GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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REGIONI - page 46

Hezbollah e la lotta al coronavirus

MEDIO ORIENTE di
Il partito della milizia sciita libanese annuncia la mobilitazione di migliaia di volontari con il tentativo di riconquistare la legittimità persa negli ultimi mesi.

Hezbollah ha dichiarato guerra al coronavirus in Libano. Un esercito di 25.000 persone in prima linea e quattro ospedali privati per vincere la battaglia contro il virus, una priorità dichiarata dal partito della milizia sciita libanese. La terminologia bellicosa permea i discorsi televisivi del segretario generale del partito, lo sceicco Hasan Nasralà, che non si riferisce alla milizia meglio equipaggiata della regione, ma al reggimento di medici, infermieri e volontari mobilitati nel Paese levantino. E’ la penultima mutazione di un movimento, denominato di resistenza islamica, in costante metamorfosi nell’ultimo decennio.

Hezbollah è passato dallo scontro con Israele, il nemico sionista, alla lotta contro i “tafkiris in Libano e Siria” – dal 2012 circa 10.000 miliziani libanesi  hanno combattuto nel Paese vicino a fianco di truppe fedeli a Bachar al-Assad e al sostegno di Teheran -, fino a trovarsi oggi ad affrontare la questione pandemia. A livello nazionale, ha cessato di essere un partito di opposizione  per entrare a far parte del governo appena creato, un governo fragile che ha preso vita insieme agli alleati sciiti di Amal e alla forza cristiana incarnata dal Movimento patriottico libero. Nella distribuzione dei ministeri, il partito islamista ha preteso quello della salute.

“La paura del virus ha riportato i libanesi nelle tradizionali strutture di solidarietà basate sul partito e sulla confessione, oggi in competizione per servire le proprie basi sociali”, ha affermato Maha Yahia, direttrice del Carniege Center for the Middle East, a Beirut. Le persone hanno perso la fiducia nelle istituzioni statali in cui il potere politico-economico è distribuito sulla base delle 18 religioni ufficiali. “Tra le parti, Hezbollah è semplicemente quello che offre il piano più completo avendo a disposizione più risorse”, sottolinea la Yahia. La milizia ha deciso di trasferire la sua capacità di mobilitazione militare sul piano sociale. Nei sobborghi di Dahie, periferia a sud di Beirut e feudo di Hezbollah, si trova l’ospedale Saint George Hospital, che il partito della milizia ha messo a disposizione come centro nevralgico per la cura dei pazienti infetti dal Covid-19: 1000 tamponi e 80 posti letto, 16 dei quali con respiratori, in un quartiere dove la popolazione è di 800 mila abitanti, secondo le informazioni che ha dato alla stampa il direttore del centro ospedaliero Hasan Oleik.

L’esecutivo libanese ha stabilito l’ospedale universitario Rafik Hariri come centro nevralgico per il trattamento degli infetti, con una capacità di 128 posti letto. Con 541 positivi e 19 decessi (dati risalenti alla settimana passata), gli esperti hanno già annunciato che il settore della sanità pubblica libanese non sarà in grado di far fronte a un aumento del numero degli infetti.

Nel seminterrato di una moschea di Dahie si può apprezzare la complessa rete sociale di Hezbollah: dozzine di volontari muniti di mascherine e guanti impacchettano diversi prodotti alimentari nelle scatole che poi distribuiranno alle famiglie più svantaggiate. Hanno a disposizione un budget di 1,8 milioni di euro “tra fondi propri e donazioni di affiliati”, affermano fonti del partito.

La pandemia di coronavirus arriva in piena crisi economica. Prima che il virus si diffondesse, la Banca Mondiale aveva avvertito che metà dei 4,5 milioni di libanesi sarebbe finita al di sotto della soglia di povertà. Dal 17 ottobre, giorno in cui le proteste antigovernative hanno iniziato a chiedere la caduta in blocco dei partiti tradizionali, oltre 220.000 persone hanno perso il lavoro. Ora questi stessi partiti stanno cercando di sfruttare questa minaccia sanitaria. Questo è il motivo per cui è stata lanciata una campagna strada per strada distribuendo aiuti economici e alimentari. I leader promettono donazioni milionarie agli ospedali seguendo la mappa demografica-confessionale, mentre il governo ha dovuto annunciare il primo default dovuto al proprio debito statale nella sua storia.

Di Mario Savina

“We will meet again”: il quarto discorso nella storia del regno della Regina Elisabetta

EUROPA di

Domenica 5 aprile, la Regina d’Inghilterra ha rotto il suo tradizionale silenzio per parlare alla nazione: è il quarto discorso in 68 anni di regno. Alle 19, la sovrana inglese ha ringraziato il governo e la popolazione per gli sforzi fatti finora per contenere la diffusione del coronavirus ed ha richiamato gli inglesi all’autodisciplina: nessun pericolo solo se tutti rispettano le regole date dal Governo.

Un discorso storico

Ancora prima dei contenuti, il discorso della Regina Elisabetta è di per sé un fatto storico. Nei suoi 68 anni di regno -il più lungo della monarchia inglese- la sovrana ha parlato ai suoi cittadini soltanto quattro volte. Tradizionalmente la Regina parla agli inglesi solo il giorno di Natale: in ossequio alla regola aurea della monarchia, fin dalla Gloriosa Rivoluzione del 1688, la monarchia inglese non interferisce mai nelle vicende politiche del Paese. L’ultima volta che la sovrana si era rivolta ai sudditi risale a 18 anni fa: nel 2002, in occasione della morte della mamma, la Regina Madre, Elizabeth Bowes-Lyon, moglie del Re Giorgio VI, vissuta 102 anni. La volta precedente, Elisabetta intervenne per un discorso anch’esso storico, per un’altra morte, quella di Lady Diana, nel 1997. Prima di allora, la Regina Elisabetta aveva parlato nel 1991, per la prima Guerra del Golfo contro Saddam Hussein.

Il discorso della Regina del 5 aprile ha ricordato quello che suo padre, il Re Giorgio VI, pronunciò nel 1939 alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale contro la Germania. Dopo 70 anni, dalla stessa località, ma stavolta con la presenza di una pandemia globale, la sovrana si rivolge alla Gran Bretagna- ed indirettamente ai governi mondiali- con il record personale di Capo di stato in carica da più tempo tra tutti i paesi del mondo.

Le parole della Regina

Elizabeth Windsor, alle ore 19 di Domenica 5 aprile, si è presentata sullo schermo dei sudditi vestita di verde, come per evocare la speranza. Ha parlato da una stanza del Castello di Windsor, fuori da Londra, dove la sovrana è stata trasferita per precauzione, assieme al marito, il Principe Filippo. Non era un discorso in diretta: è stato registrato giovedì scorso e mandato poi in onda domenica dalla BBC, a reti unificate, nell’ora di punta in cui inglesi sono a casa davanti alla televisione.

