GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Maggio 2015 - page 5

Europa e Usa a sostegno dell'unità nazionale della Libia

BreakingNews/Varie di

I Governi di Francia, Germania, Italia, Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti ribadiscono il loro forte impegno per la sovranità, l’indipendenza, l’integrità territoriale e l’unità nazionale della Libia, e affinché le risorse economiche del Paese siano utilizzate per il benessere della popolazione libica.

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Il primo riferimento è alle trattative tra i governi di Tobruk e Tripoli condotte dal mediatore Onu Bernardino Leon: “In un momento in cui il processo di dialogo guidato dalle Nazioni Unite fa segnare progressi verso una soluzione durevole del conflitto in Libia, esprimiamo la nostra preoccupazione per i tentativi di dirottare risorse libiche ad esclusivo vantaggio di una delle parti in conflitto e di dividere istituzioni economico-finanziarie che appartengono a tutti i cittadini libici”.
Nessuna interferenza nelle istituzioni e nell’economia libiche: “Affermiamo nuovamente l’auspicio che coloro che rappresentano le istituzioni libiche indipendenti, vale a dire la Banca Centrale di Libia (CBL), la Libyan Investment Authority (LIA), la National Oil Corporation (NOC) e la compagnia delle Poste e Telecomunicazioni libiche (LPTIC), a qualsiasi campo appartengano, continuino ad operare nell’interesse di lungo termine del popolo libico, in attesa di un chiarimento circa le strutture di governance sotto il Governo di unità nazionale”.
L’unità nazionale è l’unica possibile soluzione per combattere lo Stato Islamico: “Ribadiamo che le sfide che la Libia deve fronteggiare possono essere affrontate soltanto da un esecutivo che possa supervisionare e proteggere in maniera efficace le istituzioni indipendenti del Paese, il cui ruolo è di salvaguardare le risorse della Libia a beneficio di tutta la popolazione. I terroristi stanno approfittando del conflitto in corso per radicare la propria presenza nel Paese e intendono impadronirsi della ricchezza della Libia per portare avanti la propria agenda transnazionale”.
Francia, Germania, Italia, Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti ribadiscono il loro sostegno ai cittadini libici: “La Libia possiede le risorse necessarie per creare una nazione pacifica e prospera, in grado di esercitare un forte ruolo positivo nel più ampio contesto regionale. I terroristi traggono beneficio da questo conflitto poiché il loro scopo è far avanzare i loro progetti in Libia e nel mondo. Esortiamo con forza tutti i cittadini libici a sostenere l’indipendenza di queste istituzioni dalle influenze politiche”.

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Le comunità Roma di Gjakove, Kosovo

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Giorno 2: le comunità Roma di Gjakove

Gjakove è una della città che più è stata colpita dalla guerra del ’98-’99. 1870 morti e 6500 case distrutte sono il risultato della ritorsione del governo di Milosevic contro una città quasi esclusivamente di origine albanese.

Oggi Gjakove conta una popolazione di 94.000 abitanti, quasi tutti di origine albanese, ma ai margini della città vivono più di 3000 persone di origini Roma. Il problema dell’integrazione per questa comunità, al suo stesso interno divisa in “Askhali”, “Egyptians” e “Rom”, è ancora una questione largamente irrisolta, nonostante l’amministrazione comunale, capeggiata dall’unica sindaca del Kosovo ed “egyptian” di origine, stia promuovendo iniziative culturali volte al riavvicinamento delle diverse comunità e la ricostruzione di interi quartieri residenziali.

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Cina, Maitra: “Nessuna politica antiIslam: Xinjiang motore dello sviluppo economico”

Asia di

Lo sviluppo verso ovest. La questione degli Uiguri. La rinascita della Via della Seta. I rapporti con i Stati confinanti. Dal 2000, lo Xinjiang è divenuto per la Cina uno dei motori al servizio della sua preponderante crescita economica. Ma è anche una terra in cui l’identità e la religione locale, l’Islam, rischiano di scontrarsi con gli Han, la maggioranza etnica del Paese. Per affrontare questi temi, European Affairs ha intervistato Ramtanu Maitra, analista presso la sede statunitense della rivista Eir. Inoltre, egli collabora regolarmente con tre trimestrali indiani nel settore della Difesa: Aakrosh, Agni e The Indian Defence Review. In passato, ha scritto per la redazione online di Asia Times.

