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REGIONI - page 95

Elezioni in Germania: l’importanza della formazione del nuovo Regierung

EUROPA/Senza categoria di

Le elezioni politiche tedesche si sono tenute a Settembre 2017, ma da allora non abbiamo ancora un governo stabile nella Germania Federale. L’assenza di una maggioranza all’interno dell’esecutivo sta danneggiando la Germania e la sua credibilità agli occhi dei suoi cittadini. In questi ultimi mesi, infatti, il paese tedesco sta vivendo una delle sue peggiori crisi politiche dal 1950.

Come sappiamo, è stata riconfermata nuovamente la nomina come Cancelliere ad Angela Merkel, che, ormai, svolge questo ruolo dal 2005. Nonostante la sua vittoria politica, la nota dolente è che il partito, di cui è rappresentante (CDU), non è riuscito a raggiungere la maggioranza necessaria per la formazione dell’esecutivo. Questo risultato è stato segnato dall’insoddisfazione generale del corpo elettorale, che ha in queste elezioni manifestato la mancata condivisione di alcune politiche portate avanti dalla Cancelliera, tra le quali quelle riguardanti il fenomeno delle migrazioni e il loro ingresso, più o meno incrollato, in Germania. Dalle attuali elezioni, infatti, è risultato che il partito della Merkel, il CDU, abbia raggiunto solo il 32,9% dei voti, perdendo ben 8% rispetto al passato. Il CDU non è stato l’unico partito ad accusare gli esiti di questi elezioni. Infatti, a seguirlo vi sono stati FDP, che ha raggiunto i minimi storici, appena il 10% (conquistando solo 80 seggi) e il SPD, avendo raggiunto solo il 20% dei voti. Ciò che è apparso incredibile è stato, invece, il risultato ottenuto da parte del partito AfD, conosciuto per essere un partito estremista e Xenofobo, che ha conquistato un’ottima posizione dal risultato elettorale. La sua “vittoria” è un’ulteriore dimostrazione della mancata adesione del popolo tedesco alle politiche condotte negli ultimi quattro anni. Ma cosa comportano di fatto queste elezioni?

Il mancato raggiungimento della maggioranza minima richiesta ha dato inizio a diversi tentativi per creare delle coalizioni governative, tra le quali, la più famosa è stata la coalizione Jamaika, che prende il nome dal colore dei partiti di cui si sarebbe dovuta comporre CDU, CSU (la spalla bavarese del CDU, più rigida su specifici temi), i Grünen e i FdP. Fin dall’inizio erano numerosi i dubbi sull’effettiva riuscita di questa alleanza.

Per quale ragione, si era giunti a queste considerazioni? Semplicemente perché nessuno dei suddetti partiti era disposto a trovare compromessi e a ritrattare le proprio posizioni, al fine di far funzionare quest’alleanza politica. I problemi maggiori, infatti, sarebbero sorti in relazione al tema immigrati: il partito bavarese CSU proponeva la fissazione di un tetto massimo d’ingressi annuali non superiore ai 200 mila, mentre i Grünen, al contrario, volevano che si portasse avanti una politica più flessibile, comprendendo il cosiddetto Familiennachzug (ricongiungimento famigliare). In realtà, nelle giornate di novembre, prima del 19, erano state fatte delle proposte-compromesso da parte dei Verdi, che avrebbero accettato la richiesta del CSU del limite sugli ingressi, ma in cambio, chiedevano che venisse escluso dal tetto delle 200 mila persone, coloro che facevano richiesta per il ricongiungimento familiare. Questo tema è stato il principale punto di frizione tra i due partiti, dal momento che, secondo le affermazioni dei Verdi, è “inumano escludere, chi già per legge ha diritto alla protezione, non permettendogli di aver accesso al ricongiungimento famigliare” Nella giornata del 19 Novembre 2017, la Cancelliera, Angela Merkel, avrebbe dovuto presentare la formazione definitiva del suo governo, che, invece, non si era ancora formato, proprio per i contrasti esistenti su specifici temi: migranti, come sopra indicato, ma anche la nomina di alcune figure istituzionali, tra le quali il Ministro della Finanza e il Ministro degli Affari esteri. Non solo a questo si aggiungono anche le notevoli differenze, che caratterizzano il modo di portare avanti una politica europea. I principali punti di tensione si sarebbero concentrati sull’esportazione delle armi e nella rete commerciale tedesca. Per quanto riguarda il traffico delle armi, negli ultimi mesi la Germania è stata coinvolta nella questione Arabia Saudita-Yemen, quando è stato reso pubblico, che molte delle armi vendute all’Arabia Saudita provenissero dalla Germania. Secondo i Grünen, la Germania dovrebbe astenersi da qualsiasi coinvolgimento in questa guerra, infatti nel corso del 2017, anche a seguito di questo episodio, il Paese Tedesco ha vissuto ben due momenti di crisi governativa, di cui uno a Marzo ed uno subito dopo ad Aprile, che hanno evidenziato le incertezze e instabilità del governo. Al di là di queste fondamentali difficoltà e della mancanza di punti d’incontri sul tema migranti, il fallimento della coalizione Jamaika è stato determinato dal ritiro da parte dei Liberali, FDP, di cui il leader, Lindner, ha espressamente detto “Meglio non governare, che governare male”.

