GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Califfato

Colloqui Usa-Turchia: accordo su tutta la linea

Medio oriente – Africa di

La visita del vice presidente statunitense Joe Biden a Ankara, ha offerto, nei giorni scorsi, una ulteriore conferma a quello che la comunità internazionale aveva già intuito da tempo. I rapporti fra Usa e Turchia sono più che mai solidi. Quello che in parte sfugge è l’operatività che i due stati hanno intenzione di intraprendere verso quello che ufficialmente viene considerato una forza nemica.

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Parliamo ovviamente di Isis. Biden, giunto in Turchia per affrontare con Erdogan proprio il tema delle azioni da intraprendere in Siria per osteggiare il Califfato, ha glissato sulla questione curda, dando di fatto ad Ankara la libertà di adottare le misure ritenute più adeguate, denunciate da un appello sottoscritto da accademici turchi.

Nel documento si fa cenno a persecuzioni e violazioni dei diritti umani inferti agli appartenenti all’etnia curda. I firmatari sono ora soggetti a indagini, controlli e persecuzioni condannati da Biden come attività antidemocratiche, ma in realtà ignorate. Come il traffico illegale continuo di petrolio iracheno e siriano fornito da Isis alla Turchia che raggiunge, sulle navi di proprietà del figlio del leader turco i mercati mondiali per sovvenzionare le attività terroristiche del Califfato. Che la Turchia sostenga il potere conquistato da Isis viene confermato dalle parole pronunciate dal capo dei servizi segreti turchi Hakan Fidan che in una intervista rilasciata il 18 ottobre scorso all’agenzia di stampa turca, Anadoly, ha dichiarato: “L’Emirato Islamico è una realtà e dobbiamo accettare. Non possiamo debellare una istituzione popolare e ben organizzata come lo Stato islamico. Pertanto, esorto i miei colleghi in Occidente a rivedere il proprio modo di pensare a proposito delle correnti politiche islamiche, a mettere da parte la loro mentalità cinica e contrastare Putin che prevede di schiacciare i rivoluzionari siriani islamisti”.

Il prossimo aprile Erdogan riceverà la guida dell’Oic, Organizzazione per la Cooperazione Islamica, fondata nel 1969 da 57 Stati membri, considerata “la voce collettiva del mondo musulmano”. Al momento sono 56 gli associati, gli stessi che hanno formato la “coalizione islamica antiterroristica” spinti dal principe saudita Salman. Tutto fa pensare che Erdogan continui, sempre con maggiore caparbietà, a perseguire il sogno di rifondare il vecchio impero ottomano. Sul suo cammino “il musulmano delle Nazioni Unite” sembra non trovare al momento ostacoli particolari. Non certamente dagli Stati Uniti, interessati più a scalzare Bashar Al Assad, premier siriano, che a contrastare efficacemente il califfato.

 

Monia Savioli

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Isis: nuove conquiste in Siria

Medio oriente – Africa di

La penetrazione dell’Isis continua a mietere terreno in Siria. Nell’est del paese, vicino a Deri Ezzor, l’attacco di qualche giorno fa ha prodotto, in base ai dati diffusi dall’agenzia ufficiale siriana Sana, circa 300 vittime fra donne, bambini e anziani.

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Una strage bollata come la più grave negli ultimi cinque anni di guerra civile. Il crudo bollettino di guerra riferisce di almeno 150 decapitati nei sobborghi controllati dal regime siriano a Dayr az Zor, Ayash and Begayliya. Nel corso dell’assedio a Deri Ezzor, oltre 400, fra donne e bambini, membri delle famiglie dei combattenti di Assad, sarebbero stati rapiti alla periferia settentrionale, nel quartiere di Al-Baghaliyeh. Circa 270 di loro sono stati rilasciati. Si tratta di donne, bambini e adolescenti fino ai 14 anni. Nel contempo, le forze contrarie allo Stato Islamico continuano ad attaccare.