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Per gli Uiguri, le questioni indipendentiste e religiose vanno di pari passo?

“La religione non è sicuramente la questione più importante per gli Uiguri. Essi non sembrano pronti a sacrificare le proprie vite per salvaguardare la loro religione. Ma quando altri fattori entrano in gioco, come lo spostamento in massa degli Han nello Xinjiang da parte di Pechino, l’identità religiosa viene messa in mostra. In particolar modo, i seguaci dell’Islam, molti dei quali sono stati vittime del colonialismo occidentale in passato, hanno iniziato a riaffermarsi negli ultimi anni e a mostrare la forza della propria religione come un’arma efficace. Pechino ha mostrato poca sensibilità nei rapporti con i musulmani e non sembra comprendere che disonorarli, perfino in un Paese come la Cina dove i musulmani sono un ridottissima minoranza. Non permettere agli Uiguri, perfino a quei pochi impiegati come dipendenti, di non digiunare durante il Ramadan è una pratica che potrebbe ricompattare gli Uiguri più determinati e portarli in diretto contatto con gli islamici più radicali, i quali sono pronti a dichiarare la Jihad contro qualsiasi Paese non islamico”.

“Sono dell’opinione che la maggioranza degli Uiguri non abbia interesse ad arrivare all’indipendenza. Ci potrebbe essere qualcuno che, invece, è interessato, ma la gran parte di loro non vuole semplicemente essere inglobato dagli Han. Da quando Pechino ha adottato la politica dello sviluppo almeno di una minima parte dell’ovest del Paese (ovvero lo Xinjiang), in modo da poter accedere all’Asia Centrale, Meridionale e Sudorientale, questo ha portato con sé, e lo porterà anche in futuro, molti Han ad emigrare verso lo Xinjiang. Questi Han sono lavoratori qualificati, hanno una migliore retribuzione e sono arrivati nello Xinjiang con l’intento di radicare il più possibile le proprie famiglie”.

“Questi sono i problemi riguardanti gli Uiguri. Tuttavia, mentre molti di essi assistono passivamente a questo cambiamento demografico, penalizzante nei confronti della maggioranza etnica nello Xinjiang (un caso non differente da quello che è accaduto e che accadrà in Tibet), alcuni di ribelleranno a questa politica di stato tesa a distruggere la loro identità, la loro cultura, il loro stile di vita e ad imporre la cultura della riverenza verso gli Han. Quest’ultimo gruppo di Uiguri potrebbe parlare di indipendenza, ma essi non possono montare un caso per giustificare la loro indipendenza contro una grande potenza come la Cina. Allo stesso tempo, gli Uiguri di ieri e di oggi, che hanno vissuto o vivono una vita molto dura, accolgono con favore lo sviluppo che Pechino sta portando nello Xinjiang. Non esiste la possibilità che gli Uiguri si uniscano sotto un solo ombrello in una causa molto astratta come l’indipendenza dalla Cina”.
Il ripopolamento dello Xinjiang, attraverso lo spostamento in loco degli Han avvenuto negli ultimi 15 anni, ha avuto l’effetto contrario rispetto alla volontà del governo di sopprimere le istanze degli Uiguri?

“La politica di Pechino di portare l’etnia Han ad abitare nello Xinjiang non mira ad indebolire l’etnia Uiguri. Come ho fatto notare in precedenza, la Cina ha bisogno di sviluppare un’infrastruttura che le consenta l’accesso verso la parte occidentale del Paese, dove ci sono grandi giacimenti di petrolio e gas che Pechino potrebbe utilizzare per sostenere e far crescere la sua economia. Il processo ha fatto riversare la migrazione di una enorme quantità di Han nello Xinjiang, la terra degli Uiguri. Il processo ha anche modernizzato, e continuerà a farlo ulteriormente, molte parti dello Xinjiang. Gli Uiguri trarranno beneficio da tutto ciò, ma, al tempo stesso, entreranno quotidianamente in contatto con gli Han, molti dei quali non hanno ancora ben compreso le cose da fare e da non fare nella religione islamica, la loro cultura e l’attitudine isolazionista degli Uiguri. Alcuni Han potrebbero sentirsi in qualche modo superiori agli Uiguri. Queste differenze potrebbero portare a scontri e conflitti di tanto in tanto, ma non c’è nessuna ragione per credere che, nel corso dei prossimi anni, questi due gruppi etnici non saranno in grado di vivere fianco a fianco”.