Altri problemi sono apparsi sul fronte Schulz, segretario del SDP, il quale avrebbe affermato, che egli non sarebbe mai stato favorevole, almeno inizialmente, ad una grande coalizione, come quella Jamaika. Date queste dichiarazioni, l’unica soluzione che si era prospettata alla Cancelliera era la formazione di una coalizione con il partito di estrema sinistra, die Linke, nati dalla scissione dal SDP, ma a questa proposta si è opposto il secco rifiuto della CSU baverese, che non aveva alcuna intenzione di spostarsi così a sinistra. Novembre, di conseguenza, ha costituito per il neo-governo tedesco un futuro incerto: accettare di non avere la maggioranza e governare con una minoranza, consci che l’esecutivo sarebbe stato sempre un bersaglio facile per l’opposizione, oppure tornare nuovamente alle elezioni. Per la prima volta dopo il 1950, la Germania sta vivendo un periodo storico-politico particolarmente difficile, in cui i più grandi partiti hanno subito delle pesanti sconfitte. La vicinanza a delle nuovi elezioni sembrava sempre più vicina, soprattutto dopo quattro settimane di consultazioni, che si sono concluse con l’archiviazione definitiva della coalizione Jamaika. Invece, ad oggi stiamo aspettando gli esiti dei sondaggi e delle consultazioni, che termineranno venerdì 15 Dicembre e che chiariranno se sarà possibile avviare una coalizione tra l’Unione (CDU/CSU) e SDP di Schulz. Negli ultimi giorni ha iniziato ad echeggiare nell’aria il termine KoKo, ossia Kooperation-Koalition (Cooperazione-Coalizione). Anche in questo caso sembrerebbero nascere dei problemi riguardo i progetti proposti dal SDP, tra cui una nuova assicurazione civile da fornire ai cittadini. In particolare, le opposizioni proverrebbero da parte del CSU ritenendo, a maggioranza, che non sarebbe una soluzione percorribile, oltretutto perché verrebbe a costituire solamente un peso economico per la maggior parte degli assicurati.

Nella serata di mercoledì 13 Dicembre, si è dato avvio al primo round di sondaggi e consultazioni elettorali, per capire se vi è, effettivamente, la possibilità di creare questa KoKo tra CDU/CSU e SPD. L’incontro ha visto la partecipazione di tutti e tre i segretari dei partiti: Merkel, Seehofer (dalla parte bavarese) e Schulz. Nonostante gli sforzi e le consultazioni, molte perplessità si sollevano circa l’effettiva capacità e stabilità di questa cooperazione. Si parte, infatti, dal presupposto che i partiti, in particolare CSU e SDP si scontrano riguardo a taluni argomenti: l’assicurazione cittadina, la politica da applicare nei confronti degli immigrati, in particolare sul tema ricongiungimento famigliare. Tutti elementi che sembrano suggerire la presenza di numerosi ostacoli per la realizzazione di questa alleanza.

Inoltre, vi sono anche delle resistenze all’interno dello stesso SDP, dove taluni membri del partito non sono interessati ad una coalizione con un governo, che nell’arco di tre mesi, non è riuscito a formare una maggioranza, ma che anzi è stato anche fortemente criticato da uno dei suoi principali alleati politici, i liberali FDP. Non mancano, poi, delle critiche sulla credibilità del partito guidato da Schulz, da parte dei Die Linke, come ha affermato recentemente al Frankfurter Allgemeine, Tanja Kipping, segretario dei Die Linke, “ Il Partito SDP si sta dimostrando insicuro e timoroso delle sue scelte. Ad occhi esterni, sembra che non sappia esattamente cosa voglia”.

Sotto un profilo europeo, la mancata formazione del governo tedesco comporta paure ed incertezze anche per gli europei, che auspicano quanto prima possibile la formazione del Bundesregierung. Infatti, la convocazione di nuove elezioni non è agli occhi degli Stati Membri dell’UE la soluzione migliore, anche perché, a seguito di una nuova tornata elettorale, i risultati potrebbero sostanzialmente cambiare e, magari, in meglio per l’Alternative für Deutschland (AfD), di cui teme la riuscita elettorale soprattutto la Grecia. Tuttavia, la Germania non rimane l’unico caso che non è riuscita a formare un governo di maggioranza, concluse le tornate elettorali: eccezione fatta per l’Italia, anche l’Olanda sperimentò un lungo periodo di crisi, che coprì un arco di tempo di 220 giorni, fino a raggiungere il nuovo governo. Paesi come l’Austria, invece, hanno affermato che il risultato delle elezioni politiche non poteva che essere lo specchio della mancata attenzione da parte del governo tedesco a talune dinamiche, che, invece, avrebbero meritato maggiore cura da parte dell’esecutivo. Lo stesso Macron, Presidente della Francia, ha affermato che se la Merkel si fosse legata ai liberali, allora il suo governo non sarebbe potuto andare avanti per molto e, proprio alla luce di queste considerazioni, chiedeva, quanto prima la convocazione a nuove elezioni.