Nel suo discorso, durato cinque minuti, la sovrana ha descritto l’epidemia come “un momento di turbamento nella vita del nostro paese: un turbamento che ha causato dolore ad alcuni, difficoltà finanziarie a molti ed enormi cambiamenti alla vita quotidiana di tutti noi”.

Poi è stato il momento del ringraziamento speciale ai medici ed al personale del NHS-National Health System (l’equivalente del Servizio Sanitario Nazionale italiano): gli ospedali pubblici stanno, infatti, compiendo un lavoro notevole, oberati di casi positivi, con pochissimi posti letto per la terapia intensiva (5mila in tutto il paese, per una popolazione di 60 milioni).

In quello che ha definito un “messaggio profondamente personale” – sebbene nessun messaggio pubblico di un sovrano lo possa essere davvero- Sua Maestà ha fatto leva sull’orgoglio britannico, parlando di una nazione fondata sulla “autodisciplina”, i cui cittadini potranno in futuro raccontare di aver sconfitto il virus e superato la crisi con quel valore che ne ha decretato il successo nelle epoche passate: il rispetto delle regole. La Regina ha dichiarato di avere la speranza che negli anni a venire tutti siano orgogliosi di come gli inglesi hanno risposto a questa sfida. “L’orgoglio per ciò che siamo non è parte del nostro passato, ma definisce il nostro il presente e il nostro futuro” ha affermato.

La sovrana ha poi ricordato quando, durante la Seconda guerra mondiale, nel 1940, lei e sua sorella, la Principessa Margaret, che all’epoca avevano rispettivamente 14 e 10 anni, inviarono un messaggio via radio alla nazione rivolgendosi ai bambini che erano stati evacuati dalle proprie abitazioni: “Oggi, ancora una volta, molti sono addolorati dalla separazione dai propri affetti. Ma oggi, come allora, sappiamo nel profondo che questa è la cosa giusta da fare”.

Infine, Sua Maestà ha concluso il suo discorso con l’augurio che possano arrivare in futuro giorni migliori, e con una citazione di una famosa canzone del 1939 di Vera Lynn, diventata un simbolo di speranza per i soldati al fronte durante la Seconda guerra mondiale. “Dobbiamo consolarci che mentre potremmo avere ancora molto da sopportare, torneranno giorni migliori: saremo di nuovo con i nostri amici; saremo di nuovo con le nostre famiglie”- ha concluso la Regina- “We will meet again”.

Indisciplina dilagante e lo stato di salute di Boris Johnson

Dietro al discorso della Regina si cela un problema concreto: l’indisciplina dilagante dinanzi alle misure restrittive imposte dal governo inglese. Nella capitale Londra, la città con il picco di contagi e morti, le persone sembrano far fatica a seguire l’invito del Governo di rimanere a casa-“Stay at home”- tanto che il Ministro della Salute, Matt Hancok- risultato anche lui positivo al Covid-19- ha minacciato di vietare lo sport e le attività all’aperto se le persone continueranno a uscire.

Lo stesso Primo Ministro, è stato contagiato ed è stato in terapia intensiva all’ospedale St Thomas di Londra dal 6 al 9 aprile, dove gli è stato somministrato ossigeno per facilitare la respirazione, senza però ricorrere a ventilatori o a supporti respiratori invasivi. Un portavoce del governo ha dichiarato che Johnson si trova attualmente in un reparto dove “sarà attentamente seguito durante la prima fase di guarigione. È di ottimo umore”. Tutto è nelle mani del team di medici del Premier britannico, guidato dal dottor Richard Leach, la massima autorità medica specializzata in malattie polmonari in Regno Unito. Tra questi vi è il professore italiano Luigi Camporota, uno dei luminari oltremanica di problemi ai polmoni e ventilazione polmonare, proprio quello che serve in questo momento a Boris Johnson per uscire dalla terapia intensiva.

Il ricovero di Boris Johnson ha avuto come conseguenza anche il passaggio di consegne formale tra il Primo Ministro e Dominic Raab, suo vice e Segretario di stato. Raab si è fatto spesso portavoce delle decisioni del governo partecipando a programmi televisivi, campagne elettorali e dibattiti: a livello mediatico è considerato come la figura adatta per poter andare avanti nella gestione dell’emergenza e promuovere le decisioni dell’esecutivo inglese.

Eurogruppo, le divisioni sugli Eurobond e l’accordo sul MES

EUROPA di

Il 26 marzo i membri del Consiglio europeo hanno affrontato, in videoconferenza, la questione dell’emergenza da Covid-19: non riuscendo a trovare alcun accordo in merito alle misure da adottare per far fronte alla pandemia, i leader europei hanno rinviato il tutto di due settimane, incaricando i ministri di elaborare delle proposte. Dal 7 al 9 aprile si è svolto quindi l’Eurogruppo, l’organo che riunisce i ministri dell’economia e delle finanze, che continua ad essere centro di discussioni tra i leader europei, in particolare sulla decisione tra MES ed Eurobond: ciononostante, il 9 aprile sembra essere stato raggiunto un accordo.

Gli Eurobond

Quando si parla di Eurobond – chiamati anche Coronabond vista la causa dell’emergenza – si intende dei titoli di debito pubblico da cedere ai mercati finanziari in cambio di denaro in prestito, tramite i quali gli Stati dell’Eurozona diventano responsabili del debito in modo congiunto. L’idea di emettere Eurobond ha l’obiettivo di rendere i debiti nazionali dei paesi dell’area euro non distinguibili l’uno dall’altro. Gli Stati dell’eurozona si dovrebbero impegnare a condividere la responsabilità di ciascuno di essi.

Nel caso dei Coronabond, si tratterebbe di strumenti di creazione di debito comune, con garanzie a livello europeo, per chiedere credito ai mercati ed usare i soldi per dei fondi comuni da destinare ai paesi in difficoltà. Così facendo, si darebbe una garanzia maggiore di tutta l’Europa, e potrebbero abbassarsi i tassi di interessi che in alcuni paesi sono molto più alti che in altri, bilanciandosi tra di loro. È evidente quindi qual è il problema alla base della discussione tra i leader europei: in paesi come l’Italia, gli Eurobond sarebbero fondamentali per finanziare tutte le spese sostenute dal governo in questa fase di emergenza; in paesi come la Germania, gli Eurobond non porterebbero beneficio, anzi.

Quella che sembrava un’iniziale incomprensione tra i vari paesi dell’UE, è diventata una vera e propria discussione su due fronti, poiché i paesi del Nord hanno una visione opposta ai paesi del Sud: i primi propongono infatti l’utilizzo del MES.