“Tornando al tema della domanda, io ritengo che la politica messa in campo da Pechino non abbia lo scopo di sopprimere l’etnia Uiguri, anche se non è comprensiva nei loro confronti. Pechino ha ritenuto che non ci fossero ragioni di fare sforzi a livello sociale per integrare gli Uiguri con il resto della Cina. D’altra parte, se la Cina volesse sopprimere gli Uiguri, perché non gli Han sono stati fatti emigrare nello Xinjiang tra il 1950 e il 2000? Questo non è accaduto semplicemente perché non aveva ancora adottato la nuova politica di sviluppo economico relativamente alla Via della Seta”.
Il fatto che dal 2012 oltre 200 cinesi siano andati a combattere in Siria, fa della Cina uno degli Stati più a rischio a proposito della minaccia jihadista?

“No, questo è assurdo. Se migliaia di fondamentalisti islamici non hanno rappresentato una seria minaccia per 64 milioni di britannici, perché 200 islamisti dovrebbero rappresentare un qualche problema per una nazione con 1,2 miliardi di abitanti? Questo non accadrà. La Cina non vuole utilizzare la forza per dialogare con gli Uiguri. La Cina vuole una “ascesa pacifica”. Atti violenti per frenare le rivolte degli Uiguri, per quanto piccole possano essere, verrebbero sottolineati con titoli da prima pagina dai media occidentali e sarebbero colte dai poteri forti in Occidente che intendono mostrare la Cina come spietata, intollerante agli altri gruppi religiosi e pronta ad esercitare l’uso della forza qualora non venisse seguito il proprio volere”.
Il passaggio della nuova Via della Seta e la presenza di risorse di gas e petrolio: l’aspetto economico è il vero motore della politica antiIslam di Pechino nello Xinjiang?

“In parte sì e in parte no. La Cina dovrà muoversi verso ovest se vuole arrivare al gas e al petrolio dell’Asia Centrale e della Penisola Arabia. Ma la Cina avrà anche bisogno di fare fruttare le risorse minerarie in funzione delle sue aziende produttrici in serie di una grande varietà di prodotti. Ma questa non sarà l’unica strada da perseguire. La Cina, con la sua ampia ed efficiente base di produzione, sarà attivamente alla ricerca di mercati in Asia Centrale e Sudoccidentale, Russia, Ucriana, Bielorussia, Crimea, Europa. Già nel Kyrgyzstan quasi tutti i prodotti venduti nei mercati hanno impressa la scritta “Made in China”. Questa è la parte affermativa della mia risposta”.

“La parte negativa, invece, è che la Cina non sta mettendo in atto nessuna politica antiIslam nello Xinjiang. Tutti i Paesi ad ovest di Pechino che sono in attesa di fornire alla Cina un accesso alle loro risorse energetiche e alle molte risorse di minerali, con l’eccezione d Russia e Georgia, sono tutte nazioni musulmane: Afghanistan, Pakistan, Iran, Turchia e l’intera Penisola Arabica”.
Giacomo Pratali

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China, Maitra: “Xinjiang is not a religious, but an economical issue”

Asia @en di

European Affairs interviewed Ramtanu Maitra (analyst with the US-based Eir magazine. He contributes regularly in three Indian defense quarterlies: Aakrosh, Agni and the Indian Defence Review. He used to write on South Asia in the Asia Times online) to speak about Beijing “will have to move westward in order to bring over land oil and gas from Central Asia and Arabia”. And Xinjiang where Islam that “is surely not a major issue for the Uyghurs”.

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For the Uyghurs, do the issues of independence and religion go hand in hand?

“Religion is surely not a major issue for the Uyghurs. They do not seem to be ready to lay down their lives to protect their religion. But when a number of other factors that disturb them come into play against a powerful front, such as the Han-led Beijing, religious identity is displayed. Particularly since adherents of Islam, many of whom are victims of colonial West in the past, have begun to assert themselves in recent years, to display religion on their shirtsleeves is surely considered an effective weapon. Beijing has shown little competence in dealing with the Muslims and does not seem to realize that to dishonor Muslims, even in China where Muslims are a very small minority, it could mean localized trouble that Beijing may have to curb by using state’s authority, which often overlooks compassion and legality. Not allowing the Uyghurs, even to a handful of them who are in the workforce, not to fast during the Ramadan is a policy which could bring together the more assertive Uyghurs and get them in direct contact with more aggressive Muslims who are in the lookout to declare Jihad against any non-Islamic country”.