A Raqqa, roccaforte del califfato sono stati uccisi, nel corso dei raid aerei organizzati da russi e americani –  tramite la coalizione anti Isis – circa 40 civili, fra cui 8 bambini. I numeri sono stati diffusi dall’Osservatorio nazionale per i diritti umani. Fra i fumi di questa carneficina si inserisce un dato: Isis ha dimezzato lo stipendio dei militari nella regione di Raqqa. I jihadisti parlano di «circostanze eccezionali» che assumono il volto degli effetti provocati dai bombardamenti aerei che hanno colpito impianti e colonne dei pozzi petroliferi e dal crollo del prezzo del greggio.

A questi elementi si aggiungono gli effetti provocati dalla controffensiva innescata contro il califfato. Nonostante questo però le posizioni Isis in Siria si sono allargate fino a cingere le cittadina di Deir Zour nel Nord del paese. La Turchia, paese Nato, nel frattempo continua a sponsorizzare il califfato acquistando il petrolio venduto dall’Isis e favorendo il passaggio verso la Siria dei foreign fighters.

L’atteggiamento ambiguo di Erdogan continua senza grossi ostacoli. Mentre Schengen crolla e l’America, lontana a sufficienza per riuscire ancora a selezionare gli ingressi, l’Europa continua a fare i conti con flussi migratori importanti ed assiste impotente al massacro dei cristiani falcidiati nelle parti controllate dall’Isis. Il dubbio resta lo stesso. E’ davvero così importante per la comunità internazionale riuscire a contrastare Isis?

 

Monia Savioli

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Libia: in attesa del via libera dell’ONU

Medio oriente – Africa/Varie di

Come annunciato a seguito della Conferenza Internazionale di Roma, le diverse fazioni libiche, Tripoli e Tobruk su tutti, hanno raggiunto a Skhirat (Marocco) l’accordo per il governo di unità nazionale. Il Consiglio di Presidenza, presieduto da Sarraj Fayez, dai tre vicepremier in rappresentanza di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, più altri rappresentanti hanno il compito, entro 40 giorni, di trovare i ministri e formare il nuovo governo. C’è attesa, intanto, per la risoluzione ONU, che dovrà definire i termini dell’intervento militare per mettere in sicurezza Tripoli e addestrare le forze di sicurezza locali: l’Italia è pronta ad assumere il ruolo di guida della coalizione internazionale, mentre la Gran Bretagna invierà circa mille uomini.

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Nella giornata di giovedì 17 dicembre, con un giorno di ritardo rispetto alla tabella di marcia, i 90 rappresentanti dell’Assemblea di Tobruk e i 27 del GNC di Tripoli hanno firmato l’accordo, frutto di un’estenuante trattativa durata un anno. Il Consiglio di Presidenza neoeletto, oltre a scegliere i rappresentanti del nuovo esecutivo, dovrà convincere i presidenti dei rispettivi parlamenti ad accettare l’accordo. Tra i nodi da sciogliere, anche la modalità dell’intervento della coalizione internazionale: le diverse fazioni, infatti, caldeggiano l’addestramento delle forze di polizia libiche, piuttosto che un intervento militare straniero classico.

Se le reazioni positive da parte delle più cariche istituzionali globali si sprecano, sul campo iniziano già a vedersi i primi effetti dell’accordo sotto l’egida dell’ONU. La presenza di un esecutivo unico a Tripoli consentirà, dopo la Siria, di aprire in Libia l’altro fronte per la lotta allo Stato Islamico, radicalizzatosi a Sirte e presente in maniera forte in centri importanti come Bengasi.

Un piccolo nucleo di truppe statunitensi è già presente in loco, come riportato da molti media internazionali. Così come Francia e Gran Bretagna sarebbero già arrivati in Libia attraverso i confini meridionali.

E l’Italia? Come trapelato da ambienti vicino alla Difesa, il non interventismo in Siria, l’apporto alla missione NATO in Iraq di 450 soldati a difesa dei lavori presso la strategica diga di Mosul, mostrano chiaramente la linea di Roma: riservare il massimo sforzo, in termini umani e logistici, alla più vicina, e per questo più cruciale, Libia.

La missione militare internazionale in Libia, dunque, è già alle porte.
Giacomo Pratali

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Francia attacca IS. USA-Russia cooperano?