Il Meccanismo europeo di stabilità

Il MES è l’istituzione europea che ha lo scopo di aiutare i paesi in difficoltà, opera come un normale fondo di investimento, che con il suo capitale vende e compra titoli, ma sembra funzionare come una sorta di assicurazione. Gli Stati membri del MES hanno infatti versato ingenti somme di denaro in risorse comuni, da far loro utilizzare in caso di difficoltà economica. Il problema del MES è che generalmente interviene inserendo delle condizioni subordinate alla consegna dei fondi, come ad esempio un piano di riforme, fare tagli alla spesa pubblica, intervenire sulle privatizzazioni e così via. Tuttavia, la situazione attuale di crisi risulta essere senza precedenti, e si richiede dunque una maggior flessibilità, un aiuto senza condizioni, in modalità emergenza. Anche in questo caso però non sono mancati gli scontri tra i leader europei: la proposta è stata inizialmente respinta dai paesi del Nord, più rigorosi sui conti pubblici, per poi essere approvata solo in parte, dopo ore di negoziati.

I due fronti di discussione all’Eurogruppo e l’accordo finale

Il 25 marzo scorso, Giuseppe Conte insieme ad altri otto leader europei (Belgio, Francia, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia e Spagna), ha scritto una lettera a Charles Michel, il Presidente del Consiglio europeo. Facendo presente le enormi difficoltà che stanno attraversando a causa del Covid-19 e delle misure “senza precedenti” adottate per contenere la diffusione del virus, i Paesi sottolineano la necessità di allineare le prassi adottate in tutta Europa e di elaborare linee guida condivise. Infine, il Presidente Conte ha richiesto “uno strumento di debito comune emesso da una Istituzione dell’UE per raccogliere risorse sul mercato sulle stesse basi e a beneficio di tutti gli Stati Membri, garantendo in questo modo il finanziamento stabile e a lungo termine delle politiche utili a contrastare i danni causati da questa pandemia”.

I leader dei paesi europei firmatari hanno proposto lo strumento di debito comune anche in sede di Consiglio europeo, il 26 marzo. I paesi contrari alla sua creazione, principalmente Germania, Olanda, Austria e Finlandia, hanno mostrato massima resistenza in tutti gli incontri svolti fin ora, anche in quello del 7 aprile, nonostante le due settimane di pausa previste per i ministri per lavorare a delle nuove proposte economiche. Dopo circa 16 ore di riunione, conclusa di nuovo con un nulla di fatto, l’incontro è stato rimandato al 9 aprile. Il paese maggiormente contrario all’utilizzo di questo strumento è l’Olanda: il Parlamento ha approvato due risoluzioni che invitano il governo a non accettare gli Eurobond e ad esortare l’utilizzo del MES, l’alternativa proposta dal fronte del Nord Europa. Dello stesso avviso è la Germania: la cancelliera Merkel ha affermato “Non credo che si dovrebbe avere una garanzia comune dei debiti e perciò respingiamo gli Eurobond”, tuttavia, ha riconosciuto la situazione in cui si trova l’Italia ed ha quindi aggiunto “Ci sono così tanti strumenti di solidarietà che si possono trovare buone soluzioni”, oltre agli Eurobond. Ad essere favorevole agli Eurobond è invece l’Alto Rappresentante Borrell, che afferma “L’attività economica in Italia e Spagna è ferma, noi dobbiamo garantire che tutti possano andare sui mercati allo stesso modo per affrontare la crisi”.

La sera del 9 aprile, l’Eurogruppo ha finalmente trovato un accordo per una risposta congiunta alla crisi economica: “un pacchetto di dimensioni senza precedenti per sostenere il sistema sanitario, la cassa integrazione, la liquidità alle imprese e il Fondo per un piano di rinascita” ha twittato il Commissario Gentiloni, concludendo con “l’Europa è solidarietà”. Gli Eurobond non sono parte dell’accordo, che invece ha ad oggetto il MES. Questo fornirà assistenza finanziaria ai Paesi senza condizioni per sostenere il sistema sanitario e le spese mediche, e sarà disponibile per il sostegno economico ma a condizioni. Infine, si prevede la nascita di un Fondo possibilmente finanziato da titoli in comune, del valore di 500 miliardi di euro. “Abbiamo trovato un piano di rilancio dell’economia” afferma soddisfatto il presidente dell’Eurogruppo Centeno.

La criminalità organizzata in America Latina, azioni e reazioni ai tempi del Covid-19.

L’attuale crisi provocata dal coronavirus in ogni angolo del mondo ha effetti sociali, economici e politici che sono riscontrabili anche negli affari delle organizzazioni criminali.

In Italia come negli altri paesi per frenare il contagio da Covid-19 si fermano imprese e industrie, e anche le mafie rallentano in alcuni settori criminali come la prostituzione, la tratta dei migranti o lo spaccio di droga. Tuttavia, come ha ben sottolineato il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, le “Mafie sono presenti dove c’è da gestire denaro e potere. E le élite delle mafie fanno molte operazioni non per arricchirsi, ma per avere consenso, potere…”

Ora, se per un’istante pensiamo di far valere questo monito non solo per le organizzazioni criminali italiane, possiamo pensare che tutta la criminalità organizzata mondiale oggi patisce e reagisce agli effetti del Covid-19. Le parole del procuratore di Catanzaro hanno una grande rilevanza universale e riassumono benissimo le intenzioni delle organizzazioni criminali di tutto il mondo.

La crescente minaccia rappresentata dal coronavirus ha portato in superficie le già presenti disuguaglianze sociali sottostanti e ciò vale anche per le lacune della presenza statale e il ruolo dei gruppi criminali nel colmare tale vuoto.

Basta guardare al Brasile per vedere come i trafficanti di droga del Comando rosso (Comando Vermelho – CV) nella favela Ciudade de Deus di Rio de Janeiro, scalcando il governo centrale, soffocano l’espansione del virus imponendo il coprifuoco ai residenti.

Al contempo, l’esercito nazionale di liberazione in Colombia (Ejército de Liberación Nacional – ELN) ha annunciato il 30 marzo un cessate il fuoco di un mese, che è arrivato in seguito all’appello dell’ex leader ribelle Francisco Galá, il quale ha dichiarato “di cessare il fuoco… e di liberare il paese dalla paura della guerra, almeno per questi tempi di emergenza”, secondo El Tiempo.

Mentre nel vicino Venezuela diversi video testimoniano che gruppi di “colectivos” o gruppi armati filo-governativi impongono ai residenti nel quartiere 23 di Enero di Caracas e nel quartiere di Petare vicino a Caracas di rispettare i protocolli di igiene e di quarantena. Inoltre, secondo i media locali lo stesso regime di Nicolás Maduro ha invitato i civili armati ad affiancare i membri delle forze armate per imporre le restrizioni di quarantena.

