GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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ESTERI - page 8

Esiste un nuovo ordine mondiale

I conflitti sono sempre stati originati e condotti per ottenere risultati volti a soddisfare il conseguimento degli intendimenti strategici che le nazioni considerano essenziali per i loro obiettivi di politica nazionale.

Queste ragioni sono state, poi, immancabilmente ammantate da un pesante velo di propaganda (questo è il suo vero nome!) che le ha trasformate nell’eterna lotta tra il bene e il male dove ognuno dei contendenti è convinto che la sua fazione sia nel giusto e che la divina indulgenza ne sostenga e ne nobiliti le azioni. E l’attuale conflitto ucraino non scappa a questa regola!

Pur condannando il ricorso alla forza a prescindere, se consideriamo in modo asettico e senza condizionamenti di parte la situazione, possiamo vedere che la posta in gioco in Ucraina non è rappresentata dalla sopravvivenza della democrazia o dall’esistenza del mondo libero minacciato da una apocalisse biblica di matrice autoritaria.

Quello che è realmente in bilico è, in primis, la credibilità degli Stati Uniti nel poter gestire la sfida che rappresenta l’ascesa della Cina, quale potenza planetaria, senza il fastidio di un deuteragonista del palcoscenico mondiale (la Russia di Putin), che costringe la geopolitica americana a rimanere invischiata nell’angusto ambito euroasiatico. In stretta connessione a tale fattore è in discussione, anche, l’affidabilità degli Stati Uniti nel sostenere, militarmente ed economicamente, i propri alleati (dopo averli introdotti nella gabbia del leone!!!!!!).

Ovviamente la propaganda presenta gli USA come guida illuminata di un Occidente paladino di una visione liberale del mondo, culla e rifugio della democrazia, che lotta contro il Signore del Male di turno che, improvvisamente e senza motivo, ha attaccato il cuore pulsante dell’Europa (con tutto il rispetto per l’Ucraina, ma sino a poco tempo fa era una vaga entità ai confini del mondo sconosciuta ai più).

Dall’altra parte abbiamo, invece, una Russia che nell’ambito della sua continuità storica pretende un ruolo di potenza globale, che non accetta di essere un deuteragonista della scena mondiale e che ha radicato nel suo DNA geopolitico la sindrome dell’accerchiamento.

Questo ha come conseguenza diretta che, oltre ad essersi ripresa la Crimea (che significa l’accesso a un mare caldo e ai siti nucleari), la Russia abbia dato inizio a una seconda fase di questo conflitto per eliminare o ridurre il problema di avere alla soglia di casa un soggetto politico, considerato (non del tutto a torto, bisogna riconoscerlo) uno strumento di pressione occidentale, pericoloso perché in grado sia di condizionare le sue arterie di trasporto energetico, sia di esportare idee e tendenze poco gradite e considerate destabilizzanti per la propria stabilità interna.

Di contro, la propaganda russa presenta questo conflitto come la ineluttabile necessità di difendere la Grande Madre Patria da un nuovo attacco da parte del perverso liberalismo occidentale, che vuole privare la Russia del suo ruolo e che intende governare il mondo con le sue idee retrò di democrazia e diritti individuali.

Allargando la visione, ci troviamo di fronte, però, a un conflitto che si sviluppa su due livelli differenti: nello scenario tattico si affrontano Russi e Ucraini; nello scenario geopolitico, invece, i protagonisti sono molti di più e ciascuno ha un proprio ruolo e, ovviamente, persegue ben precisi obiettivi.

Oltre agli USA, all’Unione Europea e alla Russia, infatti, l’evoluzione della crisi ucraina interessa alla Cina in maniera diretta, mentre indirettamente ne sono coinvolti il Medio Oriente, l’India e l’Oriente Asiatico.

Se ci svincoliamo dalla visione locale eurocentrica e ci proiettiamo in un ambiente geopolitico globale, possiamo vedere che questa crisi assume significati differenti da quelli propagandistici del Davide difensore della democrazia contro il Golia neo-zarista e che la situazione stimola problematiche fondamentali per il nostro futuro, che non sono conseguenza diretta del conflitto, ma che, invece sono state ricondotte a essa come giustificazione di una impasse politica almeno ventennale dell’Occidente

Il primo aspetto da considerare è quello, composito e complesso, dello sviluppo del sistema globale delle relazioni internazionali.

Dopo l’utopia presuntuosa che la fine della Guerra Fredda avesse per sempre affermato a livello globale quei principi di democrazia e di rispetto dei diritti che sono propri del nostro patrimonio culturale di Occidentali, la crisi ucraina ha dato corpo a una realtà completamente differente che, sebbene antecedente alla crisi stessa, abbiamo sino ad ora volutamente ignorato come se non esistesse. Quello in cui viviamo, invece, è un mondo multipolare dove, giocoforza, coesistono differenti visioni e differenti interpretazioni dei concetti fondamentali di democrazia, di diritti individuali e di libertà. Ciò che non ci è chiaro è che, pur non dovendo abiurare alla nostra impostazione di società basata sulla condivisione di determinati principi, l’Occidente si trova ad affrontare un nodo gordiano: l’imposizione della nostra visione morale collide con la ricerca di una stabilità di un ordine geopolitico mondiale che non si identifica nella visione da noi proposta.

Se consideriamo che l’appello a condannare l’invasione russa e a schierarsi con l’Ucraina, concorrendo nel mettere in atto risposte precise come le sanzioni, è stato accolto con favore solo da una parte del consesso mondiale, mentre in molti dei Paesi politicamente più importanti è prevalso un atteggiamento tiepido e molto distaccato, ci possiamo rendere conto della differenza culturale che esiste tra le posizioni assunte dalla Cina, dall’India, dai Paesi del Medio Oriente e dell’Africa.

Il secondo aspetto, anch’esso cruciale per il nostro futuro, è quello della crisi energetica che ha iniziato ad abbattersi sull’economia e a incidere sulla qualità della nostra vita. Anche qui non è la crisi ucraina che è responsabile di questo problema. La vera crisi ha origini molto più profonde e lontane nel tempo (il picco massimo di sfruttamento nel settore delle fonti fossili si è verificato nel 2010!), gli avvenimenti attuali sono solo un paravento dietro al quale abbiamo cercato di nasconderci cercando di negare la gravità della situazione.

Senza dimenticare che la crisi non riguarda solo la disponibilità delle fonti di energia fossile ma soprattutto la disponibilità delle risorse di materie prime fondamentali per lo sviluppo di alternative energetiche (quasi inesistenti nel nostro continente). Il possesso, il diritto allo sfruttamento e la disponibilità delle risorse tecnologiche per poterlo realizzare sono il terreno di scontro concettuale e pratico sul quale l’Occidente si troverà a combattere per poter sopravvivere. Per tutti un esempio: la tecnologia dei pannelli fotovoltaici di cui l’Occidente è inventore e fiero promotore, quale fonte energetica alternativa, è prodotta in Cina mediante impianti a carbone, utilizza materie prime africane e ritorna in Europa con vettori su ruota a combustibile fossile.

Il terzo aspetto discende direttamente dal precedente. Energia significa economia.

Senza energia il nostro sistema economico è messo alle corde e produce incertezza e disaccordo che minano la credibilità e l’affidabilità del sistema di mercato libero che l’Occidente sostiene.

Inoltre, il sistema economico ha ricercato la via più breve e meno onerosa per svilupparsi. Tutta la nostra produzione sensibile, e non, è stata delocalizzata dove era più vantaggioso economicamente, senza la ben che minima attenzione ai rischi geopolitici che avrebbero potuto metterci in crisi. La tecnologia che l’Occidente sviluppa è prodotta all’estero per convenienza, ma ci espone a qualsiasi sconvolgimento del sistema con risultati catastrofici (un esempio è lo scompiglio che è stato causato dalla pandemia che ha modificato o interrotto i nostri flussi logistico commerciali!).

