Global e Local tra Guelfi e Ghibellini

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Probabilmente in pochi si sono soffermati a riflettere che il concetto di globalismo, con tutte le sue implicazioni e distinguo, è non solo recente, ma anche decisamente non chiaro in quanto ciascuno ne fornisce una propria chiave di lettura, una definizione e un’interpretazione soggettiva, forse troppo, nella quale prevalgono pregiudizi e preconcetti, oltre che a radici ideologiche, magari solo geografiche, che ne impediscono una piena comprensione.

Nella più comune accezione, oggi per globalismo, e la conseguente globalizzazione, i più intendono un processo di connessioni “worldwide” di scambi, commercio e spostamenti, dominato principalmente da società, meglio se multinazionali, e governi che, con l’appoggio del sistema bancario, manovrano un capitalismo in espansione. Potrebbe essere una definizione comunque accettabile tutto sommato, specialmente per chi ricorda che fin dai tempi dell’antica Grecia la globalizzazione era rappresentata dal commercio e dalle guerre. Saranno forse stati i mercanti sumeri che venivano in Europa i primi a globalizzare il mondo, ovvero i sumeri che commerciavano con l’India? O i greci che, pur conquistati, conquistarono con la loro arte e cultura Roma?

Chissà in quanti conoscono e si soffermano a riflettere sulla figura del pedagogista belga (esatto, non un economista americano) Ovidio Decroly, che muovendo da analisi della conoscenza infantile, sembra sia stato il primo ad utilizzare il termine globalizzazione in un’accezione creata per indicare un carattere della conoscenza infantile che percepisce e afferra l’insieme degli oggetti e delle situazioni. L’esatto contrario di quella che ne è l’accezione odierna comune. Chissà chi è stato il primo ad utilizzare questo termine in un’accezione economica, politica, sociale. Ma il risultato è andato decisamente oltre ogni più rosea aspettativa, e chi usa oggi questo termine non riesce a farlo in contesti che non abbiamo risvolti, appunto, sociali o economici,

Un dato oggettivo: il mondo è sempre più piccolo. Ciò non solo perché gli ottanta giorni che una volta servivano per farne il giro, sono oggi ridotti a due o tre, ma anche perché è possibile incontrare e confrontarsi con l’umanità che lo popola in tempi a dir poco reali; tempi impensabili fino a mezzo secolo fa.

Ed infatti mezzo secolo fa, per telefonare alla fidanzata in una città vicina (sempre che si avesse il telefono in casa) era necessario prevedere un budget, forse superiore a quello di tempo e benzina per andarla a trovare la domenica. Oggi abbiamo giga illimitati e voli low cost che risolvono il problema e possiamo trascorrere ogni weekend da un’amica a Londra, conosciuta su Facebook o Instagram, con cui scambiamo ogni giorno qualche decina di messaggi su WhatsApp o Messenger. Ecco la forma di globalizzazione forse più compresa e comprensibile che non quella del commercio internazionale (vogliamo parlare delle bistecche di canguro?) o delle interazioni tra Stati con tutte le conseguenze economiche che ne derivano.

Globalizzazione è il dato di fatto di un mondo più piccolo e con il quale, e nel quale, non è possibile far finta di non vivere e convivere. Globalizzazione vuol dire non solo avere in ogni città, interi quartieri abitati da immigrati (proprio come succedeva a New York poco più di cento anni fa, ricordate Little Italy?), ma vuol anche dire poter mangiare fragole e frutti di bosco ogni mese dell’anno, grazie ad una rete di distribuzione che ha sostituito quella del chilometro zero, alla quale, tuttavia, in molti auspicano il ritorno.

Globalizzazione è oggi internet, che ha ridotto le distanze allo zero assoluto e permette, solo per fare un esempio banale, ad un analfabeta (anche funzionale), di poter rispondere in tempo reale al post di un ministro: e un analfabeta italiano o brasiliano (in possesso però di una tastiera o uno smartphone), può tenere dotte lezioni di economia ad un titolato docente universitario americano o tedesco.

Globalismo, internet, reti, interconnessioni sono semplicemente, ed in maniera incontestabile, non solo l’attuale presente, ma un futuro verso il quale siamo incamminati e non torneremo indietro.

La domanda successiva da porsi è se, al momento in cui ci siamo indirizzati verso questo percorso, in piena rivoluzione digitale, fossimo pronti; e non solo fisicamente all’uso dei computer. La risposta è no. Probabilmente i più erano in grado di tenere in mano una tastiera, ma non sapevano se e come tenere a bada le proprie emozioni, reazioni, modi di interagire e, non ultimo, approcciarsi con l’altra faccia dello schermo. Riflettiamo che, di solito, c’è un’altra persona, di cui nulla sappiamo ma a cui si vuole imporre il nostro io.

Inutile negarlo, probabilmente in tutto il mondo, ma ancora di più in Italia, baluardo della difesa di luoghi comuni e posizioni acquisite, magari sbagliate. Ma comunque posizioni proprie, novelli guelfi e ghibellini completamente acritici e presi più dalle passioni che non dalla ragione nella difesa dei nostri campanili.

Sembra un mondo di controsensi: paladini e utilizzatori di strumenti e culture Globali ma, usando l’acronimo NIMBY, Not in My Back Yard (non nel mio cortile).

Possiamo quindi riuscire a convivere con il villaggio globale? Forse potremmo farcela tornando almeno in alcuni momenti a pensare ancora di vivere in piccolo. Quando in strada potevamo salutare qualcuno, chiamandolo per nome o, come si usa ancora in alcune comunità, andare a trovare il nuovo vicino e portargli una torta fatta in casa. Globale sì, non abbiamo alternativa, ma provando per un momento a portarvi all’interno qualcosa, magari old fashion, che potrebbe aiutarci ad ammaestrarlo e conviverci.

 Di Gianni dell’Aiuto

 

 

 

 

Bookreporter Settembre

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