In Guatemala, l’emergenza dichiarata dal governo ha spinto i membri della banda del Barrio 18 a concedere la sospensione del pizzo da parte dei venditori locali. Tuttavia, bande come la Unión de Tepito a Città del Messico, hanno mantenuto il racket nonostante la pandemia. In El Salvador, membri della banda della MS13 ed entrambe le fazioni del Barrio 18, i Rivoluzionari e Sureños, minacciano la popolazione locale con violenza a restare in quarantena.

Angélica Durán-Martínez, criminologa dell’Università di Chicago e Benjamin Lessing professore all’Università del Massachusetts, studioso di violenza criminale e governance in America Latina, hanno sostenuto a InSight Crime, che le ragioni delle bande per esercitare questo tipo di governance vanno ben oltre il semplice garantire il loro potere e controllo. Il loro tentativo è indirizzato a ottenere più capitale sociale, per favorire le loro operazioni criminali. Benjamin Lessing sostiene che, quando lo Stato non agisce, spesso gli attori criminali si assumono la responsabilità nel prendersi cura delle loro comunità.

“Riflette il loro interesse a mantenere il supporto sociale”, ha dichiarato Durán-Martínez. “Questi gruppi vedono sul territorio i chiari rischi che la comunità deve affrontare come il mancato accesso ad acqua pulita, sapone o disinfettante e nel momento in cui lo stato non adotta misure concrete per la tutela della salute pubblica, la responsabilità di quest’ultima finisce per essere nelle loro mani.”

Il paradosso del modus operandi delle organizzazioni criminali sta nel non essere sempre contraria o antagonista a come lo stato vuole governare. L’attuale crisi sanitaria, sociale ed economica riflette in realtà un caso in cui sia gli interessi statali e quelli criminali sembrano essere abbastanza convergenti. Proprio per questo è da considerare che l’altro virus che punta a rafforzarsi, sfruttando l’emergenza della pandemia, sono le varie organizzazioni. D’altronde quando lo stato è assente o come nel caso brasiliano sopraffatto dalla superficialità, la criminalità organizzata trova terreno fertile per proliferare e rafforzarsi.

Sudafrica: Ramaphosa dispone screening di massa per il Covid-19

AFRICA di

Il Continente africano ha superato la soglia dei 10.000 casi di coronavirus.

L’Algeria, con 205 decessi, resta il primo Paese per numero di vittime. Il Sudafrica con 1845 casi, su un totale di oltre 45.000 test effettuati, è il primo Paese africano per numero di contagi.

Qui il Presidente Cyril Ramaphosa ha disposto un parziale lockdown delle attività produttive fino al 16 aprile, consentendo l’uscita dalle abitazioni solo per questioni di prima necessità. Per 21 giorni l’economia più industrializzata dell’Africa si fermerà per far fronte all’emergenza sanitaria.

 

Questo è un territorio inesplorato per tutti noi“, ha detto Ramaphosa lunedì in un discorso televisivo. “Non abbiamo mai sperimentato una situazione come questa prima d’ora, verranno commessi numerosi errori, ma chiediamo alla nostra gente di capire che tutto questo viene fatto per il bene di tutti“.

 

Per garantire il rispetto delle misure adottate, il Presidente sudafricano ha disposto l’impiego dell’esercito e delle forze di polizia nelle strade. Una nuova impennata nella curva dei contagi nella settimana tra il 23 e il 30 marzo, ha spinto il Presidente ad annunciare l’avvio di screening di massa della popolazione, nel tentativo di frenare la diffusione del Covid-19.

 

Abbiamo finora avuto un approccio molto difensivo”, ha detto il Ministro della Sanità Zweli Mkhize, “ora aumenteremo la nostra capacità offensiva, stanziando oltre 10.000 operatori sul campo per portare avanti le operazioni di screening”.  Le persone con sintomi saranno indirizzate verso cliniche locali o cliniche mobili per sottoporsi ai test, mentre quelle con sintomi gravi verranno trasferite nei centri ospedalieri. Per i positivi asintomatici o con sintomi moderati è stato disposto l’isolamento domiciliare o in strutture messe a disposizione dal governo sudafricano.

 

 

I controlli verranno effettuati casa per casa,  concentrati soprattutto nelle aree rurali, dove è maggiore il rischio sanitario. Infatti in questi luoghi la profilassi igienica per limitare il contagio è resa più complessa della scarsità di fonti di acqua potabile, tragico esito di una siccità che perdura da circa due anni.

Intanto, la Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa (UNECA), riunita in videoconferenza martedì 31 marzo, ha chiesto al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale e all’Unione Europea un sostegno per la riduzione del debito bilaterale, multilaterale e commerciale. I ministri delle Finanze degli Stati africani hanno affermato che il continente sta per affrontare un’imminente recessione economica, con i prezzi del petrolio e delle materie prime che crollano, e svalutazione delle monete nazionali.

La crisi economica e finanziaria che ne conseguirà rischia di mettere ulteriormente a rischio un’efficace risposta dei Paesi africani alla pandemia da Covid-19.

Francia, un uomo ha accoltellato i passanti a Romans sur Isère

EUROPA di

In pieno confinamento per combattere il coronavirus e in una Francia troppe volte colpita dal terrore, sabato 4 aprile, a Romans-sur-Isère, un comune a sud di Lione, un uomo ha ucciso due passanti e ne ha feriti altri cinque al grido di “Allah Akbar”. Quattro feriti sono in gravi condizioni. Secondo quanto si è appreso, l’attentatore è Abdallah Ahmed-Osman, un uomo di 33 anni con status di rifugiato in Francia dal 2017.

Il tragico evento

La Francia è attualmente bloccata a causa della pandemia coronavirus e le persone sono autorizzate ad uscire solo per acquistare i generi di prima necessità o per l’esercizio fisico. D’altro canto, il Paese è in allerta dal 2015, quando Parigi è stata colpita da una serie di attacchi attribuiti allo Stato islamico.

Sabato mattina, a Romans-sur-Isère, un uomo è entrato con un coltello in una tabaccheria, colpendo il titolare e successivamente sua moglie, accorsa in sua difesa. L’uomo è poi entrato in una macelleria e, impadronendosi di un altro coltello, l’ha usato prima contro un cliente e poi ha attaccato altre persone in strada, tra cui alcune in fila per acquistare il pane in una boulangerie.

Il proprietario della macelleria, Ludovic Breyton, ha testimoniato: “Ha preso un coltello, è saltato sul bancone e ha pugnalato un cliente, poi è fuggito. Mia moglie ha cercato di aiutare la vittima, ma invano”.

All’arrivo della polizia l’uomo si è inginocchiato e si è fatto arrestare senza opporre resistenza: stava pregando e l’unica cosa chiesta agli agenti che lo hanno fermato è stata “Uccidetemi”.