Varie di

L’aviazione francese ha intensificato i bombardamenti su Raqqa all’indomani dell’attacco terroristico a Parigi. Nel G20 in Turchia, il bilaterale tra Obama e Putin lascia intravedere degli spiragli su una comune strategia in Siria.

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Lo stato di guerra proclamato dal presidente francese Francoise Hollande ha già avuto un seguito. Non solo entro i confini nazionali. L’aviazione d’oltralpe, infatti, ha intensificato, nella notte del 15 novembre, i bombardamenti sulle postazioni strategiche in Siria. Il Ministero della Difesa ha dichiarato che sono 12 gli aerei totali impiegati, i quali hanno intensificato i raid presso Raqqa, capitale dello Stato Islamico, e preso di mira un centro di comando e un campo di addestramento.

Gli attacchi di Parigi hanno quindi portato ad una immediata reazione da parte dell’Eliseo. E, soprattutto, il governo non è spaventato dal fatto che, proprio i raid delle settimane scorse in Siria, sono stati una delle cause di quanto successo il 13 novembre. Gli attacchi aerei di queste ore sono, inoltre, il frutto della collaborazione tra Francia e Stati Uniti, già presenti sia sul territorio siriano sia su quello iracheni, che hanno fornito un supporto logistico e di intelligence.

Proprio il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha intrattenuto un proficuo colloquio con il suo omologo russo Vladimir Putin nel corso del G20 di Antalya (Turchia). Negli oltre 30 minuti di faccia a faccia, alla luce degli attentati di Parigi, si sono riavvicinati, tanto che la Casa Bianca ha definito la discussione come costruttiva.

Al netto della questione ucraina e dei confini NATO in Europa, quanto avvenuto a Parigi potrebbe aprire lo scenario di una cooperazione militare in Siria, al fine di “risolvere il conflitto nel Paese”, si legge nella nota diffusa dopo il vertice. Pur con la questione del sostegno ad Assad ancora in ballo, la strategia del terrore dello Stato Islamico potrebbe avere un effetto contrario e ricompattare Occidente e Russia in nome della lotta al Califfato.
Giacomo Pratali

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Il Califfato rallenta la sua corsa

POLITICA di

Nel 2014 gli attacchi terroristici in occidente aveva generato nell’opinione pubblica un nervosismo generalizzato, la paura di un trend in crescita difficile da fermare.

La serie di attacchi portati a termine da cellule indipendenti o da singoli ha avuto il suo culmine con la strage di Parigi alla redazione di Charlie Hebdo furno stimolati dalla Fatwa che il portavoce dello Stato Islamico islamico Abu Muhammad al-Adnani aveva lanciato “…  l’incredulo americano, il francese, o uno qualsiasi dei loro alleati, spaccategli  la testa con una pietra, o  la  macellazione con un coltello, o  investitelo con la vostra auto, o  buttatelo  giù da un luogo elevato, o soffocatelo , o avvelenatelo. “

Dopo Parigi e Copenaghen però gli attacchi hanno subito un rallentamento ed è diventato chiaro che i Johadisti di base in occidente non sono stati in grado di mantenere il ritmo evidenziando il dato che quanto accaduto nell’ottobre del 2014 era una anomalia e non l’inizio di un trend inarrestabile.

Questo risultato può essere dovuto in parte all’intensificazione delle attività di intelligence e sicurezza delle varie nazioni ma anche dal fatto che la parte di popolazione a cui fa riferimento il terrorismo islamico abbia raggiunto la saturazione e il messaggio non faccia più breccia.

Questo non significa che spariranno in futuro le minacce terroristiche dei lupi solitari ma sicuramente saranno fenomeni isolati e sicuramente con un ritmo più lento.

Il fenomeno dei foreign fighters sembra essere diminuito forse anche per il fatto che i fattori di Appeal dello Stato Islamico sono in crisi,  meno successi sul campo, una espansione meno rapida, la differenza tra la vita sontuosa promessa e la realtà di una quotidianità da trincea difficile da sostenere.

In tal senso molti sono i rapporti filtrati dalle linee  parlano di esecuzioni ai danni di militanti che avrebbero voluto lasciare il campo di battagli a per tornare a casa e comunque i racconti di chi è riuscito a tornare minano fortemente la capacità di adesione che solo lo scorso anno sembrava inarrestabile.