Nel frattempo, venerdì 15 si sono tenute le consultazioni elettorali per sapere definitivamente se l’SPD parteciperà a questa coalizione. In questa occasione, tutte le parti hanno convenuto che le consultazioni dovranno riprendere da inizio gennaio, ma che l’SPD dovrà dare una risposta definitiva l’11 gennaio, così che entro il 14 si potrà pianificare l’ingresso al Parlamento dell’SPD.

In poche parole, ciò significa che fino al 2018, se tutto va secondo la scaletta programmata, la Germania non avrà un governo federale formato e questa situazione è tanto critica dagli esponenti dell’Unione (CDU/CSU), che dichiarano “non si possono fare esperimenti”, quanto da parte di alcuni esponenti del SPD.

 

The security challenge in the Meditterranean. A view from Turkey

EUROPA di

La sede della Stampa estera a Roma ha onorato la presenza dell’attuale Ministro degli Affari Esteri della Turchia, Mevlüt Çavuşoğlu che in un conciso ma esplicativo dibattito con Monica Maggioni, giornalista italiana, ha osservato la situazione della Turchia nello scenario internazionale in relazione ai rapporti dei paesi del Mediterraneo. È proprio il Mediterraneo ad attribuire il nome agli eventi che, ormai da 2 anni, accompagnano l’iniziativa Med Dialogues, con incontri istituzionali e non circa il ruolo che questo bacino ha sempre avuto ma ha sviluppato vertiginosamente negli ultimi decenni.
Il Ministro inizia nel dire che il potere economico al giorno d’oggi non è più solo concentrato in Europa, ma si sta sviluppando anche in altri continenti come l’Africa; questa è l’epoca dell’estremo e cita i conflitti mondiali come termine di paragone, pur ammettendo che a livello di morti e fenomeni migratori, forse i numeri attuali superano quelli del ’14-‘18 e del ’39-’45. Xenofobia e discriminazione sono le parole chiavi dei dibattiti odierni, com’è quindi possibile la costruzione di una responsabilità mediterranea? Innanzitutto è necessaria la collaborazione tra i paesi, non soltanto per interessi economici ma anche in visione di una maggior integrazione e coesione sociale; bisogna concentrare le lotte contro le tratte umane, ponendosi quindi comuni obiettivi da comuni progetti. Un miglior sistema informativo e di sicurezza che permetta una maggiore cooperazione tra i soggetti internazionali è senz’altro lo strumento che secondo il Ministro può portare a tale responsabilità. Bisogna uccidere le ideologie portate avanti dagli estremisti in cui regna la politica dell’isolamento e della discriminazione, provando quindi a regolare in maniera più efficiente l’immigrazione. Çavuşoğlu si concentra poi sulla necessità di aiutare chi più ne ha bisogno e in questo l’ Italia insieme alla Turchia già da tempo stanno promuovendo accordi e possibili soluzioni.
Terrorismo e quindi necessariamente Siria è l’ultimo argomento affrontato dal Ministro che ha assunto una posizione alquanto positiva raccontando la cronologia della posizione turca rispetto alla difesa dei territori colpiti dal jiadismo; la Turchia ha fin dai primi tempi organizzato campagne per la lotta ed i suoi uomini hanno ucciso molti soldati estremisti. Alla domanda della Maggioni “i rifugiati siriani che ora abitano in Turchia una volta sconfitto totalmente l’ISIS torneranno nel paese d’origine o saranno integrati nella società turca, risponde che essi sicuramente si sentiranno più sicuri nella loro terra, come qualsiasi individuo, quindi se potranno, preferiranno tornare ma altresì il Ministro ritiene che il 20 % forse resterà in Turchia data la stabilità economica, il riconoscimento della cittadinanza e l’assistenza sanitaria che è stata loro riconosciuta.
Sul fronte UE Mevlüt Çavuşoğlu non si preoccupa minimamente del rapporto con l’Italia: infatti chiede spesso ai suoi colleghi europei il perchè dovrebbe avere problemi con essa, una cosa che però l’ UE ed i suoi membri devono capire è che la Turchia non è un paese con cui trattare, l’economia turca è un’economia forte e non necessita di scambi di policy, bisogna trattarla come un paese come un altro. Questa non è una visione patriottica ma puramente reale, concludo il ministro.
Laura Sacher

La Corea del Nord e la corruzione: ecco l’ennesima ferita sanguinante per la middle-and low class coreana