La stabilità dei mercati si basa sulla stabilità di un ordine geopolitico. La ricerca di questo ordine e il suo mantenimento è un imperativo che deve passare per l’accettazione del compromesso strategico e non per l’intransigenza di una politica morale. I concetti cardine della nostra società devono essere sostenuti e devono essere offerti come alternativa di valore assoluto, ma non possono essere imposti quale conditio sine qua non.

L’ultimo aspetto è quello che ci riguarda più da vicino: il futuro dell’Unione Europea.

La UE rappresenta una enorme potenza di carattere economico-finanziario perché è nata ed è stata sviluppata in quel senso, ma non esiste a livello politico semplicemente perché non ha la struttura per poterlo fare (nonostante la Presidente della Commissione Europea si sia arrogata un ruolo da Primo Ministro UE!).

Eppure, continuiamo a pretendere di avere un peso geopolitico sulla scena internazionale.

Se non fosse stato per la decisa spinta che gli USA hanno dato agli avvenimenti, la UE sarebbe ancora a discutere su cosa fare e non si sarebbe sognata di imporre sanzioni economiche al suo migliore cliente!

Infatti, l’UE non è un monolite compatto e coeso, ma un insieme di fazioni, gruppi e sottogruppi di Paesi che cercano di trarre il massimo vantaggio per sostenere la loro visione nazionale, che viene tenuto insieme per interessi prevalentemente economici, ma che non condivide gli stessi valori e gli stessi principi. L’allargamento incondizionato basato esclusivamente sul rispetto di parametri finanziario-economici, che è servito per allargare ed espandere l’Unione, ha snaturato quello che era il concetto alla base del progetto: la condivisone di valori e di una cultura comune, oltre che l’interesse a far parte di un mercato comune dispensatore di benefici e prodigo di aiuti.

Senza voler fare torto a nessuno, le differenze di valori e di cultura già adesso danno luogo a dissimili interpretazioni di quello che dovrebbe essere il sentire comune dell’Unione e un progressivo allargamento verso Est non farebbe che acuire questo allontanamento da una matrice culturale che rischia di perdere il suo riferimento all’interno del sistema comunitario.

Se invece, questo è il futuro di questa organizzazione allora, forse, dovremmo chiamarla Unione Euroasiatica.

In conclusione, la crisi ucraina ha aperto il classico vaso di Pandora mettendo in evidenza una serie di tematiche geopolitiche e di scelte geostrategiche che l’Occidente si era illuso di non dover affrontare, cullandosi nella colpevole utopia del dopo guerra fredda.

Obtorto collo l’Occidente è stato messo di fronte alla realtà: il mondo non è democratico, liberale, progressista, buonista ed ecologista come noi ce lo siamo immaginato; è diverso e, soprattutto, non ci riconosce alcun primato morale o culturale.

L’Occidente deve essere comunque fiero e orgoglioso dei propri valori e della sua visione della civiltà e deve continuare a proporre il suo modello perché lo ritiene valido e senza dubbio basato su concetti universalmente condivisibili.

Tuttavia, per poter proporre i suoi valori, questi devono risultare essere i migliori, cioè quelli in grado di assicurare il pieno rispetto dei diritti, ma anche l’assunzione dei doveri; il sostegno delle libertà dell’individuo, ma anche il suo rispetto della comunità; la democrazia intesa come espressione completa della gestione della società, dove vi sia il rispetto della volontà popolare che si può sviluppare, solamente, attraverso l’espressione della maturità civile dei cittadini stessi.

La Commissione si attiva per bandire dal mercato dell’UE i prodotti ottenuti con il lavoro forzato

Nella giornata del 15 settembre la Commissione Europea ha proposto di vietare i prodotti ottenuti con il lavoro forzato sul mercato dell’UE.

Il lavoro forzato include tutte quelle situazioni in cui le persone sono costrette a lavorare attraverso l’uso di violenza o intimidazioni, o con mezzi più indiretti come il debito manipolato, il mantenimento di documenti di identità o le minacce di denuncia alle autorità di immigrazione.

Dunque la proposta della Commissione riguarda tutti i prodotti, siano essi prodotti fabbricati nell’UE destinati al consumo interno e alle esportazioni o beni importati, senza concentrarsi su società o industrie specifiche. Questo approccio globale è importante perché, secondo le stime, 27,6 milioni di persone sono vittime del lavoro forzato, in molte industrie e in tutti i continenti. La maggior parte del lavoro forzato avviene nel settore privato, mentre in alcuni casi è imputabile agli Stati. La proposta si basa su definizioni e norme concordate a livello internazionale e sottolinea l’importanza di una stretta cooperazione con i partner globali. A seguito di un’indagine, le autorità nazionali avranno la facoltà di ritirare dal mercato dell’UE i prodotti ottenuti con il lavoro forzato. Le autorità doganali dell’UE individueranno e bloccheranno alle frontiere dell’UE i prodotti ottenuti con il lavoro forzato.

Valdis Dombrovskis, Vicepresidente esecutivo e Commissario per il Commercio, ha dichiarato: “Questa proposta farà davvero la differenza nella lotta contro una schiavitù moderna che colpisce milioni di persone in tutto il mondo. Puntiamo a eliminare dal mercato dell’UE tutti i prodotti realizzati con il lavoro forzato, indipendentemente dal luogo di fabbricazione.”

Thierry Breton, Commissario per il Mercato interno, ha aggiunto: “Nell’attuale contesto geopolitico abbiamo bisogno di catene di approvvigionamento sicure e sostenibili. Non possiamo mantenere un modello di consumo di beni prodotti in modo non sostenibile. Il mercato unico è una risorsa formidabile per evitare che prodotti realizzati ricorrendo al lavoro forzato circolino nell’UE e uno strumento per promuovere una maggiore sostenibilità in tutto il mondo.”

Lo strumento relativo al lavoro forzato nella pratica

Le autorità nazionali degli Stati membri attueranno il divieto attraverso un approccio di applicazione solido e basato sul rischio. In una fase preliminare valuteranno i rischi di lavoro forzato sulla base di molteplici fonti di informazione, che  dovrebbero facilitare l’individuazione dei rischi. Tra le fonti di informazione possono rientrare i contributi della società civile, una banca dati dei rischi di lavoro forzato incentrata su specifici prodotti e aree geografiche e il dovere di diligenza esercitato dalle imprese.

Le autorità avvieranno indagini sui prodotti per i quali vi sono fondati sospetti che siano stati ottenuti con il lavoro forzato. Possono chiedere informazioni alle società ed effettuare controlli e ispezioni, anche in paesi al di fuori dell’UE. Se le autorità nazionali accerteranno la presenza di lavoro forzato, ordineranno il ritiro dei prodotti già immessi sul mercato e vieteranno l’immissione sul mercato dei prodotti interessati e la loro esportazione. Di conseguenza le società dovranno smaltire i prodotti e sostenere le spese conseguenti a tale operazione.

Se le autorità nazionali non sono in grado di raccogliere tutti gli elementi di prova necessari, ad esempio a causa della mancanza di collaborazione da parte di una società o dell’autorità di uno Stato terzo, possono prendere la decisione sulla base dei dati disponibili.

Durante l’intero processo le autorità competenti applicheranno i principi di valutazione basata sul rischio e di proporzionalità. Su tale base la proposta tiene conto in particolare della situazione delle piccole e medie imprese (PMI). Senza essere esentate, le PMI saranno agevolate dall’impostazione specifica della misura: le autorità competenti infatti, prima di avviare un’indagine formale, considereranno le dimensioni e le risorse degli operatori economici interessati e l’entità del rischio di lavoro forzato. Le PMI beneficeranno inoltre di strumenti di sostegno.