“I think most Uyghurs are not interested in seeking independence. There could be a few who do so, but majority of the Uyghurs just do not want to get swamped by the Hans. Since Beijing has adopted the policy of developing at least a minimal infrastructure in the western China ( read: Xinjiang) in order to gain an access to Central Asia, South Asia and Southwest Asia, it has brought in , and will be bringing in more in the future, many Hans from east of Xinjiang. These Hans are skilled, better paid and have come to settle down in Xinjiang to raise their families”.

“All these are issues with the Uyghurs, who really want to be left alone. However, that is not going to happen. While many Uyghurs will take it lying down this demographic change, undermining their absolute majority in Xinjiang ( not that different from what happened or what is happening in Tibet) over the years, some will stand up indignantly declaring it as a state policy to obliterate their identity, culture, their way of life and impose upon them the culture to be obedient to the Hans. The latter group of Uyghurs may talk about independence, but they cannot, like the Tibetans, can build up a case to justify their independence from China, a massive power. At the same time, many Uyghurs, who, and whose forefathers, had lived a hard life, welcome the developments that Beijing is bringing into Xinjiang. There is no way the rebellious Uyghurs can bring under one umbrella the entire community on a very abstract cause such as independence from China”.

 

Has the repopulation of Xinjiang, through the shifting of the Han there in the last 15 years, had a contrary effect with respect to Beijing’s aim to suppress the Uyghurs requests?

“Beijing’s policy to bring in Hans into Xinjiang during the last 15 years is not to undermine the Uyghurs. As I have pointed out earlier, China needs to develop an infrastructure to gain access to its West where seas of oil and gas exists that Beijing could use effectively to sustain and grow its economy. The process has unleashed migration of many Hans to Xinjiang, the Uyghur land, one may call it. The process has also modernized ,and will continue to modernize further, strips of Xinjiang. Uyghurs will draw benefit from all that, but they will also have to come into a daily contact with the Hans, many of whom have little understanding of Islamic do’s and don’t’s, their culture and the isolationist attitude of the Uyghurs. Some Hans may even go as far as trying to prove a phony Han superiority over the Uyghurs. These differences may result in clashes and conflicts from time to time, but there is no reason to believe that over many years, these two ethnic groups will not be able to live side by side”.

“Going back to answering your question, I believe Beijing’s policy is not to suppress the Uyghurs but loaded with non-compassion, Beijing saw no reason to make real social efforts to integrate the Uyghurs with the rest of China. On the other hand, if China wanted to suppress the Uyghurs, why didn’t Beijing bring in the Hans into Xinjiang between 1950 and 2000? They did not bring in the Hans into Xinjiang, because China was not involved then in its newly-adopted Silk Road economic policy”.

 

Does the fact that over 200 Chinese have gone to combat in Syria since 2012 make China one of the most at-risk countries as regards the Jihadi threat?

“No. This is ridiculous. If thousands of Islamic radicals have not posed a serious threat to 64 million Brits, why 200 radicals would pose any sort of problem to a nation of 1.2 billion? It will not. But what China does not want is being forced to use his hammer to deal with the Uyghurs. China wants a “peaceful rise”, that is its constant refrain. Violent acts to curb the Uyghur uprisings, however small those could be, would be played up by the western media in bold headlines and will be seized upon by the powers-that-be in the West to showcase that China, in essence, is ruthless, intolerant to other religious groups and will readily exercise force when it cannot get its way”.

 

The passage of the new Silk Road and the presence of oil and gas resources. Is economics the real driver behind Beijing’s anti-Islam policy in Xinjiang?

“A yes-and-no is my answer to that question. China will have to move westward in order to bring over land oil and gas from Central Asia and Arabia. But China will also need to bring in many mineral reserves in order to keep its factories churning out varieties of products. But it is not going to be an one-way road. China, with its very broad and capable production base, will actively seek markets in Central Asia, Southwest Asia, Russia, Ukraine, Belarus, Crimea Europe et al. Already in Kyrgyzstan almost every item that is sold in the market carries the label: “Made in China”. That is the “yes” part of my answer”.