Nonostante tutte queste difficoltà il messaggio dei terroristi islamici ha mantenuto un suo fascino quello della profezia che si avvera in un nuovo stato potente e accogliente che riporta alla memoria i fasti di un impero medioevale.

La brutale strategia del saccheggio e degli stupri non hanno allontanato o del tutto  le potenziali reclute che provengono dall’occidente mentre per i molti all’interno delle linee occupate la scelta è quella di obbedire o morire.

In sintesi il miraggio profetico di un nuovo stato islamico non scomparirà  immediatamente ma sarà sgretolato con il tempo e non riuscirà ad aumentare le sue fila cosi velocemente come si è visto recentemente. Le esecuzioni barbare, la sistematica distruzione del capitale culturale e storico delle zone occupate risveglia nei molti una indignazione più forte della volontà di appartenenza.

 

Libia: sì al governo di unità nazionale

Il governo di unità nazionale libico si farà. L’accordo, raggiunto nella tarda serata di giovedì 8 ottobre, è stato firmato da tutte le fazioni in gioco, compreso l’esecutivo di Tripoli, il quale, dopo molte reticenze, ha detto sì alla bozza del 21 settembre scorso avallata dalle altre parti in gioco. Il ruolo di Primo Ministro, secondo quanto annunciato dal delegato Onu Bernardino Leon, dovrebbe spettare a Fayez Serray, ex Ministro della Casa in uno degli esecutivi del dopo Gheddafi.

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“Esprimiamo la nostra gioia perché c’è almeno una chance – ha affermato Leon -. Secondo le agenzie Onu, 2,4 milioni di persone sono in una grave condizione umanitaria. A tutti loro vanno le nostre scuse per non essere stati capaci di proporre prima questo governo”.

Dopo circa un anno di trattative pronte a naufragare da un momento all’altro, Leon, a fine incarico in Libia, è riuscito a portare a termine l’accordo tanto atteso. Pur con i distinguo da parte delle ali estreme dei due esecutivi, i governi di Tobruk e Tripoli si sono impegnati a scegliere il futuro Consiglio dei Ministri. Mentre le Nazioni Unite hanno già nominato i tre vicepresidenti che comporranno, assieme al premier, il Consiglio di Presidenza.

Moussa Kony, indipendente e proveniente da Fezzan. Ahmed Maemq, membro del Congresso Generale Nazionale di Tripoli. Fatj Majbari, proveniente dalla Cirenaica ma non fedele al generale Khalifa Haftar.

La comunità internazionale ha accolto con soddisfazione l’accordo. Adesso, si apre la fase della formazione del governo e del possibile intervento militare, sotto l’egida delle Nazioni Unite e a possibile guida italiana, contro lo Stato Islamico: “Ora i partiti libici sostengano l’intesa che va incontro alle aspettative del popolo libico, nel cammino verso la pace e la prosperità. L’Ue -ha annunciato- è pronta a offrire un immediato e concreto sostegno finanziario di 100 milioni di euro al nuovo governo”, ha annunciato l’alto rappresentante Ue Federica Mogherini.

Mentre il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon auspica che “non venga sprecata questa opportunità per mettere il Paese sulla strada della costruzione di uno stato che rifletta lo spirito e le ambizioni della rivoluzione 2011″.

Sulla stessa lunghezza d’onda, il ministro degli Affari Esteri italiano Paolo Gentiloni, il quale ha espresso “soddisfazione per il risultato conseguito  nella notte dalle delegazioni delle formazioni libiche. Si tratta di un’importante tappa del percorso verso l’auspicabile creazione di un governo di unità nazionale. Ora è fondamentale che  tutte le parti approvino l’intesa raggiunta questa notte e procedano alla firma dell’accordo”.  – ha detto  il Ministro –  “L’Italia, nel riconoscere l’incessante sforzo compiuto dall’inviato delle Nazioni Unite, Bernardino Leon –  ha concluso Gentiloni –  continuerà a dare il suo sostegno alle prossime tappe verso la pace e la stabilità della Libia”.