 

La Commissione elabora una strategia per promuovere il lavoro dignitoso in tutto il mondo 

La proposta fa seguito all’impegno dell’UE, la quale promuove il lavoro dignitoso in tutti i settori e ambiti strategici in linea con un approccio globale rivolto ai lavoratori nei mercati nazionali, nei paesi terzi e lungo le catene di approvvigionamento globali. Ciò comprende norme fondamentali del lavoro come l’eliminazione del lavoro forzato. La comunicazione sul lavoro dignitoso in tutto il mondo, presentata nel febbraio 2022, definisce le politiche interne ed esterne che l’UE mette in campo per realizzare l’obiettivo di un lavoro dignitoso in tutto il mondo.

ll lavoro dignitoso: l’UE come leader globale responsabile

L’UE ha già intrapreso azioni risolute per promuovere il lavoro dignitoso su scala mondiale, contribuendo al miglioramento della vita delle persone in tutto il mondo. Negli ultimi decenni il numero di minori vittime del lavoro minorile è diminuito significativamente a livello mondiale (passando da 245,5 milioni nel 2000 a 151,6 milioni nel 2016). Tuttavia il numero di minori costretti a lavorare è aumentato di oltre 8 milioni tra il 2016 e il 2020, invertendo la precedente tendenza positiva. Allo stesso tempo, la pandemia mondiale di COVID-19 e le trasformazioni nel mondo del lavoro, indotte anche dai progressi tecnologici, dalla crisi climatica, dai cambiamenti demografici e dalla globalizzazione, possono avere ripercussioni sulle norme del lavoro e sulla protezione dei lavoratori.

In tale contesto l’UE è determinata a portare avanti il suo attuale impegno e a consolidare ulteriormente il suo ruolo di leader responsabile nel mondo del lavoro, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione e sviluppandoli ulteriormente. I consumatori chiedono sempre più beni prodotti in modo sostenibile ed equo, che garantiscano un lavoro dignitoso a coloro che li producono.

L’UE rafforzerà le sue azioni basandosi sui quattro elementi del concetto universale del lavoro dignitoso sviluppato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) e integrato negli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (ONU). Tali elementi sono: 1) la promozione dell’occupazione; 2) le norme e i diritti sul lavoro, tra cui l’eliminazione del lavoro forzato e del lavoro minorile; 3) la protezione sociale; 4) il dialogo sociale e il tripartitismo. La parità di genere e la non discriminazione sono questioni trasversali in questi obiettivi.

Prossime tappe

La proposta deve ora essere discussa e approvata dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione europea prima di poter entrare in vigore e si applicherà a decorrere da 24 mesi dalla sua entrata in vigore.

Di Anna Tulimieri

NextGenerationEU: la Commissione europea mobilita ulteriori 12 miliardi di € per la ripresa dell’Europa

Ieri la Commissione europea ha emesso 12 miliardi di € in un’operazione in due tranche nell’ambito del programma NextGenerationEU, strumento di ripresa temporanea di oltre 800 miliardi di euro di prezzi correnti per sostenere la ripresa dell’Europa dalla pandemia di coronavirus e contribuire a costruire un’Europa più verde, più digitale e più resiliente. Per finanziare NextGenerationEU, la Commissione – a nome dell’UE – sta raccogliendo dai mercati dei capitali fino a circa 800 miliardi di euro da qui alla fine del 2026.

L’operazione – la 12a sindacata nell’ambito di NextGenerationEU e la settima del 2022 – consiste di una nuova obbligazione a cinque anni da 7 miliardi di € con scadenza il 4 ottobre 2027 e di una nuova obbligazione a 30 anni da 5 miliardi di € con scadenza il 4 ottobre 2052.

Il tasso di percentuale più alto per l’ obbligazione a 5 anni lo possiede il Regno Unito (29%), a seguire la Francia con il 16% , invece per quella di 30 anni al primo posto si colloca la Germania (26,5%) e al secondo posto il Regno Unito (15,1%). Per quanto riguarda l’Italia ha un tasso di obbligazione a cinque anni del 10%, e a 30 anni dell’8,4%.

Nonostante il difficile contesto di mercato, la domanda degli investitori è rimasta forte, con offerte combinate per oltre 114 miliardi di €, vale a dire una sottoscrizione di oltre nove volte superiore all’offerta. È interessante notare che sia per l’obbligazione a 5 anni che quella di 30 anni a offrire di più ci sono stati i gestori di fondi (37,4%-40,9%) e i tessili bancari (25,9%-21,4%).

Johannes Hahn, Commissario europeo per il Bilancio e l’amministrazione, ha dichiarato: “Il programma NextGenerationEU della Commissione continua a offrire vantaggi agli Stati membri dell’UE e ai suoi beneficiari. I fondi raccolti continueranno a sostenere la ripresa dell’Europa dopo la pandemia e le tanto necessarie trasformazioni verde e digitale.”

Con l’operazione di ieri, la Commissione ha emesso un totale di 73,75 miliardi di € in finanziamenti a lungo termine nell’ambito di NextGenerationEU nel 2022 e di 144,75 miliardi di € dall’avvio del programma nel giugno 2021. Di questo totale, 23,75 miliardi di € sono stati emessi dal luglio 2022, in linea con il piano di finanziamento elaborato dalla Commissione per il periodo luglio-dicembre 2022, presentato alla fine di giugno 2022.

Grazie ai fondi raccolti, la Commissione ha finora erogato oltre 110 miliardi di € a titolo del dispositivo per la ripresa e la resilienza e oltre 15 miliardi di € per altri programmi dell’Unione che beneficiano di finanziamenti nell’ambito di NextGenerationEU.

Parallelamente a NextGenerationEU, la Commissione gestisce diversi programmi di finanziamento consecutivi per finanziare le esigenze specifiche degli Stati membri dell’UE e dei paesi terzi. Ciò include il programma di assistenza macrofinanziaria, nell’ambito del quale la Commissione ha fornito un sostegno di 2,2 miliardi di euro all‘Ucraina dall’inizio dell’anno e ha proposto un ulteriore sostegno di 5 miliardi di euro, la seconda tranche di un pacchetto fino a 9 miliardi di euro.

 

Di Anna Tulimieri

 

L’aggressione militare dell’Azerbaijan all’Armenia allarma l’Europa e minaccia la stabilità del Caucaso

EST EUROPA/ESTERI di

La recente aggressione militare dell’Azerbaigian all’Armenia, repubblica del Caucaso meridionale e Stato sovrano riconosciuto a livello internazionale, preoccupa l’Unione Europea che deve gestire una situazione di crisi la cui escalation potrebbe portare a un conflitto su larga scala nell’intera regione caucasica, minacciare la stabilità dello scacchiere geopolitico euroasiatico e anche la strategia di sicurezza energetica di Bruxelles. Leggi Tutto

Una nuova NATO dopo Madrid?

Il vertice della NATO di Madrid, appena concluso, e la recentissima formalizzazione dell’ingresso di due nuovi membri nell’ambito dell’Alleanza sono stati presentati come un’altra risposta forte e decisa che il mondo occidentale ha voluto dare alla Russia. Il vertice ha inteso trasmettere l’immagine di una Alleanza compatta e determinata che si considera il baluardo della libertà e della democrazia contro il quale è destinata a infrangersi qualsiasi velleità di ricostituire un nuovo impero russo in Europa.

Un segnale importante che è stato, inoltre, esteso – peraltro in forma meno incisiva – anche nei confronti dell’altro autoritarismo che minaccia il mondo: la Cina, definita come l’avversario del prossimo futuro.

Se non ci limitiamo a un esame superficiale e spingiamo l’analisi oltre l’involucro mediatico delle dichiarazioni programmatiche e formali che contraddistinguono ogni vertice diplomatico politico ad alto livello, ci possono essere ulteriori chiavi di lettura che si prestano a valutare i risultati del vertice di Madrid.

In tale contesto possono essere fatte due osservazioni tra loro interdipendenti.

La prima riguarda il documento cardine che stabilisce la rotta che la NATO intende seguire. Si tratta del Concetto Strategico, cioè il documento programmatico che stabilisce e delinea le linee d’azione dell’Alleanza per i prossimi anni, approvato dal vertice di Madrid.