ASIA PACIFICO/POLITICA di

Un’altra “pedina” da eliminare, quella della corruzione che ultimamente sta dilagando in Corea del Nord. Dall’altra parte della scacchiera un avversario forte e temibile: Kim Jong-un. Una partita ancora aperta, ma che al momento vede in netto vantaggio il dittatore nordcoreano. Quest’ultimo ha, infatti, disposto che le autorità richiedano pagamenti di una certa somma utilizzando pretese diversificate ed in continuo aumento; a poco serve il rifiuto governativo dell’accumulazione di ricchezza personale di stampo anti-socialista. Decine di unità di polizia e personale dell’esercito sono tenuti a fermare le auto ed i camion che trasportano merci per domandare loro “i soldi per il pranzo”, costringendo gli sventurati a concedere circa 30-40 dollari ai gruppi militari. Questa pratica tanto scorretta quando improbabile in altri Paesi, si sta presto trasformando in consuetudine e si diffonde sempre più l’usanza, per gli autotrasportatori, di tenere preventivamente da parte una somma di denaro da donare alle unità di polizia.
Ma automobilisti e camionisti non sono gli unici a dover soccombere a queste nuove regole: pare che anche le classi più agiate, le cosiddette élites, non siano immuni al pagamento di tali tangenti. Ma se è vero che in questo ordine mentale creato da Kim Jong-un ogni classe è uguale alle altre, è pur vero che “l’ordine sociale” creato tra le varie stratificazioni sociali sembra non procedere nella stessa direzione. Le tangenti imposte all’upper class ricadono inevitabilmente sulla middle-and low class, a riprova del detto infantile, ma quanto mai veritiero “ciò che è mio è mio, ciò che è tuo è mio”.
L’effetto che inevitabilmente viene a crearsi all’interno di questo contesto sociale è un sentimento pubblico che si sta portando ai minimi livelli, in una proporzione diretta con l’intensificazione del livello di tirannia prodotta da Kim Jong-un. Capita, a volte, che i gruppi militari vengano accusati di corruzione, ma non esiste, di fatto, un reale interesse nel punire i colpevoli e quindi accade sempre che le stesse accuse cadano poi nel dimenticatoio.
Persino la polizia pare sia costretta al pagamento di tangenti pari a 70 dollari ed ogni squadra militare abbia ordinato ai propri sottoposti di riscuotere l’importo richiesto in segno di lealtà al regime. Condizione, questa, che fa vivere l’intero sistema sociale in un clima di totale soggezione ed ansia legata al timore di non essere all’altezza delle aspettative della guida suprema della Repubblica coreana.
“Se non si può utilizzare la legge per estorcere denaro, allora non si ha ciò che serve per portare a termine il proprio lavoro” è, di fatto, una frase più volte pronunciata dai gruppi militari di rango elevato nei confronti dei propri sottoposti. Applicando questa “nuova norma”, le squadre militari si stanno diffondendo a macchia d’olio per tutta Pyongyang, attraverso un sistema che potremmo tranquillamente definire una rapina legittimata. La vendita di merci contrarie alla politica socialista vede come unico mezzo di espansione la corruzione delle autorità coreane ed il conseguente dilagarsi di un sistema di corruzione che non trova ancora fine.
La situazione nordcoreana non ha quindi condotto solo ad un malcontento interno generale, bensì ha ottenuto come risposta una serie di sanzioni internazionali, le quali non permettono da tempo ormai alla Corea del Nord di guadagnare valuta estera, producendo così una serie di ripercussioni interne ed esterne che non accennano ad arrestarsi.

Congo: attaccata base Onu, è strage di caschi blu, 15 morti e più di 50 feriti

AFRICA di

Almeno 15 uomini dei caschi blu dell’Onu sono rimasti uccisi in un violentissimo attacco, avvenuto lo scorso 7 dicembre nella provincia del Kivu Nord, nella Repubblica democratica del Congo. Il numero dei feriti è ancora da stabilire, stando alle dichiarazioni rilasciate dal direttore delle operazioni dell’ONU, Ian Sinclair, sarebbero circa 53 uomini. Sinclair ha inoltre identificato la provenienza delle vittime, erano soldati della Tanzania. Il segretario generale ONU, Antonio Guterres definisce l’attacco come “il peggiore della storia recente”.

Il Consiglio di Sicurezza ha condannato con forza l’”efferato attacco”, ribadendo il proprio pieno sostegno nei confronti delle istituzioni della missione di pace. ”Questi attacchi intenzionali contro le forze di pace delle Nazioni Unite sono inaccettabili e costituiscono un crimine di guerra” ha detto il Segretario generale António Guterres, aggiungendo: “condanno questo attacco in modo inequivocabile.”

Inoltre, esortando le autorità della RDC a indagare sull’incidente e a portare rapidamente i colpevoli alla giustizia, il capo delle Nazioni Unite ha sottolineato: “non ci deve essere impunità per tali assalti, qui o in qualsiasi altro luogo.”

Sebbene non si abbiano ancora certezze sui responsabili, in queste ore si sta indagando su quanto accaduto. Un comunicato della “Monusco” ha riferito che ad attaccare sono stati “sospetti elementi delle Allied Democratic Force(ADF)”. Il riferimento è nei confronti di un gruppo di ribelli attivi , sin dagli anni novanta, nelle zone tra Congo e Uganda. Il loro obbiettivo dichiarato è quello di sconfiggere il presidente dell’Uganda, Yoweri Musuveni, ma attualmente costituisce il maggior pericolo nazionale anche per la Repubblica Democratica del Congo. Inoltre questo gruppo di miliziani, che tuttavia non sarebbe legato alle formazioni Jihadiste africane, si è reso protegonista di diversi attacchi nei confronti dei caschi blu dell’Onu, già in passato. Lo scorso ottobre, infatti, un attacco ad una base operativa, sempre nell’instabile regione del Kivu Nord, ha causato 2 morti e 18 feriti.