Giacomo Pratali

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Nigeria-Libia: viaggio di sola andata

Medio oriente – Africa di

La Multi National Joint Task Force ha annunciato il dispiegamento di quasi 9000 unità contro Boko Haram, dopo le 200 vittime nelle ultime due settimane. Lo stesso Boko Haram è pronto a supportare i miliziani del Daesh a Sirte.

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8700 soldati dispiegati contro Boko Haram. È quanto annunciato lo scorso 26 agosto dalla coalizione africana Multi National Joint Task Force, composta Nigeria, Camerun, Ciad, Niger e Benin. Soprattutto i primi tre Paesi, sono sempre più il bersaglio dell’organizzazione islamista affiliata all’Isis.

Un provvedimento che potrebbe essere tardivo. Nello Stato di Borno, tornato ad essere l’epicentro degli scontri tra milizie regolari e truppe islamiste, sono state oltre 200 le vittime civili nelle ultime due settimane. Una risposta alle altrettante persone liberate dall’esercito nigeriano nello stesso arco di tempo.

Ma c’è un altro fronte. Oltre ai profughi in fuga da questi continui massacri e diretti verso la Libia, c’è un’altra rotta che porta allo Stato nordafricano: quella dei combattenti di Boko Haram, arrivati a Sirte per dare manforte ai miliziani del Daesh. Come riportato da molti media internazionali, le fonti libiche hanno stimato che “200 combattenti nigeriani sarebbero pronti ad unirsi alle truppe dell’Isis”.

Dallo Stato di Borno, passando per il Lago Ciad e il sud del Camerun, fino ad arrivare a Sirte. La rete del Califfato si sta allargando a macchia d’olio e non appare più sporadica sulle carte geografiche. E la modalità del terrore, già testimoniata nei villaggi nigeriani, ciadiani e camerunensi, è la medesima a Sirte. Solo pochi giorni fa, il leader spirituale dello Stato Islamico Hassan al Karami aveva fatto il seguente annuncio choc nel corso di un sermone nella moschea di Rabat: “Decapiteremo i ribelli dell’opposizione dopo la preghiera del venerdì, gli abitanti di Sirte consegnino le loro figlie ai combattenti che le sposeranno”.

Parole dure. Parole che sono la testimonianza di quanto l’organizzazione di al Baghdadi si sia radicata nella città di Sirte da giugno ad oggi. Moschee, istituzioni e media sono nelle loro mani. E le vittime, esponenti di Fajr Libia, delle Brigate di Misurata e di altri gruppi libici, testimoniano quanto la mancanza di unione nazionale alla Libia faccia il giorno dello Stato Islamico.
Giacomo Pratali

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Nigeria: 150 trucidati durante Ramadan

Boko Haram torna a colpire nello Stato di Borno. I fedeli sono stati massacrati perché ritenuti moderati. La coalizione africana arranca di fronte all’avanzata del Califfato, malgrado l’arresto di uno dei leader dell’organizzazione jihadista.

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150 morti a seguito di due attacchi dei miliziani di Boko Haram presso i villaggi di Mussaram e Kukawa, situati nello Stato di Borno, nel nord della Nigeria. I jihadisti hanno fatto fuoco contro i fedeli, impegnate nelle preghiere nei pressi delle due moschee dei due paesi. Così come sono stati massacrati donne e bambini, rimasti a casa a preparare il pasto serale della festa.

Già, festa. Perché questo è il mese del Ramadan. E la scelta degli uomini del Califfato di colpire in questo periodo così carico di significato per l’Islam non è casuale. Così come avvenuto in Kuwait, i jihadisti hanno massacrato questi fedeli perché ritenuti troppo moderati rispetto alla loro concezione dell’Islam.