Leggendo il testo, se analizziamo i contenuti, questi ci riportano, senza dirlo esplicitamente, indietro di 30 anni, delineando lo scenario della Guerra Fredda. Una Guerra Fredda 2.0, invero, ma dove l’avversario è sempre lo stesso, anche se con un nome differente; dove le Nazioni europee (dell’EST!) si ritengono minacciate dall’essere fagocitate da un impero che non è più portatore di una ideologia politica, ma che è ugualmente visto come il nemico, l’unico e il solo, che incarna il pericolo per la democrazia e la libertà; dove, è bene sottolinearlo, la caratura degli esponenti politici che guidano l’Occidente non è certo paragonabile a quelli che hanno gestito la prima Guerra Fredda! Il resto del contesto geopolitico internazionale non è considerato quasi non esistesse.

Per arginare questa marea che è sul punto di dilagare in Europa il rimedio è sempre lo stesso: una rivisitazione della struttura della NATO, più uomini, più strutture, più tecnologia, più mezzi per rendere la NATO sempre più efficiente e dotarla di un nuovo credibile importante strumento di dissuasione. Il progetto di mettere in campo una NATO Response Force (NRF) di 300.000 unità, come prova della rinnovata volontà di dimostrare la coesione e la determinazione a reagire dell’Alleanza, ha il sapore di una boutade di altri tempi (Otto milioni di baionette!!!!). Se a malapena, e solo sulla carta, ogni anno si appronta una NRF di 40.000 unità, l’incremento sbandierato sembra apparire, esclusivamente un bluff propagandistico.

Il punto critico del Concetto Strategico risiede nella mancanza di una visione che sottintenda una prospettiva geopolitica ampia e coerente con lo sviluppo del contesto internazionale. Il nuovo ordine mondiale che si sta delineando, e che sembra che l’Occidente non voglia vedere, ha abbandonato il confronto Est vs Ovest; non esiste più una contrapposizione tra blocchi monolitici i cui interessi sono limitati al possesso fisico di una porzione di territorio (per quanto grande che essa possa apparire ai nostri occhi di occidentali); non ci sono più Triplici Intese o Entente Cordiale, gli Stati si accordano in base a esigenze specifiche fondate sul perseguimento di obiettivi politici che variano da regione a regione. Non esiste più un sistema di equilibrio di potenze che possa essere gestito dal di fuori con un attore geopolitico la cui azione, volta per volta, possa riportare l’ago della bilancia al centro.

Tutto questo l’Alleanza sembra non averlo percepito! Il nuovo Concetto rimanda a un tempo passato, dove possiamo cullarci in una situazione nota, chiara, ben definita e priva di incognite: il nemico è la Russia che vuole invadere l’Europa per ricostituire il suo impero (zarista o post-sovietico sono solo sfumature).

L’Alleanza con il vertice di Madrid ha perso un’occasione storica, quella di trasformare una organizzazione dalle potenzialità immense e unica nel suo genere da strumento vincolato a una geopolitica provinciale e fuori dal tempo, a mezzo strategico per proiettare il mondo occidentale e la sua visione culturale basata sui valori della democrazia e della libertà, quale protagonista nella costruzione di un nuovo capitolo delle relazioni internazionali.

La seconda osservazione riguarda un concetto che gli esiti del vertice hanno sancito e cioè che il baricentro politico dell’Alleanza si è spostato ad Est!

Sono i Paesi ex sovietici che oramai dettano le linee guida dell’Alleanza. La nuova frontiera della NATO è costituita dal cordone di Paesi che dal Baltico si estendono sino al Mar Nero.

Sono loro che hanno riportato indietro le lancette del tempo, vincolando la vision atlantica allo scacchiere di Nord – Est, entusiasticamente sostenuti dal settore nordeuropeo dell’Alleanza poco desideroso di ampliare la sua prospettiva geopolitica oltre il giardino di casa.

L’appartenenza all’Alleanza è stata intesa da questi Paesi come il mezzo di ricevere assistenza e protezione contro l’avversario storico di sempre, nei confronti del quale i rancori, gli attriti le rivendicazioni e il sentimento di rivalsa non si sono mai sopiti e che adesso trovano motivo di essere rispolverati e usati come elemento di pressione.

Questo spostamento del baricentro è stato reso possibile da due fattori.

Il primo riguarda il rapporto privilegiato che è stato stabilito tra questi Paesi e gli Stati Uniti. Il deteriorarsi dei rapporti euroatlantici degli ultimi vent’anni ha creato una serie di tensioni che ha visto un’Europa occidentale sempre meno coesa e sempre più recalcitrante nell’aderire alla linea politica USA, cosa che ha determinato per l’alleato americano la necessità di gravitare sul settore orientale dell’Europa: sicurezza in cambio di adesione incondizionata alla linea politica americana.

Agli occhi degli Stati Uniti la costituzione di una cintura di sicurezza dal Baltico al Mar Nero costituita da Paesi non ribelli e senza pretese di politiche autonome, che possa imbrigliare la Russia in Europa, ha costituito l’elemento fondamentale per risparmiare risorse ed energie da indirizzare verso la gestione degli altri scacchieri mondiali. La necessità del Regno Unito di ritagliarsi un nuovo ruolo in Europa dopo la Brexit dall’Occidente ha offerto, poi, l’occasione di usufruire di un sicuro alleato quale demoltiplicatore per la gestione del concetto di sicurezza contro l’Orso Russo.

Il secondo fattore, intimamente connesso al primo è stata l’assoluta mancanza di coesione strategica che i Paesi occidentali hanno dimostrato, e che si è tradotta nella traslazione del baricentro verso Est.

Nulla di nuovo, il fenomeno è lo stesso che si è prodotto nell’Unione Europea dove, purtroppo, stiamo assistendo a una mutazione dell’asse portante del concetto culturale che ha dato vita all’Unione Europea. I nuovi Paesi che sono stati accolti e inseriti nell’Unione dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica si sono certamente impegnati per modificare e rendere compatibile il loro impianto economico finanziario ai requisiti di ingresso nella comunità europea e ne hanno tratto i benefici che a essa erano legati. Ma non hanno cambiato il loro impianto culturale, sociale e politico che sono rimasti dissimili da quelli occidentali. Libertà, democrazia, trasparenza, stato di diritto sono concetti che ad Est dell’allineamento Amburgo – Trieste ancora vengono declinati in modo differente da come invece, li intendiamo a Ovest di tale allineamento.

La miopia geopolitica dell’Alleanza unita a una certa pigrizia degli Alleati del fianco Sud nel prospettare un’alternativa ragionata alla nuova Guerra Fredda verso Est, stanno privando la NATO della possibilità di esprimere le sue capacità in scacchieri diversi da quello orientale ma che sono altrettanto importanti, pericolosi e critici per la posizione che l’Europa potrà avere nel futuro immediato.

Trascurare Africa e Medio Oriente è un errore di prospettiva colossale che limita e riduce le nostre chances occidentali di proporci come una valida alternativa culturale ed economica e come garanzia di stabilità e sicurezza nei confronti del polo rappresentato da Russia e Cina.

Non si tiene assolutamente conto che la Russia non esprime il suo disegno di grande potenza solo nei confronti dei suoi ex satelliti nell’Europa orientale, ma è presente sempre con maggior peso nel Mediterraneo, in Libia (grazie al “capolavoro” franco – inglese dell’eliminazione di Gheddafi), in tutto il Medio Oriente, dalla Siria sino all’Afghanistan. E a seguire, anche la Cina si sta consolidando in questi scacchieri, sia economicamente ma anche con le prime installazioni militari.

L’assenza di una prospettiva strategica a 360° e la cristallizzazione delle risorse e dell’impegno dell’Alleanza in senso unidirezionale verso Est rappresentano un fattore di debolezza intrinseco dell’Alleanza stessa che evidenzia come sia preminente l’interesse particolare di alcuni dei suoi membri ma non quello generale di tutti, avvalorando implicitamente una contrapposizione diretta verso la Russia stessa, che risulta essere oltre che pericolosa, anche, estremamente limitante.

