente ha molteplici risvolti e significati e dà luogo a numerose questioni, tra cui: cosa cambierà per l’Europa? L’Unione europea non sarebbe nata senza gli Stati Uniti d’America, paese che da sempre considera alleato e amico. È con l’ultimo mandato presidenziale che i rapporti sono divenuti più tesi ed è per questo che è importante comprendere che piega prenderanno ora. Vecchio e Nuovo continente torneranno ad essere veri alleati?

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L’accordo sul bilancio pluriennale dell’UE in ostaggio del veto di Polonia, Ungheria e Slovenia

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L’iter di approvazione del bilancio pluriennale europeo per il periodo 2021-2027 si conferma lungo e complesso. Il 16 novembre, nell’ambito di una riunione del Consiglio dell’Unione europea, Ungheria e Polonia, come preannunciato, hanno posto il proprio veto sull’aumento delle risorse proprie dell’UE, opponendosi al meccanismo di condizionalità che vincola l’erogazione dei fondi europei al rispetto dello stato di diritto. Pochi giorni dopo, anche la Slovenia si è detta contraria a tale meccanismo: la presa di posizione è giunta alla vigilia di una riunione dei Capi di Stato e di Governo degli Stati membri tenutasi il 19 novembre in videoconferenza. In tale sede è emersa la volontà degli altri Stati membri di “lasciare sbollire i riottosi” per ora, al contempo si è ribadita la necessità di giungere ad un nuovo compromesso il prima possibile. Il compromesso sul nuovo bilancio si trova dunque in ostaggio e nel mezzo di una corsa ad ostacoli.

Il veto di Ungheria e Polonia

Il 16 novembre, in seno ad una riunione del Consiglio dell’Unione Europea – l’istituzione europea che comprende i rappresentanti dei governi dei 27 stati membri – Ungheria e Polonia hanno posto il veto su uno dei pilastri del nuovo bilancio pluriennale europeo per il periodo 2021-2027, vale a dire sull’aumento delle risorse proprie dell’UE, che richiede un’approvazione all’unanimità. Si tratta di un pilastro che permetterà all’Unione Europea di emettere titoli comunitari da collocare sul mercato e finanziare così il Recovery Fund nonché altre importanti sezioni del nuovo bilancio pluriennale. Nel dettaglio, i due Paesi a guida semi-autoritaria si oppongono al meccanismo di condizionalità economica che vincola l’erogazione dei fondi europei al rispetto dello stato di diritto. Il loro veto era stato preannunciato allorché il Consiglio e il Parlamento hanno trovato un accordo sul bilancio pluriennale: con l’entrata in vigore del nuovo meccanismo di condizionalità – il quale è stato comunque approvato nella riunione del Consiglio dell’UE, in quanto non è stata costituita una minoranza di blocco – entrambi otterranno, infatti, quasi sicuramente sanzioni o riduzioni dei propri fondi. Varsavia e Budapest si oppongono da anni all’introduzione di controlli più stringenti sui fondi europei, che ricevono in quantità ingente e utilizzano per rafforzare il controllo sull’economia e sulla politica esercitato dalla propria classe dirigente.

Il “no” arriva anche dalla Slovenia

Il 18 novembre anche la Slovenia si è detta contraria all’accordo tra Parlamento e Consiglio relativo al meccanismo che vincola l’erogazione di fondi comunitari al rispetto dello stato di diritto. In una lettera indirizzata fra gli altri al Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e alla Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il Premier sloveno, Janez Jansa, ha spiegato che ai suoi occhi solo “una istanza giudiziaria indipendente può spiegare cosa è lo stato di diritto, non una maggioranza politica”. Nella sua lettera di quattro pagine, il premier sloveno denuncia un’operazione basata “su due pesi e due misure” e sostiene che il meccanismo non sarebbe in linea con l’accordo politico raggiunto dai 27 Stati membri a luglio sul quadro finanziario per affrontare la pandemia da Covid-19. Janša ha poi aggiunto che la Slovenia si richiama al “rispetto incondizionato dello stato di diritto in tutti i casi e senza doppi standard”.

Intestatari della lettera sono anche la Cancelliera tedesca, Angela Merkel, in qualità di presidente di turno del Consiglio dell’UE, e il capo del governo portoghese, Antonio Costa, prossimo presidente nel primo semestre 2021, prima di passare il testimone proprio alla Slovenia. Nei mesi scorsi Lubiana, a più riprese, si è allineata alle posizioni del Gruppo di Visegrad, in particolare sul tema dei migranti, partecipando anche in qualità di Paese ospite a riunioni del quartetto che comprende Ungheria, Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia.

Il Consiglio europeo e le prospettive future

Il 19 novembre i Capi di Stato e di Governo hanno tenuto una riunione in videoconferenza, come ormai avviene una volta al mese da quando è scoppiata l’emergenza sanitaria ed economica. “Dobbiamo continuare le discussioni per trovare un compromesso” ha dichiarato in una conferenza stampa alla fine della riunione il Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Secondo le informazioni raccolte a margine dell’incontro, sia il Premier polacco, Mateusz Morawiecki, che la sua controparte ungherese, Viktor Orbán, hanno preso la parola. La discussione è stata però breve, impegnando i leader per 30 minuti circa. Ciò che è emerso è il desiderio degli altri Stati membri di “lasciare sbollire i riottosi” per ora.