“Un atto efferato che semina lutto in un momento in cui la Francia è già messa a dura prova”, ha twittato il Presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, promettendo piena luce sull’atto odioso.

Le indagini in corso

Secondo gli inquirenti l’uomo non risultava schedato o pregiudicato. Dopo poche ore dal tragico evento, è giunto sul posto il Ministro dell’interno, Christophe Castaner, il quale di primo impatto ha dichiarato: “quest’uomo ha avviato un percorso terrorista”. Successivamente il Ministro si è corretto spiegando che spetterà alla Procura antiterrorismo pronunciarsi sulla natura e sull’eventuale carattere terroristico.

Nessun dubbio sulla matrice dell’aggressione per Marine Le Pen, la quale ha parlato di “attentato islamista” prendendosela con il governo di Macron, che, a sua detta, deve “smetterla di svuotare le carceri e i centri di accoglienza”.

Oltre alla Polizia giudiziaria di Lione, la sous-direction anti-terroriste (SDAT) e la Direction générale de la sécurité intérieure (DGSI) sono state investite dell’indagine.

Il Parquet National Antiterroriste (PNAT), in un comunicato stampa, ha annunciato di aprire un’indagine per “omicidi connessi a un’organizzazione terroristica”. I primi elementi dell’indagine “hanno evidenziato un percorso omicida finalizzato a disturbare gravemente l’ordine pubblico attraverso l’intimidazione o il terrore”, ha dichiarato PNAT, aggiungendo che durante una perquisizione nella sua casa sono stati trovati “documenti scritti a mano con connotazioni religiose in cui l’autore si lamenta in particolare di vivere in un paese di miscredenti”. Le analisi dei suoi dispositivi telefonici ed informatici sono ancora in corso.

In totale, tre uomini di nazionalità sudanese sono attualmente in custodia di polizia: oltre all’ autore dell’attacco ed un secondo uomo presentato come “uno dei suoi conoscenti”, vi è “un giovane sudanese che viveva nella stessa casa”.

Polemiche e solidarietà

Il 6 aprile, sul canale televisivo TF1, Nicolas Canteloup, umorista e imitatore francese, ha provocato l’indignazione della sindaca di Romans-sur-Isère evocando l’attacco di due giorni prima: “È un dramma ma ciò ha permesso di far capire alla gente di Isère che non si dovrebbe uscire per strada e rimanere a casa …” ha dichiarato l’umorista. Marie-Hélène Thoraval ha, pertanto, reagito affermando: “Sono indignata per la città, per la sua popolazione, specialmente per le famiglie che sono in lutto, per le famiglie che hanno avuto vittime” aggiungendo che “Non possiamo ridere di tutto”.

Anche sui social network l’affermazione di Nicolas Canteloup è stata ampiamente criticata.

Oltre alle polemiche vi sono molteplici manifestazioni di solidarietà. Un’ iniziativa nella regione di Parigi ne è la prova: ogni sera, nel dipartimento di Hauts-de-Seine, viene proiettato un messaggio di supporto per gli operatori sanitari sulla facciata di un edificio. Lunedì sera, sono stati proiettati i volti di Julien Vinson e di Thierry Nivon, vittime dell’attacco a Romans-sur-Isère. L’autore è un residente di Clichy che vuole rimanere anonimo: ogni sera alle 20:00 prende parte, a modo suo, all’omaggio ed alla solidarietà della popolazione francese, proiettando dalla sua finestra con un videoproiettore da soggiorno. “Questi crimini riguardano tutti noi” queste le sue parole.

Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria condannate dalla Corte di giustizia dell’UE

EUROPA di

La Corte di giustizia dell’Unione Europea ha condannato la Repubblica Ceca, la Polonia e l’Ungheria affermando che i tre paesi Visegrad non hanno rispettato i loro obblighi nei confronti dell’UE poiché non si sono adeguate al meccanismo di ricollocamento dei migranti richiedenti asilo creato nel 2015. La Corte di giustizia ha risposto così al ricorso presentato dalla Commissione europea nei confronti dei tre Stati membri.

Il ricorso della Commissione

La Commissione dell’Unione Europea si è rivolta alla Corte di Lussemburgo presentando il ricorso contro la Repubblica Ceca, la Polonia e l’Ungheria, con l’accusa di inadempimento di alcune decisioni del Consiglio. In particolare, i paesi si sono rifiutati di ospitare la loro quota di rifugiati assegnata loro per alleggerire l’onere dei paesi di Grecia e Italia, a seguito del picco di arrivi dal 2015. Il Consiglio, il 22 settembre 2015, ha adottato una decisione per ricollocare su base obbligatoria 120.000 richiedenti di protezione internazionale. Inoltre, la Corte considera la Polonia e la Repubblica ceca anche colpevoli di non aver adempiuto ai propri obblighi ai sensi di una precedente decisione del Consiglio, quella del 14 settembre dello stesso anno, nei confronti di 40.000 migranti richiedenti asilo. Dopo l’adozione di queste decisioni, la Polonia aveva indicato di poter ricollocare rapidamente nel suo territorio 100 persone, ma non diede mai seguito a questa decisione. L’Ungheria invece, non aveva indicato alcun numero di persone da accogliere. Quanto alla Repubblica Ceca, aveva dichiarato di poter ricollocare nel proprio paese 50 persone: di queste, solo 12 sono state effettivamente ricollocate dalla Grecia.

La decisione della Corte

Giovedì 2 aprile, la Corte di giustizia dell’UE ha condannato la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca per essersi rifiutate di conformarsi al meccanismo creato nel 2015, di fatto venendo meno ad un obbligo europeo. I tre paesi non si sono conformati a quanto previsto dal meccanismo e concordato dal Consiglio. In particolare, per quanto riguarda la Repubblica Ceca, la Corte ha dichiarato che ha mancato di indicare, almeno ogni tre mesi, il numero di richiedenti che era in grado di ricollocare rapidamente nel suo territorio, venendo meno agli obblighi previsti; ciò ha impedito all’Italia e alla Grecia di individuare i singoli richiedenti che potevano essere ricollocati nella Repubblica ceca, condannandola come richiesto dalla Commissione.
Per questi motivi, la Corte ha accolto i ricorsi presentati dalla Commissione europea ed ha stabilito che i tre Stati “non possono invocare né le loro responsabilità in materia di mantenimento dell’ordine pubblico e di salvaguardia della sicurezza interna, né il presunto malfunzionamento del meccanismo di ricollocamento per sottrarsi all’applicazione del meccanismo stesso”. È necessario quindi che i paesi si conformino alla sentenza.
Tuttavia, un portavoce della Commissione europea, rispondendo alle domande dell’ANSA, ha dichiarato che “Con la scadenza di entrambe le decisioni sui ricollocamenti, non c’è modo per rimediare all’infrazione”, ma ha aggiunto “la decisione è però importante perché fa chiarezza sulla responsabilità degli Stati membri, e guiderà il lavoro dell’Esecutivo Ue per il futuro”. “La priorità della Commissione europea ora è presentare il nuovo Patto su asilo e migrazione. La sentenza della Corte Ue chiarisce che il principio di solidarietà e di giusta condivisione della responsabilità tra gli Stati membri, secondo i Trattati, governa la politica di asilo dell’Ue” ha concluso.