Al di là del sottolineare una volontà condivisa nel non tollerare violazioni eclatanti del diritto internazionale come quelle commesse dalla Russia nel condurre il conflitto in Ucraina, il vertice dell’Alleanza non è stato in grado di generare una vision geostrategica all’altezza delle sue potenzialità e in linea con l’intrinseco valore geopolitico che il consesso dei Paesi occidentali è in grado di esprimere. Ci stiamo rituffando in una specie di Guerra Fredda per dare soddisfazione ai rancori mal sopiti del nostro Est europeo, perdendo di vista che la NATO costituisce l’unica organizzazione valida e utile per dare forma e consistenza al ruolo che l’Europa e l’Occidente che condivide i nostri valori, potranno svolgere nel nuovo sistema delle relazioni internazionali che sta prendendo forma adesso.

Roma: conferenza “Global Methane Pledge: Tackling the World’s Most Dangerous Greenhouse Gas” organizzata dall’Ambasciata statunitense

Energia/ESTERI/EUROPA/POLITICA di

Lunedì 27 giugno 2022 l’Ambasciata degli Stati Uniti in Italia ha organizzato l’evento “Global Methane Pledge: Tackling the World’s Most Dangerous Greenhouse Gas” in collaborazione con il Centro Studi Americani e la Rappresentanza in Italia della Commissione Europea. Leggi Tutto

Come la Russia vede la crisi ucraina

Russian President Vladimir Putin (foreground left) and Russian Prime Minister Dmitry Medvedev  EPA/MIKHAIL KLIMENTYEV / RIA NOVOSTI / KREMLIN POOL MANDATORY CREDIT

 

 

 

Il clima mediatico occidentale sembra ritenere che il conflitto militare in Ucraina, in atto da ormai più di tre mesi, possa essere prossimo alla sua conclusione. Le sanzioni e l’insuccesso attribuito alle operazioni russe, a cui si imputa il mancato conseguimento di risultati militari definitivi, lascia ora il campo libero per un’azione diplomatico-politica volta a sancire la sconfitta dell’aggressore. O almeno, così sembra.

Infatti, l’Occidente compatto, anche se qualche crepa inizia a trasparire, persegue la sua politica di fermezza e di condanna, cercando di indebolire la posizione di Putin soffocando l’economia russa con le sanzioni. La NATO conduce esercitazioni militari nel Baltico e nell’Est Europa nella speranza di impressionare il Cremlino con una dimostrazione di potenza e di coesione che mettono in evidenza i limiti dell’organizzazione, piuttosto che la sua reale forza. La propaganda occidentale, travestita da informazione, provvede a veicolare un messaggio a senso unico senza aver il coraggio di concedere un diritto di replica.

La diffusa interpretazione che viene proposta è che la Russia sia prossima al crollo: il suo esercito ha fallito, Putin è malato, debole e sarà rovesciato a brevissimo dalle forze liberali e democratiche che faranno trionfare la giustizia. Quindi niente più armi, ma solo proposte di pace.

Putin è il nuovo Signore dei Sith e l’Ucraina è diventata la bandiera del concetto di libertà occidentale e il baluardo estremo dei suoi principi di democrazia, legalità e diritti individuali!

Questa è la visione di un Occidente confuso e spaventato che vuole di nuovo la sua vecchia e consolidata tranquillità geopolitica, nella quale si è incoscientemente cullato negli ultimi trent’anni. Ma ci siamo mai chiesti, invece, se la stessa visione è condivisa anche dalla Russia e se, quindi, le cose potrebbero essere diverse da quelle che noi assumiamo debbano essere?

Forse sarebbe bene considerare come lo svolgimento dei fatti e degli avvenimenti siano percepiti dal nostro avversario al fine di intraprendere un percorso diplomatico e politico che consenta di individuare le cause di quanto sta accadendo e perseguire, quindi, una soluzione che garantisca il successo di una vera pace e non di un temporaneo armistizio (accordi di Minsk docent).

Nel condurre l’analisi di come la Russia percepisca la situazione in Ucraina possono essere considerati alcuni dei fattori posti alla base della valutazione occidentale sugli sviluppi del conflitto.

Procediamo innanzitutto con l’assunzione che Putin stia perdendo il conflitto sotto il punto di vista militare!

La mancata conquista dell’Ucraina e della sua capitale dovuta alle difficoltà incontrate nello sviluppo delle operazioni; la necessità di cambio della direttrice strategica che da Nord si è spostata ridimensionandosi verso la regione orientale meridionale; l’elevato numero di perdite e le problematiche di carattere logistico, sono state indicate come le cause del fallimento militare del conflitto.

Ma la conquista dell’Ucraina non era l’obiettivo di Putin! Lo scopo dichiarato era quello di impedire che l’Ucraina potesse diventare una minaccia puntata verso la Russia che l’Occidente (USA, NATO ed UE) potesse usare per limitare il ruolo internazionale della Russia stessa e della leadership di Putin.

Infatti, le operazioni militari condotte dalla Russia hanno conseguito l’obiettivo prestabilito: l’Ucraina non entrerà nella NATO e una vera pace non potrà essere raggiunta senza tenere in considerazione anche l’anima russa delle aree orientali dell’Ucraina.

Se consideriamo il conflitto secondo questa prospettiva gli obiettivi dell’operazione sono stati raggiunti e Putin non sta perdendo!

Secondo punto. L’Occidente deve scongiurare un’escalation del conflitto e quindi i Governi di USA e UE sono volti a individuare un piano di pace per ricomporre, al più presto, il conflitto tra Mosca e Kiev.

Quindi, per timore di un ampliamento indiscriminato del conflitto, fatte salve le ragioni dell’Ucraina, si tenta di proporre alla Russia una soluzione locale di compromesso per un riconoscimento, almeno formale, della situazione nel Donbass e in Crimea.

Ma questa è una soluzione che non tiene conto delle reali cause del conflitto. Infatti, anche ammettendo di poter conseguire una situazione di compromesso che eviti la de-russificazione del Donbass e confermi le aspirazioni di indipendenza della Crimea, questo porrà termine esclusivamente alle operazioni cinetiche in territorio ucraino da parte della Russia, che invece, continuerà la sua campagna anti occidentale, dato che obiettivo primario è quello di cambiare l’atteggiamento dell’Occidente portandolo a considerare come reali ed effettive le preoccupazioni geopolitiche che vedono Mosca accerchiata da una alleanza ostile e minacciata nel suo ruolo autonomo di grande potenza.

Quindi nell’ottica del Cremlino questo non è un conflitto russo – ucraino ma un confronto diretto tra la Russia e il mondo Occidentale nel suo insieme. Putin è colui il quale dà voce e rappresenta questo sentimento di rivalsa nazionalistica, ma è il popolo russo (almeno nella sua gran parte) che lo sente proprio e lo vive intimamente.

Una situazione di compromesso che riguardi esclusivamente l’Ucraina non cambierà nulla e non eliminerà il rischio della temuta escalation.

Altro elemento di analisi. La posizione di potere di Putin all’intero dell’establishment russo è in crisi e presto sarà rovesciato da un colpo di stato.

Sicuramente l’élite russa non è soddisfatta dell’andamento del conflitto e dei risvolti economici della crisi internazionale che ha investito il paese, ma, al contempo, sa che Putin è l’unico leader che possa garantire una situazione di stabilità interna e di coesione dell’intero sistema russo e quindi, di riflesso, consentire il mantenimento attuale della loro posizione di egemonia politica. Duma e Governo sono schierati, formalmente compatti, con il Presidente. Come pure la popolazione è in gran parte favorevole a Putin in quanto rappresenta uno dei valori fondamentali della cultura russa: un nazionalismo profondo che ha come mito la potenza e la grandezza della Russia.

La dissidenza c’è, esiste e si fa anche sentire alle volte, ma non ha né la coesione né i mezzi per tentare quel colpo di stato o quella rivoluzione democratica che i media occidentali danno come imminente. Non ci sarà una Primavera Russa!!

Infine. Putin non si fida dei suoi generali e li sta sostituendo perché gli stanno facendo perdere la guerra.

Voci e notizie spesso prive di conferme ufficiali danno per scontato la rimozione di Alti Ufficiali e di personalità di vertice da parte di Putin, deluso per la presunta mancanza di successi nel conflitto ucraino.