Missione Monusco. La missione di pace delle Nazioni Unite in Congo, conosciuta con l’acronimo di Monusco, ha l’obbiettivo di stabilizzare il territorio del paese centroafricano, che per via delle sue caratteristiche, con ampie risorse minerarie, oggi è teatro di contesa tra vari gruppi armati, che negli ultimi anni si sono resi protagonisti di diversi conflitti. La missione, come riportato dal sito ufficiale, è in corso dal 2010.

Nuova mossa di Trump: Gerusalemme capitale di Israele.

MEDIO ORIENTE di

La decisione del Presidente degli Stati Uniti, Trump, di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e di trasferirvi l’ambasciata americana da Tel Aviv ha fatto notizia in tutto il mondo. Tra le principali reazioni troviamo naturalmente quelle della zona interessata, da Israele all’Autorità Palestinese, da Hamas alla Turchia, con interventi anche di esponenti delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e dei principali Paesi europei. Nonostante gli avvertimenti vari, da Macron a Erdogan, Trump, lontano da ogni consenso, ha dimostrato ancora una volta che è fedele  ai suoi interessi.

Gerusalemme è una ferita aperta. Un labirinto dal quale nessuno è riuscito a trovare un’uscita. 70 anni fa, l’accordo di spartizione della Palestina aveva collocato temporaneamente la città sotto l’amministrazione internazionale. Ma presto la parte occidentale era stata occupata da Israele e dopo la guerra dei sei giorni, nel giungo del 1967, anche quella orientale (la parte che i palestinesi considerano loro capitale). In questo nido, Trump ha giocato con il fuoco. Sapendo che tutte le ambasciate  hanno sede a Tel Aviv, ha permesso che la sua intenzione di trasferire l’ambasciata trapelasse e ha persino allertato le delegazioni USA sulle possibilità di proteste. Con il suo silenzio, come quando ha ritirato il suo paese dagli Accordi sul clima di Parigi, ha fatto sì che la tensione raggiungesse il culmine. Il risultato è stato che in tutto il Medio Oriente e in Europa le pressioni si sono moltiplicate per costringerlo ad un cambiamento di rotta, mentre lui con tutte le luci puntate addosso, si accomodava sul barile di polvere da sparo per meditare. È il suo modo di fare politica. 

La decisione è stata già comunicata  al leader palestinese, Mahmud Abbas, e al re giordano Abdullah II con un giro di telefonate. La sua intenzione è quella di riconoscere la “realtà storica” di Gerusalemme e spostare l’ambasciata il prima possibile. Il cambiamento di sede era già stato deciso dal Congresso nel 1995, ma per motivi di sicurezza nazionale era stato sospeso da tutti i presidenti precedenti a Trump. La Casa Bianca sostiene comunque che il trasferimento per quanto desiderato richiederà anni, a causa dei permessi e per questioni di sicurezza. In ogni caso, il riconoscimento di Gerusalemme, con il suo enorme onere simbolico, significa gettare benzina sul fuoco. Non solo Trump pone fine a quella tregua internazionale ormai decennale, ma riafferma la sua fede filo-israeliana, che tanti voti gli ha portato durante la campagna elettorale, e avverte i palestinesi che il suo obiettivo è quello di aprire  un nuovo ciclo in cui la soluzione a due stati non è necessaria.

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha qualificato come atto storico la decisione di Trump e ha invitato gli altri paesi a fare la stessa cosa, affermando di essere profondamente grato al presidente americano per la scelta fatta e che qualsiasi accordo di pace nella zona deve tenere conto di Gerusalemme come capitale di Israele. L’indignazione cresce nella zona interessata e in Europa. Una nuova tempesta  che è stata accolta  con costernazione in un’area devastata da decenni si sangue e fuoco. Il leader palestinese, Mahmud Abbas, ha dichiarato in un intervento televisivo che Gerusalemme è la capitale storica  dello Stato Palestinese, puntando il dito contro la decisione americana e rifiutando qualsiasi mediazione nelle negoziazioni con Israele.   Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ha già minacciato una nuova intifada, secondo cui la decisione di Trump “apre le porte all’inferno”, etichettandola come un’aggressione contro il popolo palestinese. L’OLP (l’Organizzazione Palestinese di Liberazione) ha definito la misura come “il bacio della morte” per la pace. In Turchia, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha manifestato la sua contrarietà, minacciando la chiusura di rapporti diplomatici con Israele, definendo la questione come una linea rossa per il mondo musulmano. In modo meno bellicoso, ma sempre indignata è stata la reazione dell’Organizzazione  della Cooperazione Islamica, che riunisce i paesi musulmani, dichiarando che il trasferimento significherebbe ignorare l’occupazione di Gerusalemme Est come territorio palestinese. Dall’Europa sono arrivati dichiarazioni da Macron, secondo cui la scelta di Trump va contro le risoluzioni dell’ONU, e dall’Alto Rappresentante UE Mogherini che ha espresso preoccupazione  per le conseguenze della mossa del presidente statunitense.