“The “no” part of the answer is that China is not doing this as an anti-Islam policy in Xinjiang. All the countries in China’s west who are expected to provide China an access to their valuable energy sources and many mineral reserves, with the exception of Russia and Georgia, are all Muslim nations. The “Stan” nations, Afghanistan, Pakistan, Iran, Turkey and the entire Arabia are Islam-dominated nations. Beijing has so far been less than sensitive to the Uyghurs, at least as of now, but it is not foolish. It knows which side of the bread is buttered and who provides and butters it”.

Giacomo Pratali

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Gipsy Groove al Përalla Festival di Gjakova

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Giorno 1 – Parte SecondaIMG_3459

Sono quasi le 6 di sera quando ci rimettiamo in macchina. Questa volta è Luli che decide per noi, Prizren è a soli 15 minuti di strada, e prima di andare al festival possiamo farci un giretto tra le vie del centro più culturalmente attivo del Kosovo. A differenza delle altre città, Prizren ha un centro antico. “Assomiglia a Sarajevo” esclama Eleonora mentre attraversiamo un ponte costruito dagli ottomani. Ci sediamo in un baretto lungo le sponde del Bistrica, per fare due telefonate agli organizzatori del Përalla festival di Gjakova. Non appena il sole scende e tutto si colora di un arancione denso e palpabile, iniziamo a congelarci di freddo, e ci trasciniamo tremanti fino alla macchina. Riusciamo a metterci sulla strada verso Gjakova solo al secondo tentativo, con grande apprensione di Luli. Posiamo i nostri zainoni spacca schiena al Metropolis Motel, uno di quei motel usati dalle coppie non sposate per le fuitine notturne, con tanto di entrata posteriore per uscire di scena con discrezione, e ci fiondiamo al festival guidati da un ragazzo del motel.

Luli è in stress da parcheggio, e dopo 200 manovre si piazza nel posto più lontano dal Festival, per cui ci facciamo una scarpinata di 15 minuti in mezzo al bosco sotto le stelle fino a quando una piccola vallata scavata tra due colline ci illumina il sentiero. Centinaia di ragazzi e ragazze calcano contro l’entrata per buttarsi sotto il palcoscenico in attesa del gruppo di star della serata: i Gipsy Groove. Sono le nuove star del Kosovo, tutti Rom di diversi paesi: il cantante di Gjakova, il batterista di Zagabria, i gemelli ottoni della Macedonia, il chitarrista albanese. Non appena vengono chiamati sul palcoscenico, la valle di Shkügen si inonda di gridolini e salti che fanno traboccare le bottiglie di birra ovunque.

IMG_3747Kafu, il cantante, in due mosse addomestica il palcoscenico lanciando le mani piene di anelli verso il cielo rischiarato dalla luna quasi piena. Gipsy Blues and Rock&Roll è il pezzo atteso da tutti. Ma la scena si riscalda anche quando un ritmo Raggae introduce la famosa canzone rom Ederlezi, scritta nei campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale e diventata famosa in tutto il mondo grazie a Goran Bregovic. I sei musicisti del gruppo, ci hanno spiegato la mattina seguente che la più grande vittoria è stata proprio quella di riuscire a far ballare e cantare tutti su note gipsies. Albanesi, rom, serbi. La musica gipsy ha bisogno per sua natura di mischiarsi a generi, culture, melodie diverse, per plasmarsi ed evolversi. D’altronde, se pensiamo a vari generi musicali come il flamenco o il jazz manouche, cosa sono se non una miscela di ritmi di mondi lontani fusi dalle corde dei chitarristi rom? Parlano di discriminazione, di minoranze, ma soprattutto parlano della vita di tutti i giorni dei rom. I testi sono rivolti ad una generazione futura e giovane che secondo Kafu é sulla buona strada per l’integrazione, anche se, come suggerisce lui stesso, il momento in cui il razzismo verso i rom finirà sarà quando “il fatto che tua sorella esca con un rom non sarà più considerato come un problema…”, perché a tutti piacciono le belle parole, ma quando si tratta della vita personale di ognuno di noi, il gioco è diverso.

Dopo una bella chiaccherata su musica e poesia all’Urban Café di Gjakova, con un sottofondo di Bob Marley che fa canticchiare sorridenti i 6 musicisti di Gipsy Groove, i ragazzi si caricano l’armamentario di strumenti per la prossima tappa della loro tourné dei Balcani, Tirana.

Vi lasciamo sulle note di Gipsy Groove, che forse in futuro verranno in Italia.

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Costanza Spocci
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