Dal mese di giugno in poi, gli uomini di Boko Haram sono tornati alla carica e hanno riconquistato molti villaggi nel nord della Nigeria, oltre ad avere colpito anche a N’Djamena, capitale del Ciad. I successi iniziali della coalizione militare africana sembrano essere stati vanificati. E, nonostante pochi giorni fa sia stato arrestato Bahna Fanaye, uno dei leader della cellula terroristica e a capo di un imponente traffico d’armi, l’ombra del Califfato incombe su buona parte dell’Africa Occidentale.
Giacomo Pratali

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Ciad: vietato il burqa

Medio oriente – Africa di

“I burqa in vendita nei mercati verranno ritirati perché utilizzati dai terroristi per camuffarsi”. Così il premier del Ciad Deubet ha annunciato alla stampa il divieto di indossare il velo al fine di combattere l’avanzata di Boko Haram, dopo gli attentati suicidi avvenuti nella capitale N’Djamena. Una norma che “non è contraria ai principi dell’Islam”, afferma dal canto suo il Consiglio Superiore per gli Affari Islamici dello Stato africano.

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Dopo l’offensiva a quattro, denominata MJTF (Multinational Joint Task Force), assieme a Nigeria, Niger, Camerun e Benin, partita a gennaio, l’organizzazione terroristica è passata al contrattacco. E, dopo essere tornata in azione nello Stato di Borno, adesso l’offensiva jihadista ha puntato dritto il Ciad.

Il Califfato in Africa, proclamato nel 2014 da Boko Haram, al netto di qualche battuta d’arresto, sta maturando e sta assumendo un’organizzazione parastatale e paramilitare in grado di mettere in difficoltà gli eserciti regolari. E, dopo la Nigeria, anche il Ciad, alleato strategico per l’Occidente, si trova a dover combattere una battaglia interna.

Il 15 giugno scorso, infatti, quattro attentatori suicidi hanno causato la morte di quasi 30 persone e un centinaio di feriti a N’Djamena, la capitale del Ciad. Gli uomini di Boko Haram, fattisi esplodere nei pressi del commissariato e dell’accademia di Polizia, hanno colpito per la prima volta la principale città del Paese.

Non solo. A cavallo tra maggio e giugno, presso l’isola di Choua, nel lago di Ciad, si è consumata una cruente battaglia tra le truppe jihadiste e l’esercito, riuscito in parte a fermarne l’avanzata. Alla fine, 37 sono stati i morti totali, 33 dei quali riconducibili a Boko Haram.

Giacomo Pratali

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Nigeria: Buhari vince a sorpresa, ma Usa e Gb denunciano brogli

Medio oriente – Africa di

Il musulmano Buhari batte il presidente uscente Goodluck. Il passato del neo Capo dello Stato, unito alle interferenze politiche denunciate da Usa e Gb, fanno presagire un rischio per la tenuta democratica del Paese africano

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È stato il musulmano Muhammadu Buhari a vincere le elezioni presidenziali della Nigeria svoltesi a fine marzo. Il candidato dell’Apc, Congresso dei Progressisti, ha battuto il presidente uscente (e cristiano) Jonathan Goodluck. Il partito del neo vincitore va al potere per la prima volta nella storia del Paese africano.

Ma, nonostante Goodluck abbia subito accettato la sconfitta, il 2 aprile, pochi giorni dopo la tornata elettorale, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno parlato di possibili brogli. Al netto dei 3 milioni di voti di scarto, i due Stati denunciano interferenze politiche durante lo scrutinio.

A rendere concreti i sospetti, sono i precedenti di Buhari. L’ex generale, infatti, era stato protagonista del golpe del 1983, grazie al quale era solito al potere fino al 1985. In seguito, non è più stato rieletto per i tre mandati successivi, ma si è comunque reso protagonista di violenze verso la parte cristiana della Nigeria.

Nigeria alle prese con il nemico Boko Haram, presente soprattutto Borno, dove il nuovo presidente ha governato negli anni ’70 e ha fatto il pieno dei voti in queste elezioni. La possibile collaborazione nell’ombra, al netto delle dichiarazioni contrarie durante la campagna elettorale, tra il governo e il gruppo jihadista, potrebbe mettere a repentaglio non solo la tenuta democratica del Paese, ma anche gli impianti petroliferi a Lagos e dintorni e la presenza stessa di molte potenze occidentali nella zona. L’interesse economico e industriale spinge quindi Usa e Gran Bretagna a vigilare sulle prime mosse del presidente Buhari. Il pericolo è che si ripeta uno scenario analogo a quello libico.

Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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