Tuttavia, secondo alcuni analisti, la mossa di Trump, per quanto spregiudicata, è meditata. I paesi arabi protesteranno formalmente, ma esistono interessi più grandi che non possono essere compromessi. Soprattutto sul fronte di Riyad, il legame tra USA e Arabia Saudita è indirizzato nell’opposizione all’ascesa dell’Iran, una battaglia condivisa con lo stesso Israele, e per essere forti su questa lotta al potere degli ayatollah, i sauditi hanno bisogno del supporto statunitense. Naturalmente fra i motivi di questa decisione bisogna citare la chiara strategia di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica verso la politica internazionale, cercando di distoglierla dallo scandalo del Russiagate con le sue ultime novità (possibile coinvolgimento del consigliere capo e genero di Trump, Jared Kushner). Non da ultimo il chiaro furore ideologico, ereditato anche da presidenze passate, secondo cui Israele è il bene assoluto.

Di Mario Savina

Somalia: Un comunicato del Comando americano in Africa smentisce il coinvolgimento di 10 civili in un attacco aereo ad Agosto

AFRICA di

Secondo quanto riportato da un comunicato stampa del U.S Africa Command datato 29 novembre 2017, il raid aereo avvenuto il 25 agosto scorso per mano delle forze armate congiunte somalo-americane, non avrebbe causato la morte di nessun civile. In quella data fu effettuato un attacco nei pressi di Bariire, in Somalia, con l’intento di colpire il gruppo terroristico Al-Shaabab.

Diverse notizie, uscite nei giorni successivi, parlavano dell’uccisione di almeno 10 civili. Un articolo pubblicato dall’Ansa, il 26 agosto 2017, riporta le dichiarazioni del capo dei militari somali, affermando che il blitz mirato in Somalia, in quello che credevano fosse un campo di addestramento dei terroristi islamici di Al-Shaabab, era invece una tranquilla fattoria, ed ha causato la morte di 10 civili, tra cui tre bambini. La notizia in quei giorni fu confermata da diverse agenzie di stampa e testate,  nazionali ed internazionali. Reuters ha fatto riferimento ad alcune testimonianze oculari sull’accaduto, riportando anche le parole di cordoglio del parlamentare Mohamed Ahmed Abtidon, verso le famiglie delle vittime.  “I dieci civili sono stati uccisi accidentalmente, il governo e i parenti adesso discuteranno del risarcimento. Inviamo le condoglianze alle famiglie”.

La smentita. A distanza di tre mesi dal giorno del raid aereo il comando degli Stati Uniti in Africa smentisce il coinvolgimento di civili. Nel comunicato da cui si apprende la notizia si legge espressamente che; “ Una valutazione approfondita da parte delle forze ufficiali somale, a seguito delle indiscrezioni che parlavano dell’uccisione di 10 civili, nell’operazione guidata dall’esercito, lo scorso 25 agosto nei pressi di Bariire, ha portato alla conclusione che tutte le vittime facevano parte dei combattenti nemici armati” . Si tende a specificare inoltre che “prima di ogni operazione, si conduce una pianificazione dettagliata e un coordinamento per ridurre al minimo la probabilità di incidenti civili, e per garantire il rispetto della legge nel conflitto armato”.

Il contesto.   Al-Shabaab, fondato in Somalia nel 2006 e affiliata ad al-Qaeda, è una delle organizzazioni terroristiche più letali al mondo. Il gruppo mira a rovesciare il governo internazionalmente riconosciuto di Mogadiscio, per imporre la “Sharia”, la legge islamica, in tutto il paese.

Negli ultimi due anni, la cooperazione militare tra l’Unione Africana, le autorità locali e il governo americano, ha costretto i terroristi ad abbandonare importanti roccaforti urbane. Tuttavia, i militanti, attivi soprattutto nel sud della Somalia, continuano a compiere attacchi sistematici contro hotel, check-point militari e palazzi presidenziali, causando la morte di decine di civili.

Da quando il presidente americano Donald Trump è stato eletto alla Casa Bianca, il comando degli Stati Uniti in Africa ha intensificato i raid aerei nel territorio, con l’intento dichiarato di eliminare i miliziani di Al-Shaabab.

Yemen: un nuovo missile è stato lanciato da parte dei ribelli contro i nemici sauditi

MEDIO ORIENTE di

I ribelli Houti hanno lanciato, giovedì 30 novembre, un missile balistico di media gittata diretto in territorio saudita. Secondo quanto riporta Masirah TV, il missile è partito dal nord dello Yemen ed è riuscito a colpire l’obiettivo militare fissato in Arabia Saudita. D’altra parte un video rilasciato dalle forze militari saudite smentisce parte della notizia, mostrando l’abbattimento del missile prima del raggiungimento dell’obiettivo.

