Referendum, un’altra ragione per il no

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Il segretario del PD, Zingaretti, ha fornito ai sostenitori del No al prossimo referendum sul taglio dei parlamentari, un altro valido argomento. Definendo infatti il no una clava per colpire il governo, ha spostato l’attenzione di un elettorato molto distratto e che vota con la pancia e non con la ragione, verso un problema del tutto differente e che nulla ha a che vedere con la stabilità di una maggioranza che i suoi membri vogliono tenere in piedi, sembra ormai, solo per la paura di perdere poltrone e incarichi o uscire dal giro.

Un referendum è un formidabile strumento di democrazia messo a disposizione dei cittadini da un’Assemblea Costituente i cui componenti non immaginavano certo fosse strumentalizzato per le beghe dei leader o di turno che chiamano a votare non sul testo o la sostanza della norma, ma invocano una preferenza paventando rischi di derive e ritorni a regimi passati che, in realtà, sono altri nomi che vorrebbero dare al loro fallimento politico. Siamo lontani dai tempi in cui Fanfani, membro anche lui della Costituente, mise la propria faccia e la propria reputazione in gioco con il referendum sul divorzio e, come dovrebbe fare un vero statista, si dimise dal suo incarico da segretario DC dopo avere, l’anno successivo, portato al minimo storico il suo partito.

L’attuale Governo, e prima ancora il parlamento, avrebbero dovuto interrogarsi sull’opportunità di far svolgere questo referendum non tanto per la perdurante condizione di emergenza sanitaria, ma riflettere l’intero merito di una riforma di cui ne sentono l’utilità solo correnti populiste che ritengono i problemi dell’Italia saranno risolti dal taglio dei parlamentari e da un risparmio che, ormai è dimostrato, equivale al costo di un caffè al giorno. Se avessero voluto davvero voluto risparmiare avrebbero potuto dare l’esempio con una legge che riducesse immediatamente prebende e benefici ai parlamentari. Avevano i numeri, e non lo hanno fatto, così come la maggioranza in aula aveva la possibilità di non farsi scavalcare dal governo che, con una banalissima questione di fiducia, ben potrebbe far convertire in legge i decreti emessi non solo in questa fase di emergenza. E se ciò si è dimostrato un pericolo oggi, non è difficile prevedere che con il taglio dei parlamentari, e i poteri che assumerebbero le commissioni, una legge anche importante potrebbe essere decisa da un numero di parlamentari inferiori ai soci di una bocciofila di paese. Oltretutto, un minor numero di eletti, darebbe più potere alle segreterie di partito nella scelta dei candidati.

Si chieda, ogni elettore, se sarebbero scelti i migliori candidati per il paese oppure la preferenza andrebbe al potente di turno indipendentemente dalle sue capacità. Abbiamo visto i risultati adesso, con lo spettacolo non certo edificante di un deputato portato fuori a forza da un’aula che, in passato, ha fatto da teatro a discorsi storici, da Gramsci a Vittorio Emanuele Orlando, offrirsi come palco di una fiera di paese a belati di complottisti. Gli italiani meritano decisamente di meglio e non è la riduzione dei parlamentari che lo potrà far avere.

Chi scelse l’attuale numero di Deputati e Senatori lo fece sulla base di una popolazione inferiore e in un’epoca in cui il diritto di voto era a ventun’anni e non i diciotto attuali. Non fu certo un caso Chi ritiene che abbassarne il numero dei rappresentanti ci porti a livelli numerici di altri paesi europei dimostra di avere poca, se non alcuna, cognizione di come si svolge la politica e l’attività parlamentare; che comunque non dovrebbe essere fatta sui numeri.

Nessuno nega che sia il momento di una revisione della Costituzione, ma è un’attività che dovrebbe essere demandata ad una nuova assemblea costituente o, quantomeno, ad un parlamento legittimato e, si spera, qualificato. Quello attuale potrebbe ricevere una colossale spallata alle prossime regionali, in contemporanea con una riforma ormai voluta solo da parte di una maggioranza delegittimata nei fatti.

In ogni caso questo voto, per chi volesse leggere un po’ di storia, mette non poca tristezza.

L’Assemblea Costituente ha rappresentato un momento storico e chi vi ha partecipato dovrebbe essere ricordato, ma se facessimo i loro nomi all’elettore medio di oggi probabilmente ci chiederebbe in che squadra e in che ruolo gioca.

C’erano Umberto Terracini, Benedetto Croce, Aldo Moro, Giuseppe Saragat, Giorgio La Pira, Leo Valiani, Piero Calamandrei, Emilio Lussu, Vittorio Foa, Giovanni Gronchi e delle norme sulla libertà personale si face carico Giovanni Leone, sfortunato Presidente della Repubblica ma grandissimo giurista. I nomi degli altri componenti si possono leggere addirittura su Google, oltre che nei libri di storia. A proposito, c’erano anche Pertini, Togliatti e De Gasperi. Avversari politici ma che seppero contribuire a trovare un accordo nel momento in cui l’Italia ne aveva bisogno. Togliatti cedette anche sull’articolo uno. Avrebbe preferito che l’Italia fosse una Repubblica di Lavoratori. Prevalse la formula di Fanfani “fondata sul lavoro”. UN passo indietro non da poco.

Molti dei nomi dei nostri costituenti possono non dire molto oggi; chissà in quanti ricordano Umberto Tupini che fu poi sindaco di Roma o potranno confondere Achille Grandi, sindacalista e fondatore della CGIL con il Dino Grandi che, con il suo ordine del giorno del 25 luglio 1943 portò alla caduta di Mussolini. In ogni caso i costituenti erano tutti appena usciti da una guerra, magari combattendo, e da un periodo duro da vivere; in esilio o al confino. Ma erano tutti in grado di leggere e scrivere; oltre a titoli, esperienze e qualifiche che la maggior parte di loro aveva.

Premesso che la rappresentanza e la rappresentatività non dovrebbero essere quantitative ma di qualità, il no sarebbe un massacro del loro lavoro; anche se incidesse solo nella scelta del numero dei parlamentari.

E comunque una riforma costituzionale deve passare per altre mani, decisamente più competenti e qualificate delle attuali.

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Bookreporter Settembre

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