La reazione della Repubblica Ceca

Non si è fatta attendere la risposta della Repubblica Ceca, che considera “irrilevante” la sentenza della Corte di giustizia, proprio alla luce del fatto che ora non c’è modo di rimediare all’infrazione. Nonostante la sentenza della Corte, per il primo ministro ceco Andrej Babiš è essenziale il fatto che la Repubblica ceca non potrà essere obbligata ad accettare i richiedenti asilo in questione poiché nel frattempo il sistema delle quote è scaduto. Secondo lui, è quindi poco importante che i tre paesi di Visegrad non abbiano vinto il caso giudiziario. Il primo ministro ha dichiarato “Abbiamo perso la disputa, ma questo non è importante. L’importante è che non dobbiamo pagare qualcosa. Di solito, la corte chiede un risarcimento per il procedimento” aggiungendo “il punto è che non accetteremo alcun migrante e che le quote sono scadute nel frattempo”. È intervenuto anche il ministro degli Interni, Jan Hamáček, che ha fatto leva sul cambiamento della situazione: “La decisione della corte risponde agli eventi accaduti qualche anno fa. Sto prendendo in considerazione il verdetto, ma senza ulteriori conseguenze”. Infine, Marian Jurečka, leader del Partito popolare, ha sottolineato che la Corte UE non ha tenuto conto di altre misure con cui la Repubblica ceca ha contribuito a risolvere la crisi migratoria. Ad esempio, il Paese è stato sempre attivo a sostegno dei campi profughi. “La Repubblica Ceca ha sicuramente provato a mostrare solidarietà e ad aiutare a risolvere la situazione, senza mettere in pericolo la propria sicurezza”, ha aggiunto Jurečka.

L’Unione Europea tra Covid-19 e rifugiati: un nuovo pacchetto di aiuti nel fondo in risposta alla crisi siriana

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Il 31 marzo, l’UE ha approvato 239 milioni di euro di aiuti nel contesto della pandemia di coronavirus, ma al fine di rafforzare la resilienza nei paesi limitrofi che ospitano i rifugiati siriani. Nell’ambito del fondo fiduciario alla crisi siriana e alla luce degli ultimi sviluppi, l’Unione Europea aiuterà i paesi ospitanti a rispondere meglio alle sfide sanitarie e garantirà ulteriori risorse alle persone più vulnerabili nella regione.

Il contesto

Istituito nel 2014, il fondo fiduciario regionale dell’Unione europea in risposta alla crisi siriana rappresenta un aspetto importante della politica di sostegno dell’UE per aiutare i rifugiati siriani e i paesi vicino alla Siria. Tale fondo ha come obiettivo rafforzare la politica integrata dell’UE in materia di aiuti in situazioni di crisi, agendo sulla base della resilienza a lungo termine e sulla necessità di maggior autosufficienza dei rifugiati siriani. Altro obiettivo è quello di allentare le pressioni che hanno le comunità ospitanti e sulle loro amministrazioni in paesi come Iraq, Giordania, Libano e Turchia. Si occupano dell’istruzione di base e dei servizi di protezione dei minori rifugiati, di formazione e di istruzione superiore, ma anche del miglioramento dell’accesso all’assistenza sanitaria e alle infrastrutture idriche.

Il pacchetto di assistenza

Il pacchetto di assistenza per gli aiuti è stato adottato dal comitato esecutivo del fondo fiduciario, composto dai rappresentanti della Commissione europea, degli Stati membri dell’UE, di Regno Unito e Turchia. Molto importanti sono anche gli osservatori: i deputati del Parlamento europeo ma soprattutto, i rappresentanti dell’Iraq, della Giordania, del Libano, della Banca mondiale e del fondo fiduciario per la ripresa siriana.

È stato stabilito un pacchetto di aiuti composto da diverse azioni, per un totale di 239 milioni di euro. 100 milioni di euro sono destinati a migliorare la resilienza delle famiglie vulnerabili locali e dei rifugiati siriani, oltre che a contribuire alla creazione di reti di sicurezza sociale sostenibili in Libano. 57,5 milioni di euro serviranno a rafforzare l’istruzione pubblica in Libano, affinché il sistema possa assicurare un’istruzione inclusiva e di qualità ai minori vulnerabili del luogo e ai minori siriani rifugiati nel paese. Con 27,5 milioni di euro si contribuirà ad offrire un’istruzione di qualità, equa e inclusiva ai rifugiati siriani nei campi in Giordania. 22 milioni di euro contribuiranno a rafforzare il sistema sanitario in Giordania, compresa la prevenzione e la gestione delle malattie e con l’assistenza sanitaria di base. 11 milioni di euro sono invece a favore dell’emancipazione femminile e di un miglior accesso delle donne, le locali e le rifugiate, alle opportunità di sostentamento in Giordania. 10,5 milioni di euro sono a sostegno di sistemi, politiche e servizi sostenibili e di qualità per la protezione dei minori in Libano, a beneficio di ragazzi, donne e ragazze. Infine, sono previsti 10 milioni di euro al fine di migliorare le condizioni di vita e di alloggio dei rimpatriati vulnerabili, così da coadiuvare gli sforzi di pace in Iraq, nell’area del Ninewa occidentale.

Questo nuovo pacchetto di aiuti fa salire ad oltre 2 miliardi di euro l’importo del fondo, provenienti dal bilancio dell’UE, dai contributi di 21 Stati membri, del Regno Unito e della Turchia: si tratta del doppio dell’obiettivo iniziale previsto dal fondo, nato per portare avanti azioni concrete nella regione, di cui beneficiano tanto i rifugiati quanto i paesi che li ospitano. In totale, grazie a questo nuovo pacchetto di misure, il fondo ha mobilitato oltre 900 milioni di euro per il Libano, oltre 500 milioni di euro sia per la Giordania che per la Turchia e oltre 160 milioni di euro per l’Iraq.