Questo sarebbe il secondo missile yemenita lanciato verso l’Arabia Saudita nel mese di Novembre.

L’attacco è stato sferrato poco dopo che il capo del movimento di resistenza Ansarullah, Sayyid Abdul-Malik Badreddine al-Houthi, da cui il nome con cui vengono appellati i ribelli, ha rilasciato un discorso in diretta televisiva. Tale discorso ha avuto una grande visibilità, dieci mila spettatori, in quanto si stavano celebrando i festeggiamenti per l’anniversario di compleanno del profeta Maometto, ricorrenza che quest’anno coincide con l’anniversario di trent’anni dalla liberazione dell’occupazione Britannica in territorio yemenita del 1967.

Al-Houti ha minacciato future rappresaglie contro l’Arabia Saudita, in risposta al blocco areo, navale e terrestre che sta mettendo in ginocchio la popolazione yemenita. “Se il blocco dovesse continuare, sappiamo cosa (quali obiettivi), potrebbero causare grande dolore e sappiamo come raggiungerli” queste sono le dure parole del leader dei ribelli, che arrivano solamente un giorno dopo gli scontri mortali avvenuti vicino la moschea di Saleh, nella capitale.

La tentata riconquista saudita della regione di Najran si rivela un buco nell’acqua

MEDIO ORIENTE/Senza categoria di

L’esercito saudita ha tentato di riconquistare una città nella regione del Najran, al confine con lo Yemen. La città in questione è stata di controllo saudita fino a qualche mese fa, prima che i ribelli Houti se ne appropriassero.

Tuttavia il piano di riconquista è stato un fallimento: le forze saudite sono state costrette a ritirarsi perché incapaci di fronteggiare la controffensiva dei ribelli.

I media Houti hanno condiviso un filmato, giovedì 30 novembre, che mostra chiaramente la sconfitta saudita sulla collina di Al-Sharfah, nella parte sud della regione.

Sebbene lo scorso martedì 28 novembre la coalizione yemenita sia riuscita a liberare la catena montuosa di Jabal al-Asayad, punto nevralgico per i ribelli Houti dove venivano organizzati i piani d battaglia, la situazione non sembra andare verso la via della soluzione.

Le forze dei ribelli Houti al momento controllano buona parte del confine tra Yemen e Arabia Saudita; è questa la situazione che allarma il governo di Riyadh, in particolar modo considerando le chiare difficoltà riscontrate nel ricatturare questi territori.

Somalia: Attacco aereo degli Stati Uniti contro l’ISIS

AFRICA di

Il 27 novembre scorso, un militante ISIS è stato ucciso in un attacco aereo degli Stati Uniti in Somalia. A renderlo noto , il Comando Militare Americano in Africa. “In coordinamento con il governo federale Somalo, le forze americane hanno condotto un attacco aereo contro l’ISIS, nel nord-est della Somalia il 27 novembre, uccidendo un terrorista”, questo è quanto si legge espressamente nel comunicato del “U.S. Africa Command”.  Il raid è avvenuto intorno alle 3 di pomeriggio, ora locale.

All’inizio di novembre, a seguito della volontà dell’amministrazione Trump di espandere la presenza militare nel Corno D’Africa per combattere il terrorismo Islamico, gli Stati Uniti hanno cominciato a prendere di mira le piccole cellule di jihadisti in continuo aumento nel Paese africano. Secondo quanto riportato dalla CNN, il 3 e il 4 novembre si sono verificati due attacchi aerei dislocati in zone differenti, causando la morte di, come si legge nell’articolo, “diversi” terroristi. Gli attacchi, in quel caso, sono stati perpetrati da un drone privo di equipaggio.

Negli ultimi anni le forze armate statunitensi, in collaborazione con quelle aeree, hanno periodicamente operato contro il gruppo terroristico Al-Shaabab, resosi protagonista di diversi attacchi nei confronti delle forze occidentali nei territori dell’Africa orientale. Ultimamente sembrerebbe che circa 200 estremisti abbiano disertato questo gruppo terroristico, cominciando ad organizzarsi in piccoli gruppi vicini all’ISIS.

Le volontà da parte degli Stati Uniti sono chiare. Nel comunicato da cui è stata appresa la notizia, si legge che; “Le forze statunitensi continueranno ad utilizzare tutte le misure autorizzate e appropriate per proteggere i propri cittadini  e per disabilitare la minaccia terroristica. I nostri obiettivi politici e di sicurezza prevedono la ricostituzione della pace interna in Somalia, rendendolo un paese in grado di affrontare tutte le minacce del suo territorio”. Si specifica che ciò prevede la collaborazione oltre che con le forze di sicurezza nazionali, anche con la Missione dell’Unione Africana in Somalia(AMISOM). Essa è stata autorizzata dall’Unione Africana e approvata dalle Nazioni Unite nel 2007, con l’obbiettivo di garantire un piano di sicurezza al paese.