Diversi funzionari europei sono convinti che il veto dei tre Paesi potrebbe decadere dinanzi alla prospettiva di ottenere ancora più fondi, in virtù del fatto che le loro economie non possono permettersi di ricevere i fondi del nuovo bilancio in ritardo. Altri ritengono che soprattutto Ungheria e Polonia non cederanno finché il nuovo meccanismo di condizionalità economica non sarà modificato e diluito, dato che con il compromesso attuale rischiano seriamente di perdere il diritto a ricevere parte dei fondi. Una terza opzione sul tavolo è che gli altri Stati membri minaccino di separare il Recovery Fund dal bilancio pluriennale, istituendolo con un trattato intergovernativo simile a quello con cui nacque il MES. In questo modo Polonia e Ungheria verrebbero tagliate fuori: esclusione che non possono permettersi, data la loro dipendenza dai fondi europei.

Nei prossimi giorni emergerà la strategia dei governi europei più influenti, fra cui soprattutto quello tedesco che ha lavorato attivamente per il raggiungimento di un accordo sul bilancio europeo.

«Il potere di veto è obsoleto per l’UE e dannoso per chi la esercita» ha commentato il Ministro italiano per gli Affari Europei, Enzo Amendola, aggiungendo che sul Recovery Fund e il nuovo bilancio «non si può perdere tempo».

Come è finito il Libyan Political Dialogue Forum: le conclusioni dell’inviata ONU Williams

AFRICA di

Il Libyan Political Dialogue Forum, svoltosi a Tunisi dal 9 al 19 novembre, ha riunito settacinque personalità libiche sotto gli auspici della Missione di Sostegno delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL), nell’intento di delineare il futuro assetto politico ed istituzionale del Paese. Contrariamente a quanto auspicato, il LPDF si è concluso senza un accordo sul nuovo esecutivo libico, ma ha portato, parallelamente, alla definizione di una road-map con cui il Paese nordafricano giungerà alle prossime elezioni, la cui data è stata fissata per il 24 dicembre 2021.

Ora abbiamo una chiara road-map per lo svolgimento delle elezioni il 24 dicembre 2021“, ha detto l’inviata ad interim del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Stephanie Williams, anticipando che i partecipanti al dialogo politico si riuniranno nuovamente in videoconferenza entro una settimana, per discutere di alcune questioni controverse ed ancora irrisolte.

Confidando nel fatto che il dialogo politico sia “l’unica soluzione alla crisi libica”, il nuovo incontro sarà finalizzato a limare le divergenze esistenti tra i rappresentanti delle tre regioni della Libia –Tripolitania, Fezzan e Cirnaica –, in modo da raggiungere un accordo sui meccanismi di selezione dei nuovi membri del Consiglio di presidenza, del Governo di unità nazionale e sui nomi delle personalità che assumeranno le cariche più alte nel Paese. L’obiettivo principale del Forum di Tunisi era, infatti, quello di ridisegnare i futuri assetti istituzionali del Paese, stabilendo un meccanismo per l’elezione del nuovo governo, a tre settimane dal raggiungimento dell’accordo per un cessate il fuoco permanente tra le fazioni rivali.

Al momento, tuttavia, essendo fallito il primo tentativo di nominare un governo di unità nazionale, non è possibile individuare chi avrà il compito di guidare la fase di transizione che culminerà con le elezioni presidenziali e legislative.
Secondo quanto affermato dall’inviata speciale dell’Onu Stephanie Williams, il Forum ha comunque raggiunto dei risultati soddisfacenti, ottenendo un’intesa proficua su alcuni fascicoli fondamentali. Infatti, oltre ad aver individuato una data per le elezioni del 2021, stabilendo così una “tabella di marcia verso la democrazia”, e all’accordo raggiunto sulla separazione tra il Consiglio di Presidenza e il Primo ministro, le parti si sono dette concordi sulla necessità di apportare un cambiamento storico nel Paese Nord-africano, ponendo fine al conflitto che da anni non concede tregua alla popolazione libica.

Secondo quanto dichiarato dall’inviata speciale ONU, nel corso dei dialoghi del LPDF è stato evidente che la maggior parte dei 75 delegati, rappresentanti delle circoscrizioni e delle parti politiche libiche, non accetti lo “status quo”, considerando l’attuale situazione in Libia come un’alternativa che non è più possibile sostenere.
In una conferenza stampa tenutasi nella tarda serata di domenica 15 novembre, l’inviata ONU ha invitato la classe politica libica ad aderire al movimento per il cambiamento («حركة التغيير»), sottolineando che non verrà consentita alcuna ostruzione al processo in corso, profilando, inoltre, la possibile l’individuazione di sanzioni internazionali per chi dovesse tentare di opporsi alla formazione del nuovo esecutivo.

Devono attenersi ai desideri dei libici per continuare il dialogo politico”, ha aggiunto Williams, indirizzando il suo discorso all’attuale classe politica libica.

UE e Covid-19: l’Unione europea della salute e l’accordo con Pfizer per l’accesso ai vaccini

EUROPA di

L’Europa si trova nel pieno della cosiddetta seconda ondata di diffusione del Covid-19 e l’emergenza sanitaria si fa sempre più grave. Per questo motivo, l’Unione europea sta intensificando la propria azione di risposta alla crisi. In primo luogo, su un piano interno, sta compiendo i primi passi verso la costruzione dell’Unione europea della salute: verranno dunque presentate diverse proposte per potenziare il quadro per la sicurezza sanitaria dell’UE rafforzando il ruolo delle agenzie europee coinvolte. In secondo luogo, da un punto di vista esterno, la Commissione europea ha approvato un nuovo contratto con l’alleanza BioNTech-Pfizer per garantire l’accesso a un potenziale vaccino: l’accordo permetterà l’acquisto iniziale di 200 milioni di dosi per conto di tutti gli Stati membri dell’UE.

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Flaminia Maturilli
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