Che Putin possa essere non del tutto soddisfatto dei risultati ottenuti o dell’operato di alcuni membri dello staff è normale e non c’è di che sorprendersi, ma, dall’analisi del comportamento tenuto nel corso degli anni di potere di Putin, la sostituzione in corso d’opera di alti vertici, durante una situazione di crisi, non sembra essere il modus operandi di Mosca. Errori di condotta e valutazioni non corrette fanno parte delle procedure di pianificazione e gestione di ogni attività operativa e se questi sono commessi e vengono effettuati in buona fede non c’è la necessita di effettuare nessuna purga di carattere staliniano.

Quindi Putin non sta perdendo il controllo della situazione e la fiducia nei suoi collaboratori rimane intatta. Non esiste la possibilità che il sistema politico di Mosca collassi e che Putin sia in preda a fobie complottistiche che ne possano limitare le capacità di analisi e di condotta delle politiche russe.

Il quadro di situazione, se letto e interpretato dalla parte di Mosca, appare alquanto differente da quello che il sistema occidentale di informazione presenta e ritiene condizionante per la soluzione del conflitto.

La dicotomia esistente a livello di percezione generale propone due possibili scenari per le azioni diplomatico – politiche dell’Occidente.

Sostenere militarmente l’Ucraina (e agitare lo spauracchio dell’allargamento ulteriore della NATO) perché siamo convinti che Putin sia perdendo il conflitto e che sia arrivato al suo capolinea politico, oppure, cercare una qualche forma di appeasement nei confronti di Mosca per evitare un’escalation che possa portare a un improbabile, ma temutissimo uso di armi di distruzione di massa, ultima risorsa di un Putin disperato e fuori controllo.

Per quanto è stato detto precedentemente nessuna di queste due linee di condotta potrà avere successo in quanto il conflitto non riguarda l’Ucraina e la Russia, ma investe l’Occidente nei suoi rapporti globali con la Russia.

La soluzione che dovrà essere elaborata deve tenere conto di altri due fattori: il primo è il diverso approccio che l’Occidente deve avere nei confronti della percezione russa della sua sicurezza; il secondo concerne la ridefinizione delle ambizioni e della prospettiva russa nel suo modo di intendere le relazioni geopolitiche.

Entrambi i contendenti sono convinti di avere la mano più alta, ma non è così.

L’Occidente è convinto che le sanzioni e il supporto all’Ucraina abbiano intaccato lo spirito nazionalista di Mosca e che il suo leader sarà rovesciato da un movimento di resistenza o minato dalle sue tante presunte malattie.

Mosca ritiene che il tempo giochi a suo favore nel distruggere la coesione interna del fronte occidentale e che la presa di distanza del resto del mondo attenui e neutralizzi gli effetti economico finanziari dei mercati nei confronti della Russia.

Questa visione porta allo stallo diplomatico politico e, pur condannando a priori la scelta di Mosca del ricorso alla forza, l’unica soluzione possibile è quella di un compromesso che, tenendo conto delle vere ragioni del conflitto, si basi sul ridimensionamento delle rispettive ambizioni geopolitiche da una parte e dall’altra.

Il punto cardine per la risoluzione del conflitto è quello di individuare una serie di azioni volte a creare un clima di sicurezza reciproco, nel quale i rispettivi interessi nazionali possano essere conseguiti nell’ambito del rispetto dei concetti su cui vogliamo si basi l’ordine internazionale. Un ordine dove gli strumenti per la risoluzione delle controversie tra Stati non sono il livello di potenza che si esprime ma la legalità e il rispetto reciproco.

E l’Ucraina? L’Ucraina dovrebbe smettere di credere di essere la vittima innocente di una invasione immotivata e iniziare un esame di coscienza per definire quanto peso il suo Presidente attuale e l’establishment politico degli ultimi vent’anni abbiano avuto nel contribuire a creare le premesse per l’esplodere di questo conflitto.

Svezia e Finlandia nella NATO. Cui prodest?

La notizia che la Svezia e la Finlandia abbiano recentemente formalizzato la loro richiesta di entrare a far parte della NATO è stata presentata come un colpo definitivo assestato all’avventura russa in Ucraina e come un successo politico che consente all’Alleanza di annoverare tra le sue fila anche due giganti della scena internazionale capaci di imbaldanzire e ridare fiducia a un’organizzazione ormai in stato vegetale e incapace di opporsi, se non a parole, al malvagio Putin e alle sue mire zariste.

La decisione è maturata sulla scia degli avvenimenti che hanno direttamente interessato l’Europa orientale, sconvolgendo non solo tutto il sistema geopolitico occidentale ma anche l’equilibrio dei rapporti tra la Russia e la NATO stessa.

La sensazione di minaccia e di pericolo che le attività russe hanno generato in Occidente ha determinato la decisione da parte dei due Paesi Scandinavi di abbandonare la loro condizione di neutralità formale e di divenire parte integrante dell’Alleanza Atlantica e anche della NATO.

Fermo restando il diritto di ogni Paese di perseguire in piena autonomia i propri interessi nazionali e di basare su essi le proprie scelte politiche, la richiesta di adesione di Svezia e Finlandia stimola una serie di considerazioni sulla natura della decisione e sulla tempistica con la quale è stata presentata, nonché sulla opportunità, in termini strategici, della condivisione di un tale passo.

In primo luogo, i due Paesi non condividono lo stesso retaggio storico e hanno maturato esperienze differenti nei confronti della Russia e quindi è difficile riconoscere le stesse motivazioni alla base della loro scelta.

La Svezia, da oltre due secoli, ha adottato una posizione di neutralità formale, che gli ha consentito di non essere coinvolta direttamente nei conflitti che hanno cambiato l’Europa, sfruttando, però, tale posizione per ottenere dei benefici economici senza nessuna remora morale. I suoi rapporti con la Russia non sono stati caratterizzati da particolari ostilità da quando Gustavo III e Caterina II siglarono la pace di Värälä alla fine del XVIII secolo, inoltre, non ha nessuna minoranza russofona nel suo territorio e non ha ricevuto, da parte di Putin, pressioni, dirette o velate, che potessero mettere in pericolo la sua sicurezza. Ha una fiorente industria militare e da molto tempo, partecipa alle attività della NATO, dato che il suo strumento militare è pienamente integrato nelle procedure dottrinali dell’Alleanza e che anche il suo personale ricopre incarichi di consulente presso alcuni dei comandi della NATO stessa, senza peraltro che ciò abbia suscitato particolari rimostranze da parte russa.

Il percorso storico della Finlandia è, invece, alquanto differente ed è legato a doppio filo al suo ingombrante vicino. L’indipendenza guadagnata dopo la dissoluzione dell’Impero zarista, la Guerra d’inverno e la partecipazione al Secondo Conflitto Mondiale dalla parte della Germania hanno condizionato nel dopoguerra i rapporti russo finlandesi, indirizzando le scelte politiche del Paese verso una posizione di neutralità, che ha consentito alla Finlandia di non essere sovietizzata, ma che ha lasciato una insoddisfazione di fondo per il ridimensionamento territoriale subito. Da tempo pure la sua neutralità è stata più formale che sostanziale, avendo operato delle scelte dirette mediante l’adesione all’Unione Europea e la partecipazione stabile alle attività addestrative della NATO, anche in questo caso, senza per questo destare particolari attriti con Mosca. Infatti, i rapporti con la Russia, pur non volendoli considerare pienamente amichevoli, non hanno mai registrato particolari problematiche e non ci sono state da parte russa minacce dirette alla sicurezza della regione.

Quindi si può ipotizzare che le motivazioni alla base della richiesta di entrare nel Club Euroatlantico siano state condizionate non solo dalla generale paura che il risveglio dell’orso russo ha diffuso nell’Occidente, ma anche e, soprattutto, da considerazioni opportunistiche di politica interna e da pressioni esterne volte a costruire l’impressione che un’sistema Euroatlantico, riportato in vita da un’agonia annunciata, sia in grado di presentare un fronte comune omogeneo e compatto, anche dal punto di vista militare, tale da opporsi con successo alle mire espansionistiche di Mosca.