 

La cooperazione UE-NATO: alcuni concetti chiave

AMERICHE/EUROPA/SICUREZZA di

La relazione tra UE e NATO costituisce l’ossatura strategica della sicurezza e della difesa europea e la letteratura specializzata ha tentato di elaborare alcuni concetti chiave per comprenderla. Qui si cercherà di riassumerne i principali.

La cooperazione UE (Comunità Europea e, solo dopo, UE) NATO affonda le sue radici nella necessità europea di difesa e sicurezza dal pericoloso vicino sovietico e nella visione strategica americana del contenimento dell’URSS e ha garantito, sotto l’ombrello della deterrenza, la pace e la sicurezza nel Vecchio Continente per 43 anni. Il crollo dell’Unione Sovietica e del bipolarismo ha fatto emergere però alcune novità: una serie di nuove sfide alla sicurezza sempre più complesse e le nuove ambizioni europee in materia di sicurezza e, poi, difesa (PESC e PESD) secondo visioni ed obiettivi propri.

L’UE si è così inserita nel dibattito post-bipolare sulla sicurezza e la pace globale con alcune innovazioni: la teorizzazione del “comprehensive approach”, la politica di allargamento, il lancio delle Politiche Europee di Vicinato, il fortissimo coinvolgimento europeo nella cooperazione allo sviluppo, gli accordi di partenariato, tutte testimonianze della volontà di Bruxelles di trasformare il tradizionale approccio alla sicurezza e al crisis management verso un’ottica unitaria e value-oriented. Molti scettici, in particolare dalle file della teoria realista e neo-realista delle RI, sostengono che l’actorness europea in campo di sicurezza e difesa sia un miraggio, strutturalmente impossibile da raggiungere e intrappolata in un “capability-expectations gap” (teorizzato da Christopher Hill), in sostanza uno scarto tra aspettative e reali capacità delle politiche comunitarie.

La relazione odierna tra UE e NATO si fonda sugli Accordi “Berlin-Plus” firmati nel 2002 che forniscono un “framework completo per le relazioni permanenti” tra i due soggetti. Ad oggi, fatta eccezione per le missioni Concordia e Althea nella ex-Jugoslavia, l’accesso UE alle capacità di pianificazione strategica e alle risorse e alle capacità NATO non è mai stato utilizzato. Storicamente, gli accordi giungono in un momento particolare della storia delle due istituzioni: la NATO, infatti, era alle prese con il proprio passaggio da alleanza militare regionale a provider di sicurezza internazionale, l’UE da potenza economica ad attore stabilizzatore e pacificatore (almeno nel suo vicinato) tramite l’introduzione della PESC e della PESD (poi PSDC). In questa relazione, la NATO ha rappresentato il provider di “hard security”, militare e globale, mentre l’UE l’attore di “soft security”, il “normative power” (Manners, 2002), il “civilian power” (Bull, 1982).

Ad inficiare il rapporto è, però, intervenuto il c.d. “problema della partecipazione” (Simon J. Smith e Carmen Gebhard) causato dalla membership NATO ma non UE della Turchia e dalla membership UE ma non NATO di Cipro. Infatti la Turchia, dopo la firma di Berlin Plus, ha cercato di assicurarsi che nessun futuro membro dell’UE (chiaro riferimento a Cipro) potesse interagire direttamente con la NATO (in quanto membro UE) senza un precedente accordo di sicurezza con essa. L’obiettivo è quello di evitare che Cipro possa accedere a capacità e risorse strategiche che potrebbero compromettere le rivendicazioni (e la presenza) turche nell’isola. Dall’altra parte Cipro ha fatto ricorso a tutte le sue risorse per ostacolare l’ingresso (e in generale qualsiasi forma di integrazione o cooperazione) della Turchia nell’UE.

La realtà dei fatti dimostra un quadro complesso e frammentato: la relazione strategica odierna tra UE e NATO esiste ma al di fuori del framework di Berlin Plus e, quindi, in maniera meno efficiente e unitaria, improntata secondo Simon J. Smith e Carmen Gebhard ad una prevenzione consapevole dei contrasti (“informed deconfliction”). Tale approccio opera costantemente in sub-ottimalità e non è sostenibile nel lungo periodo per gestire la complessità del contesto di sicurezza e difesa in Europa e America.

Per quanto l’UE e la NATO abbiano, quindi, sperimentato una divaricazione tra potenzialità e effettività della loro relazione, il contesto strategico di attività li spinge verso una convergenza, essendo condizionato da simili fattori e simili sfide, tre in particolare: il deterioramento delle relazioni occidentali con la Russia, gli interessi di sicurezza nel Medio Oriente, la minaccia terroristica. Al contrario spinte di allontanamento possono derivare da tre fattori: la presidenza Trump che coaguli internamente l’UE ma isoli esternamente gli USA, la Brexit che scarichi l’UE della presenza ostativa del Regno Unito ma spezzi l’anello di congiunzione tra UE e USA costituito dalla “relazione speciale” anglo-americana, il deterioramento delle relazioni UE-Turchia (membro della NATO e storico pilastro strategico americano).

Lorenzo Termine

Lorenzo Termine
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