Le dichiarazioni

L’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, nonché Vicepresidente della Commissione europea, Josep Borrel, ha affermato che “l’Unione europea resta al fianco dei rifugiati siriani e dei paesi limitrofi che li ospitano” anche dopo dieci anni dall’inizio della crisi siriana. “Non solo per far fronte alle sfide più pressanti, compresa la pandemia di coronavirus – continua Borrel – ma anche per costruire il loro futuro”. L’Unione europea continuerà ad appoggiare gli sforzi delle Nazioni Unite, con l’obiettivo di trovare una soluzione politica globale al conflitto siriano, mobilitare il sostegno finanziario di cui necessitano i paesi destinatari del pacchetto e fornire una piattaforma unica per il dialogo con la società civile. “In tale contesto l’UE organizzerà quest’anno la quarta conferenza di Bruxelles ‘Sostenere il futuro della Siria e della regione’” ha concluso l’Alto rappresentante.

Importante è stato anche l’intervento di Olivér Várhelyi, Commissario responsabile per la Politica di vicinato e l’allargamento, che ha evidenziato l’importanza del pacchetto alla luce dell’attuale pandemia. “Il pacchetto di quasi 240 milioni di euro si concentra particolarmente su settori essenziali per le popolazioni vulnerabili quali l’assistenza sociale, la sanità, l’istruzione e la protezione dei minori. Contribuirà a rendere più resilienti coloro che vivono già situazioni difficili perché possano affrontare meglio le molteplici sfide connesse al coronavirus”, ha affermato. L’assistenza dell’Unione europea mostra forte solidarietà alle popolazioni più vulnerabili che si trovano in circostanze di difficoltà già abitualmente, e che vengono messi ulteriormente alla prova dalla pandemia di coronavirus.

La Commissione europea lancia il fondo SURE: 100 miliardi di euro contro la disoccupazione

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La Commissione europea ha lanciato il fondo SURE- Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency- stanziando 100 miliardi di euro per mitigare i rischi di disoccupazione dovuti all’emergenza del Covid-19. Il fondo è progettato per aiutare gli Stati membri a proteggere i lavori ed i lavoratori e servirà a finanziare le casse integrazioni nazionali o schemi simili di protezione.

 Il fondo “SURE”

Il Covid-19 sta mettendo alla prova l’Unione europea. La profondità e l’ampiezza dell’attuale crisi richiede una risposta senza precedenti.

Nelle scorse settimane la Commissione ha agito per fornire agli Stati membri flessibilità, al fine di sostenere finanziariamente i sistemi sanitari, le imprese ed i lavoratori, mobilitando le sue risorse per proteggere i cittadini europei. Salvare vite umane e sostenere i mezzi di sussistenza in questi tempi di crisi acuta risulta essere fondamentale.

La risposta al Covid-19 è stata incrementata attraverso l’istituzione di uno strumento di solidarietà da 100 miliardi di euro, finalizzato ad aiutare i lavoratori e le imprese. Si tratta del fondo SURE – Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency- il quale fornirà assistenza finanziaria, sotto forma di prestiti concessi, a condizioni favorevoli, dall’UE agli Stati membri, fino a un totale di 100 miliardi di euro. I prestiti saranno sostenuti da un sistema di garanzie volontarie degli Stati membri impegnati nell’UE. Tutti gli Stati membri potranno farne uso, ma sarà di particolare importanza per i più colpiti dalla pandemia.

 Questi prestiti aiuteranno gli Stati membri ad affrontare gli improvvisi aumenti della spesa pubblica, per preservare l’occupazione. Nello specifico, questi prestiti aiuteranno a coprire i costi direttamente collegati alla creazione o all’estensione di programmi nazionali di lavoro a tempo ridotto ed altre misure analoghe messe in atto per i lavoratori autonomi in risposta all’attuale pandemia di coronavirus.

I regimi di lavoro a breve termine sono programmi che, in determinate circostanze, consentono alle imprese in difficoltà economiche di ridurre temporaneamente le ore di lavoro dei propri dipendenti, i quali ricevono un sostegno al reddito pubblico per le ore non lavorate. Schemi simili si applicano per la sostituzione del reddito per i lavoratori autonomi.

Molte aziende in difficoltà sono costrette, infatti, a sospendere temporaneamente o ridurre sostanzialmente le loro attività e l’orario di lavoro dei loro dipendenti. Evitando inutili licenziamenti, i programmi di lavoro a breve termine possono far sì che uno shock temporaneo non abbia conseguenze negative più gravi e di lunga durata sull’economia e sul mercato del lavoro negli Stati membri. Ciò aiuta a sostenere i redditi delle famiglie, a preservare la capacità produttiva, il capitale umano delle imprese e l’economia nel suo insieme.

 L’iter da seguire

A seguito di una richiesta di assistenza finanziaria da parte di uno Stato membro, la Commissione consulterà lo Stato interessato per verificare l’entità dell’aumento della spesa pubblica direttamente correlata alla creazione o all’estensione di regimi di lavoro a breve termine e misure simili. Questa consultazione aiuterà la Commissione a valutare correttamente le condizioni del prestito, compresi l’importo, la durata media massima, i prezzi e le modalità tecniche di attuazione. Sulla base della consultazione, la Commissione presenterà una proposta di decisione al Consiglio per fornire assistenza finanziaria. Una volta approvato, l’assistenza finanziaria assumerà la forma di un prestito dell’Unione europea allo Stato membro che richiede il sostegno.

Il fondo SURE è di natura temporanea: la sua durata e portata sono limitate ad affrontare le conseguenze della pandemia di coronavirus, non è preclusa in alcun modo l’istituzione di un futuro regime permanente.

 Le dichiarazioni di Ursula von der Leyen

Il prossimo bilancio UE 2021-2027 “dovrebbe essere il nostro piano Marshall perchè la Ue possa avere un ruolo cruciale per la ripresa economica” ha dichiarato la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. In questa crisi, ha aggiunto, “faranno la differenza solo le risposte più forti”.

La Presidente dell’esecutivo europeo ha, inoltre, indirizzato una lettera agli italiani, pubblicata dal quotidiano Repubblica: “L’Italia è stata colpita dal coronavirus più di ogni altro Paese europeo. Siamo testimoni dell’inimmaginabile. Migliaia di persone sottratte all’amore dei loro cari. Medici in lacrime nelle corsie degli ospedali, col volto affondato nelle mani. Un Paese intero – e quasi un intero continente – chiuso per quarantena. Ma il Paese colpito più duramente, l’Italia, è diventato anche la più grande fonte di ispirazione per noi tutti. Migliaia di italiani – personale medico e volontari – hanno risposto alla chiamata del governo e sono accorsi ad aiutare le regioni più colpite”- ha dichiarato- “Oggi l’Europa si sta mobilitando al fianco dell’Italia. Purtroppo non è stato sempre così. Bisogna riconoscere che nei primi giorni della crisi, di fronte al bisogno di una risposta comune europea, in troppi hanno pensato solo ai problemi di casa propria”.