Per quanto attiene al particolare momento scelto dai due Paesi per inoltrare la loro richiesta di adesione possono essere fatte alcune considerazioni di carattere generale.

Da un punto di vista strettamente propagandistico la decisione dei due Paesi di abbandonare una posizione di neutralità radicata nel tempo e di schierarsi, anche militarmente con l’Occidente antirusso, avrebbe avuto un impatto maggiore e ben più importante se essa fosse avvenuta dopo gli avvenimenti che hanno interessato la Crimea. Nel 2014 una scelta di tale portata avrebbe dimostrato una reale volontà del Club Euroatlantico di contrastare seriamente ulteriori avventure di Mosca nell’Est europeo. Invece il consesso euroatlantico ha svalutato il ruolo e l’importanza della NATO vagheggiando e delirando sulla costruzione di un concetto di difesa europea.

Ma questa scelta di far parte dell’Alleanza la Svezia e la Finlandia non l’hanno concretizzata, eppure già si potevano intravvedere quali potessero essere gli sviluppi futuri in termini di sicurezza e pericolosità dell’aera. E nessuno al tempo ha esercitato pressioni per suggerire o stimolare una così radicale scelta di campo.

Se, invece, consideriamo l’aspetto in termini geostrategici, la mossa di spingere Svezia e Finlandia a presentare la loro richiesta, non appare essere un capolavoro di diplomazia, in quanto comporta due conseguenze pericolose.

La prima, fermo restando la condanna assoluta dell’uso della forza da parte di Mosca, se le motivazioni adottate da Putin sono basate sulla necessità di dimostrare la volontà russa di non sottostare a un accerchiamento da parte della NATO, percepito a torto o a ragione come una minaccia diretta al territorio della Russia, la decisone di Svezia e Finlandia e le pressioni sulla Georgia per fare altrettanto, non sembrano essere la scelta migliore per riuscire a disinnescare una situazione diplomatica che sta diventando ogni giorno più tesa e difficile da risolvere. Il termine di questo conflitto richiede una soluzione di compromesso, che ci piaccia o meno, che dia la possibilità ad entrambe i contendenti di potersi ritirare con un qualche cosa da esibire come risultato positivo, quindi, la proposta dei due Paesi nordici non è né tempestiva, né strategicamente coerente, in quanto non fa che incrementare e giustificare, in un certo senso, la schizofrenia russa.

La seconda riguarda, invece, l’obiettivo strategico alla base della posizione assunta dagli Stati Uniti e condivisa, obtorto collo, anche dal resto dell’Occidente: la caduta di Putin.

Il sostegno all’Ucraina e la conclusione vittoriosa del conflitto con la Russia hanno come scopo fondamentale quello di dimostrare da una parte la ritrovata capacità degli Stati Uniti ad impegnarsi sia come difensore del concetto di democrazia e del rispetto della legalità internazionale, sia come garante dell’ordine mondiale, dall’altra la volontà di decretare e realizzare la caduta politica di un avversario pericoloso e scomodo come Putin.

Quello che tale visione strategica non considera e che il problema non è rappresentato da Putin in quanto tale e dal suo modo di intendere le relazioni internazionali, ma dalla particolare percezione che la Russia stessa ha del mondo e del ruolo che ritiene gli spetti nel contesto globale.

La considerazione che la Russia ha di sé stessa può non essere condivisa e, quindi, può anche essere contrastata, ma deve essere riconosciuta e considerata alla stessa stregua di quanto avviene per tutti gli altri Paesi che, a torto o a ragione, ritengono di avere una missione affidata loro dalla storia alla quale uniformano il perseguimento della loro politica internazionale, come la Cina, la Francia, l’Inghilterra, la Germania e gli stessi Stati Uniti.

L’aver scoperto di essere impreparati a gestire una crisi come quella ucraina e di essere impotenti contro un avversario che si riteneva addomesticato per mancanza di una visione strategica, porta ad accettare, come valide, scelte politiche azzardate come quella di stimolare un allargamento della NATO, sperando in tale modo di ottenere un risultato politico che si rifletta sulla tenuta del regime di Putin.

Il punto non è Putin ma la sensazione di insicurezza nella mentalità russa che una cattiva gestione della comunicazione sulla percezione della NATO ha generato negli anni.

A questo proposito uno studio commissionato alla Rand Corporation da parte dell’Aeronautica degli Stati Uniti nel 2017, avente come oggetto Hybrid Warfare in the Baltics Threats and Potential Responses, effettuato da Andrew Radin, aveva generato delle raccomandazioni sulle scelte strategiche da porre in atto per contrastare una possibile escalation della situazione nell’Europa orientale di cui la più importante era costituita dal seguente passo:

“The United States and NATO should take action to mitigate the risks that a NATO deployment in the Baltics will increase the potential for low-level Russian aggression. To this end, the United States and NATO should avoid basing forces in Russian-dominated areas, should consider measures to increase transparency or avoid the perception that deployed forces may be used to pursue regime change, and should develop a sound public relations campaign to convince local Russian speakers that NATO is not deploying forces against them.”

Le premesse per poter adottare un atteggiamento più attento e più lungimirante ci sono state ma, probabilmente, la necessità di dimostrare una nuova vitalità nel campo delle relazioni internazionali da parte di una Amministrazione USA condizionata da una visione morale e non pragmatico – strategica della sua politica estera, ha portato alla situazione che abbiamo oggi.

Per ovviare alla impossibilità di contrastare un avversario politicamente deciso e che persegue gli interessi nazionali secondo una strategia diretta, agli Usa e all’Europa non basta aumentare il numero dei Paesi membri, accogliendo Svezia e Finlandia nell’Alleanza Atlantica, ma serve la definizione di una politica reale, con obiettivi condivisi e comunemente accettati e, soprattutto, la volontà di impegnarsi in prima persona nel conseguimento di tali obiettivi, senza delegare e senza nascondersi dietro la foglia di fico della partecipazione al Club Euroatlantico sperando che le proprie responsabilità siano assunte asetticamente dall’organismo di cui facciamo parte.

In conclusione, Svezia e Finlandia, e anche Georgia, hanno tutto il diritto di seguire una loro politica che concretizzi i loro interessi nazionali e quindi chiedere di poter aderire ad un organismo nel quale la loro percezione di sicurezza possa essere aumentata, ma la NATO e i suoi Paesi membri, hanno lo stesso diritto, e anche il dovere, di valutare con attenzione l’opportunità della richiesta in relazione al contesto geopolitico in atto e la valenza delle conseguenze che le loro scelte possono determinare.

Putin ha sbagliato e la modalità scelta per far valere quelle che ritiene essere le sue ragioni sono da condannare senza riserve, ma l’Occidente non può sperare di ripristinare la legalità internazionale e la pace in Europa, semplicemente ingrandendo la NATO e riducendo alla figura di una sola persona la caratterizzazione di un rapporto politico con un Paese che, invece, esprime una percezione politica di sé stesso e del contesto internazionale precisa e definita, ancorché differente dalla nostra. Alla fine, Putin potrà essere anche detronizzato e l’Ucraina sarà ammessa nell’ l’Unione Europea e forse anche nel Club Euroatlantico, ma il problema della NATO, percepita come un organismo di pressione e pericoloso per la stabilità mondiale, rimarrà e non solo agli occhi della Russia, ma anche a quelli della Cina!

Il dilemma strategico della Russia

Se si esamina con attenzione una carta geografica della Russia appare evidente, anche all’occhio del neofita, che l’immensa estensione territoriale di questo paese è controbilanciata, con esito negativo, dalla pressoché assoluta mancanza di accesso diretto alle rotte commerciali oceaniche che costituiscono, da sempre, la base sulla quale si sviluppa e progredisce l’economia di un grande paese.

Analizzando più nel particolare la situazione russa si può vedere che i pochi porti di cui dispone (davvero in numero esiguo non solo in relazione alla sua grandezza territoriale) sono caratterizzati da due fattori geopolitici limitativi che ne riducono l’importanza e ne condizionano l’utilizzazione.

Il primo è che i porti di Vladivostock a Est e di San Arcangelo a Ovest insistono in un’area geografica dove il mare ghiaccia per lunghi periodi dell’anno.

