Era il 12 dicembre 1969, mezzo secolo fa e ancora sembra aleggiare il peso della prima strage in Italia, quella che ha dato l’origine ad un periodo che ha trovato fin troppe definizioni, forse nessuna mai esaustiva e tutte troppo generiche. Anni di piombo; stragismo di Stato; strategia della tensione, sono solo i più usati. La strage di Piazza Fontana si contende il primato come prima strage di Stato con quella di Portella della Ginestra del 1947, ad opera della Banda Giuliano, anche se restano a distanza di settanta anni dubbi sui veri mandanti.
In ogni caso la Strage di Piazza Fontana a Milano, può essere a ragione considerata, almeno in Italia, l’inizio di una lunga stagione che vede ancora oggi non solo strascichi, ma ancora pesanti conseguenze con protagonisti, vittime, parenti e congiunti, che ancora si trovano sui due lati di opposte barricate dalle quali sembra difficile si possa scendere. Del resto ancora vediamo le parti che si contrapposero in Italia dopo la caduta del regime fascista ancora ferme sulle loro posizioni che, ormai datate e forse anacronistiche, restano la base per giustificare l’esistenza e la sopravvivenza politica di fazioni e ideologie ormai scollegate dal mondo reale.
Piazza Fontana viene considerata u inizio in Italia, ma forse è uno dei terminali esplosivi di fuochi accesi anni prima e che covavano sotto la cenere e che erano iniziati ben prima di quanto in molti possano immaginare. Era la fine degli anni sessanta; era la fine di un periodo e di un movimento che si identifica con il sessantotto, ma forse mai errore è stato più grave Forse quel periodo è nato dopo la guerra di Corea, o con la beat generation, con Kerouac e Ginsberg. O più esattamente con il Manifesto di Port Huron, il primo documento ufficiale scritto addirittura prima dell’assassinio di John Kennedy, che di quell’epoca è diventato un’icona sopravvalutata, se pensiamo che fu sotto la sua presidenza che inizio la fase massiva del coinvolgimento americano in Vietnam e l’episodio della Baia dei porci che portò il mondo al limite di un conflitto dagli esiti impossibili da prevedere. Tutte vicende forse opportunamente dimenticate, o rifiutate da chi vuole limitarsi alle vicende di casa nostra. E allora torniamo a quelle, e proviamo a concentrarci su Piazza Fontana e su quello che ne derivò e occupò le prima pagine dei giornali.
Vorremmo parlare di Pinelli e Valpreda, del commissario Calabresi e di Adriano Sofri; opure continuare legando Piazza Fontana con Piazza della Loggia, l’Italicus, Ustica e la strage di Bologna. Tutte legate da un unico filo conduttore secondo qualcuno. Mettiamo nel calderone servizi segreti deviati, faccendieri e massoni, dentro o fuori la P2. Ma non possiamo farlo se prima non pensiamo ad Antonio Annarumma, un poliziotto che, a ragione considerato la prima vittima di quella stagione. Era un ragazzo di 22 anni che proveniva dalla provincia di Avellino e rimase ucciso in circostanze mai chiarite durante una manifestazione indetta dall’unione Marxista Leninista Italiana, una delle tante formazioni che durò giusto il decennio che terminò con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Episodi che appaiono lontani, ma che fanno passare in secondo piano altri importanti precedenti quali la strage di Cima Vallona. Nel 1967 tre militari italiani rimasero uccisi in un attentato organizzato da un’organizzazione separatista altoatesina.
Ma Piazza Fontana, resta un punto fisso dal quale si è dipanata una serie di eventi che lasciano tutt’ora profondi dubbi e incertezze, nonostante le sentenze che si sono succedute negli anni e che, a dispetto degli aspetti prescrizionali, oggi oggetto di errate valutazioni da parte degli attuali politici, restano aperte al giudizio della storia. Ma il problema proprio della storia, è quello di chi la scrive; e mai come in questo caso diventa una questione decisamente delicata, perché chiunque prenda una penna (o purtroppo una tastiera) in mano, raramente muove da una posizione oggettiva, e preferisce valutare ogni vicenda sulla base di una propria idea, un preconcetto o, peggio ancora, su un’ideologia.
Ed è questo il punto che impedisce ogni dibattito o valutazione su quegli anni e che, allo stesso modo, pone un veto, più forte e dogmatico di quei “niet” con cui l’URSS bloccava le decisioni dell’ONU, a valutazioni obiettive e a quel colpo di spugna che viene talora invocato su quegli anni ma che trova opposizioni trasversali e sempre meno giustificate. Si potrebbero riempire più pagine e volumi di quanti non ne siano stati ad oggi scritti su Piazza Fontana e gli anni di piombo; potremmo iniziare da Pinelli e il supporto ruolo del commissario Calabresi nella sua morte; ma non potremmo prescindere dal “manifesto” contro di lui, sottoscritto da ben 757 “intellettuali” di sinistra e che fu il documento che contribuì al suo assassinio. Alcuni firmatari come Norberto Bobbio lo definì poi come un orrore; Scalfari un errore, altri “opportunamente” dimenticarono di averlo firmato. Tra i molti che apposero la firma che portò alla morte di Calabresi ricordiamo anche Dario Fo, Giorgio Bocca, Margherita Hack, Primo Levi. Nomi apparentemente insospettabili.
Cosa rimane dopo cinquant’anni da un triste anniversario? Incertezze, dubbi, odio e posizioni ferme all’epoca dei fatti, In sintesi tutto ciò che impedisce leggere e comprendere quella che è storia. Chi osa farlo, da una parte o dall’altra, può essere del resto solo accusato di revisionismo da parte di chi si sente depositario della verità. Ovviamente la sua verità. E su quella stagione non è possibile mettere la parola fine.