“Preferiremmo tutti vivere tempi più facili. Ma oggi quello che possiamo decidere è come reagire. Ho in mente un’Europa fondata sulla solidarietà – la nostra più grande speranza e il nostro investimento in un futuro comune” ha concluso la von der Leyen.

Israele: l’accordo per il governo d’emergenza e il possibile vaccino

Questa mattina il ministro della salute israeliano Yaakov Litzman ha annunciato tramite un comunicato ministeriale che nell’ultima giornata si è registrato il maggiore aumento di casi di contagio nel paese; nelle ultime 24 ore infatti il numero di contagiati è salito di 760 casi, per un totale di 6.200 pazienti e 30 morti. 

Come evidenziano i dati Gerusalemme è la città più colpita, ma ciò che suscita interesse è il fatto che il secondo focolaio più grande del paese stia a Bnei Brak, una città di 185mila cittadini abitata prevalentemente dalla comunità haredi (ortodossa); solo nell’ultima giornata si è registrato un amumento di 159 pazienti affetti dal virus, per un totale di 730 casi. Le varie testate nazionali hanno riportato il fatto con notevole interesse poiché oltre alla cittadina in questione si è rilevato che il virus ha maggiore contagio in altre zone a prevalenza ortodossa, tant’è che l’esecutivo stesso sta valutando se decretare una quarantena differenziata per questi bacini, per via della reticenza delle comunità ortodosse a seguire le disposizioni sanitarie.
In un’ottica più ampia Israele è il secondo paese del Medio Oriente per contagi dopo l’Iran, dove il virus ha impattato fortemente e sta portando la Repubblica Islamica a dichiarare un’emergenza sanitaria disastrosa; tuttavia Gerusalemme sta dando notevoli risposte alla crisi pandemica sul piano politico e tecnologico, le quali se concretizzate potrebbero rinsaldare il ruolo di leadership nel quadrante medio-orientale.
Difatti in questa settimana i due partiti che da ormai più di un anno si contendono la guida del paese, ovvero il Likud di Netanyahu e il Blu e Bianco di Gantz, dovrebbero concludere un accordo per spartirsi l’esecutivo e formare un governo di coalizione per fronteggiare l’emergenza sanitaria. In virtù dell’accordo i rispettivi leader divideranno nell’arco della legislatura la carica di premier e, a meno di imprevisti, Netanyahu, che guiderà il governo nella prima fase, finirà la sua carriera politica nel 2021, allo scadere dei 18 mesi previsti; dall’altra parte Benny Gantz in attesa di succedere al capo di Likud è stato già eletto presidente della Knesset il 26 marzo, con l’appoggio compatto dei parlamentari di Likud e successivamente, alla ratifica dell’accordo per il nuovo esecutivo, dovrebbe essere investito della carica di ministro della Difesa.
Sembrerebbe quest’evento una vera svolta per Israele in quanto tre consultazioni elettorali, la prima il 9 aprile dell’anno passato, non sono riuscite a dare al paese una leadership, tenendo in sospeso alcuni temi; ciononostante il nuovo governo di unità nazionale, secondo le indiscrezioni riportate dai media israeliani, dovrebbe essere costituito al solo scopo di far fronte all’emergenza e quindi difficilmente lavorerà sulle annose questioni che da anni affliggono Israele, come i rapporti con la Palestina o la questione della Cisgiordania. Sul fronte interno l’azione comune dei due leader ha creato non pochi scontenti nelle rispettive file, soprattutto sul versante Blu e Bianco. Il neo partito, fondato un anno fa a seguito di una coalizione elettorale fra i partiti Resilienza per Israele del generale Gantz e Yesh Atid del giornalista Yair Lapid, sta subendo una sorta di fuoriuscita da parte dell’ala più progressista, facente capo a quest’ultimo.
“Abbiamo formato Blu e Bianco per offrire un’alternativa al popolo israeliano, un partito centrista decente, onesto e basato su dei valori. I risultati delle elezioni hanno dimostrato che il paese aveva bisogno di un’alternativa, che è necessaria quanto l’aria, ma Benny Gantz oggi ha deciso di strisciare nel nuovo governo di Netanyahu, una decisione deludente. Questo non è un governo di unità, è un nuovo governo di Netanyahu. Gantz si è arreso e si è unito con il blocco estremista-ortodosso” ha detto Lapid lo stesso giorno dell’investitura di Gantz a capo della Knesset, aggiungendo che il suo blocco, quello ex-Yesh Atid, ha presentato la richiesta per fuoriuscire dalla coalizione e tornare a fare opposizione assieme al gruppo Telem e altri di sinistra.
Più in generale questo è il prezzo che ha dovuto pagare Gantz per unirsi nel governo con Likud; a sua difesa l’ex generale ha capito che tornare per la quarta volta a elezioni senza che vi sia stato un reale cambiamento avrebbe potuto rivelarsi il punto di non ritorno politicamente parlando, visto che il Likud negli ultimi sondaggi veniva dato in crescita, e che le ultime tre tornate elettorali sono costate allo stato circa due miliardi di dollari. D’altronde questa decisione ha spaccato in due il partito che in un anno era riuscito ad essere una seria alternativa al premier più intaccabile della storia di Israele, complice l’ampio spazio politico che è riuscito a ottenere nei momenti di opposizione: come per il Movimento 5 Stelle in Italia, Blu e Bianco non ha una definita posizione sulla tradizionale linea di lettura sinistra-destra, occupa un posto centrale e per certi versi è a metà tra il conservatorismo, una caratteristica diffusa nella politica israeliana, e il secolarismo-progressista in chiave anti-ortodossa (nelle posizioni di vertice), si è spesso detto a favore di un’apertura al dialogo con i partiti di sinistra mantenendo però una certa diffidenza verso le liste a maggioranza araba, ma soprattutto ha sempre avuto una continua avversione contro Benjamin Netanyahu, più volte definito dallo stesso Gantz un despota disonesto, paragonandolo ad Erdogan.
Nel frattempo, a margine di queste ultime vicende politiche, Israele si sta rendendo protagonista nel mondo per la sua ricerca contro il COVID-19. Secondo quanto riferito dal dott. Chen Katz, capo del dipartimento di biotecnologia del Migal Galilee Research Institute, l’istituto potrebbe presto trovare il vaccino contro il virus, in quanto già da quattro anni il Migal si sta concentrando sulla ricerca per un vaccino contro la famiglia dei coronavirus come la SARS e il MERS. Il vaccino dovrebbe consistere in una proteina e presto potrebbe arrivare, tuttavia anche se ultimato bisognerà aspettare i risultati di alcuni test e le pratiche d’ufficio prima di metterlo a disposizione; per questo il Migal sta cercando un partner disposto a snellire l’iter burocratico.
Andrea Elifani
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