Il secondo fattore, di gran lunga più determinante nel dettare la linea geostrategica della politica russa, è quello che sia Vladivostok sia i due porti principali in acque calde, San Pietroburgo e Novorossiysk, insistono in un complesso di acque chiuse i cui accessi al mare aperto (gli Oceani Atlantico e Pacifico) sono controllati da alleanze di cui la Russia non fa parte o da Paesi con i quali non esiste un rapporto stabile di fiducia o che, addirittura, possono essere considerati potenzialmente ostili.

Da qui discende direttamente l’impostazione che ha guidato la politica estera della Russia, zarista e non, durante gli ultimi trecentocinquant’anni della sua storia.

Rifiutare di riconoscere o di considerare questo imperativo geopolitico, quando si ha che fare con la Russia, non solo è un errore macroscopico di valutazione ma è estremamente pericoloso.

Cambiando la carta geografica con una carta geopolitica non è difficile vedere che sia l’accesso diretto al Pacifico che quello all’Atlantico sono condizionati da alcuni punti di passaggio di importanza strategica per il controllo delle vie di comunicazione che non sono in mano russa. Da questa analisi deriva uno degli assi portanti della politica estera russa.

Nel settore asiatico la controversia, che da circa settant’anni contraddistingue le relazioni russo-giapponesi, ha come base il possesso delle isole Kuryli che sono la naturale chiusura della rotta verso il mare aperto (e caldo) su cui insiste la direttrice di Vladivostok.

La situazione è molto più complessa e delicata nello scacchiere euroasiatico dove la rotta di San Pietroburgo, che attraverso il Mar Baltico porta al mare del Nord e poi all’Atlantico, deve passare attraverso due strozzature naturali (il Golfo di Finlandia e gli Stretti di Danimarca) dove tutti i Paesi costieri ad eccezione di Svezia e Finlandia (a tutt’oggi) appartengono alla NATO.

Ancora più intricata è la situazione del porto di Novorossiysk, sul Mar Nero la cui rotta di accesso al mare caldo è limitata da due chiuse strategiche: il Bosforo e i Dardanelli per il Mar Mediterraneo e Gibilterra per lo sbocco nell’Atlantico. Anche in questo caso il controllo degli stretti in questione appartiene a Paesi membri della NATO.

Mettendo in relazione questa situazione con la posizione privilegiata in termini geopolitici di cui godono i principali antagonisti della Russia, gli Stati Uniti, la Cina, l’India, appare evidente lo sforzo di Mosca per assicurarsi, con ogni mezzo disponibile, l’accesso sicuro alle vie commerciali marittime mondiali.

Come si evince dall’analisi della storia della Russia il cardine di ogni sua direttrice politica è sempre stato condizionato dalla necessità di rompere l’accerchiamento dei Paesi considerati ostili e avversari non solo sulle sue frontiere terrestri ma, soprattutto, quello di cercare di acquisire il possesso e il controllo degli stretti fondamentali al fine di concretizzare quel concetto di sicurezza che permea la visione russa da sempre.

Fatta questa premessa, non può quindi sorprendere la direttrice strategica della politica che negli ultimi anni ha guidato le relazioni internazionali russe.

Limitando l’analisi al solo settore euroasiatico, appare abbastanza evidente per quanto precedentemente detto, che è attraverso tale chiave di lettura che devono essere considerate le azioni che hanno portato nel 2014 all’annessione plebiscitaria e unidirezionale della Crimea e che adesso stanno condizionando gli sviluppi del conflitto con l’Ucraina. La concentrazione dello sforzo militare russo sulla costa del Mar Nero implica il conseguimento di una condizione di stabilità che consenta lo sfruttamento del porto di Sebastopoli in aggiunta a quello Novorossiysk con una striscia di retroterra che garantisca un miglior collegamento con la Crimea.

Ulteriormente legato a questo imperativo geopolitico risulta essere la volontà russa di limitare l’espansione della NATO verso i suoi confini. La percezione di assedio e di mancanza di sicurezza che costituiscono il motivo principale del contrasto con l’Occidente si basano principalmente sulla paura di poter essere soggetti a un blocco economico disastroso se le rotte commerciali venissero strozzate e chiuse mediante il blocco degli stretti.

L’approccio politico nei confronti della Turchia, tendente a staccarla dall’orbita dell’Occidente e dalla NATO, le operazioni in Ucraina, miranti strategicamente a incrementare il controllo sulla sponda europea del Mar Nero, la ricerca di riacquisire una possibile influenza sui Paesi nel Mar Baltico, sono tutti elementi che adducono allo stesso obiettivo: garantire un accesso sicuro alle rotte commerciali atlantiche!

A questo punto, senza voler in alcun modo giustificare la modalità intrapresa per sostenere questa visione strategica e, quindi, condannando senza riserve il ricorso ad azioni militari come quella in corso, non si può non considerare con maggiore attenzione gli sviluppi che stanno caratterizzando lo scenario internazionale euro atlantico.

Il casus belli utilizzato dalla Russia, come giustificazione per lo scatenare il conflitto in atto, è stato la mancata considerazione delle sue legittime preoccupazioni (reali o solo presunte fa poca differenza) per la sicurezza dei suoi confini minacciati da un’espansione ulteriore della NATO, con la presunta adesione dell’Ucraina. Conflitto durante, tale elemento giustificativo è stato ulteriormente rafforzato da altri due eventi che incidono sulla questione citata delle rotte commerciali.

Il primo riguarda sia il blocco dei porti del Mediterraneo per l’attracco alle navi russe che ha causato notevoli problemi al trasporto, sia la richiesta di chiudere gli stretti del Bosforo presentata alla Turchia che, anche se non attuato ha comunque, ulteriormente, inasprito la posizione russa.

Il secondo molto più recente, invece, è la risonanza mediatica data ad una possibile, ancorché ancora in una fase iniziale di valutazione, adesione alla NATO da parte di Svezia e Finlandia, ipotesi prevalentemente e grossolanamente sostenuta, con enfasi, dagli USA e dal Regno Unito.

Queste mosse non hanno fatto altro che inasprire una situazione già tesa e drammatica e non sembrano essere frutto di una valutazione strategica attenta e lungimirante basata su una vision consolidata e studiata.

Fermo restando la indiscutibile volontà degli Stati di perseguire quelli che ritengono i loro interessi nazionali, ciò che appare evidente è l’assoluta mancanza di una visione strategica di vasta portata che possa contraddistinguere il campo occidentale.

L’abbandono da parte della Svezia di una neutralità, di comodo e spesso interessata, ma soprattutto la decisone simile della Finlandia, sulla base di una presunta minaccia alla loro sicurezza, non rappresenta certo la scelta migliore in un momento come quello attuale.

È un inutile ed è un pericoloso azzardo che non serve a dimostrare né la volontà americana di ricoprire il ruolo del difensore della democrazia e dell’Europa (recuperando un senso di fiducia ormai logoro), né il modo per poter indebolire e far cadere Putin!

La NATO è stata, e continua a essere, una organizzazione di estremo valore fondamentale per l’equilibrio geopolitico euroasiatico, ma non può essere trasformata in uno strumento di pressione nei confronti della Russia per servire una politica miope, demagogica e priva di profondità strategica come è quella che adesso caratterizza la presidenza americana.

Il dilemma strategico della Russia che riguarda come conseguire la sicurezza dell’accesso agli Oceani esiste è reale e non è legato alla presenza di Putin.

Putin non piace al consesso internazionale occidentale può anche essere; è sicuramente colpevole di aver iniziato un conflitto devastante che ha riportato la lancetta della storia indietro di mezzo secolo, è vero; ma non è negando la geopolitica e la geostrategia della Russia che l’Europa e gli USA possono cercare di eliminare un avversario scomodo e pericoloso, e nello stesso tempo sostenere e diffondere la visione occidentale che ricerca l’equilibrio di un sistema di relazioni internazionali basato sul rispetto della democrazia, del diritto e dei valori individuali e umani.

Maurizio Iacono
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