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REGIONI - page 48

Francia: lo stato di emergenza sanitaria e le nuove misure restrittive

EUROPA di

La Francia ha decretato ufficialmente lo stato di emergenza sanitaria per due mesi, eliminando così la prospettiva di uscire alla fine di marzo dal confinamento imposto dal coronavirus. La pandemia continua a diffondersi nell’ Hexagone ed a sottoporre il sistema sanitario del Paese ad una dura prova.

La Legge d’emergenza e le misure annunciate da Philippe

L’Assemblea nazionale francese ha adottato la Legge “d’emergenza per fronteggiare l’epidemia del Covid-19” domenica 22 marzo, dopo quattro giorni di intenso lavoro da parte del Comitato Misto Congiunto (CMP), composto da sette deputati e sette senatori.

Pubblicato martedì 24 marzo nella Gazzetta ufficiale, il testo della legge prevede il nuovo regime di “stato di emergenza sanitaria”, sul modello dello stato di emergenza previsto da una Legge del 1955 ed attivato dopo gli attacchi terroristici del 2015. Viene fornito, così, un quadro giuridico per le disposizioni di emergenza che hanno iniziato ad essere attuate dal 16 marzo.

Oltre alle disposizioni relative allo stato di emergenza sanitaria ed al sostegno economico, è stato previsto che, se il secondo turno delle elezioni comunali non potesse svolgersi prima della fine di giugno, nei comuni i cui sindaci non sono stati forniti dal primo turno, gli elettori saranno convocati per entrambi i turni; il primo turno sarebbe quindi cancellato solo per questi comuni.

Il confinamento durerà “qualche settimana in più” stando alle parole del Primo Ministro, Edouard Philippe. “Molti dei nostri concittadini vorrebbero tornare al periodo precedente, alla normalità, ma non avverrà domani”, ha avvertito Philippe, annunciando un inasprimento delle misure di contenimento. In Francia non sarà più possibile praticare sport lontano da casa e per tutto il tempo che si desidera: sarà possibile uscire a fare una passeggiata con i bambini o fare sport in solitaria nel raggio di 1 km da casa, per massimo un’ora ed una volta al giorno. Per coloro che non rispettano queste istruzioni sono state inasprite le sanzioni: l’ammenda forfettaria di 135 euro aumenta a 1.500 euro in caso di recidiva “entro quindici giorni” e “quattro violazioni entro trenta giorni” possono valere fino a 3.700 euro in multa e sei mesi di carcere. Sono stati, inoltre, vietati i mercati all’aperto “Ma i prefetti saranno autorizzati, su consiglio dei sindaci, a derogare a questo divieto” nei casi in cui il mercato è l’unico ad avere accesso a prodotti freschi. A livello locale, alcuni sindaci hanno anche adottato misure più drastiche: ad esempio, nel dipartimento di Drôme, a Valence, è stato imposto il coprifuoco dalle 21:00 alle 6:00, fino al 31 marzo. Più di 30 città sono sotto coprifuoco. Il Presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, tuttavia, si oppone al contenimento totale, come alcuni vorrebbero.

Il personale sanitario e l’opposizione al contenimento totale di Macron

In prima linea nella guerra contro l’epidemia vi è il personale sanitario, che, tuttavia, non è estraneo al contagio: due nuovi medici, provenienti da Haut-Rhin e Haute-Saône, sono morti il 22 marzo a causa del coronavirus, portando a cinque il bilancio dei medici morti a causa del virus. Molte iniziative sono fiorite per aiutare i medici a far fronte all’emergenza, come le donazioni di mascherine da parte di privati ed aziende.

Tuttavia, ciò non è sufficiente agli occhi del sindacato Médecin généraliste (MG) France: la distribuzione di mascherine da parte delle farmacie è limitata a 18 unità a settimana per medici ed infermieri. Per tutti coloro che si ammalano, il coronavirus sarà riconosciuto come una malattia professionale: “non ci sarà alcun dibattito al riguardo”, ha affermato il Ministro della Salute.

Si segnalano continuamente nuovi casi di contagio. Ad esempio, vi sono “alcune centinaia” di persone impegnate nel sistema sanitario nell’Ile-de-France che sono positive al Covid-19, come dichiarato da Philippe Juvin, capo del dipartimento di emergenza dell’ospedale Georges-Pompidou di Parigi.

Il contenimento totale è richiesto proprio dalla professione medica, che incontra la già citata opposizione del Presidente della Repubblica, il quale ritiene necessaria, piuttosto, un’osservanza più rigorosa delle attuali misure. A tal proposito, il Consiglio di Stato ha rifiutato di disporre urgentemente il “contenimento totale”, come richiesto da alcuni medici, imponendo al governo di riesaminare entro 48 ore le esenzioni dallo sfollamento, in particolare per motivi di salute o per l’attività fisica.

Tra le varie misure adottate, Emmanuel Macron ha riunito i rappresentanti delle religioni mediante audioconferenza ed ha già annunciato che le festività religiose di aprile (Pasqua ebraica e cristiana, inizio del Ramadan) dovranno svolgersi “senza raduni”.

Il Presidente della Repubblica francese, inoltre, dovrebbe istituire un nuovo comitato di analisi, ricerca e competenza, che riunisce 12 ricercatori e medici, per consigliare al meglio il governo in materia di trattamenti e test. Sul lato del trattamento, una sperimentazione clinica europea è stata avviata il 22 marzo in almeno sette paesi, con riguardo a quattro trattamenti sperimentali. Per quanto riguarda la clorochina, uno di questi trattamenti testati – che si presenta come controverso – questo può essere somministrato a pazienti affetti da “forme gravi” di coronavirus, ma non dovrebbe essere usato per forme meno gravi, come dichiarato dall’Alto Consiglio della sanità pubblica e riportato dal Ministro della sanità. Un decreto che definirà l’uso di questo trattamento verrà emanato nelle prossime ore.

L’appello del Ministro dell’Agricoltura

Il ministro dell’Agricoltura, Didier Guillaume, ha lanciato un appello a coloro che hanno smesso di lavorare a causa della crisi del coronavirus per unirsi al “grande esercito dell’agricoltura francese”,

“Oggi esiste la possibilità di avere 200.000 posti di lavoro diretti nelle attività agricole”, privati della forza lavoro, in particolare dei lavoratori stranieri, ha spiegato Didier Guillaume, chiedendo a coloro che lo desiderano di andare “nei campi”.

Christiane Lambert, capo dell’Unione agricola della FNSEA- Fédération nationale des syndicats d’exploitants agricoles, ha dato sostanza a questo appello. “Con i confini chiusi, i polacchi, i rumeni e gli spagnoli non saranno lì per il raccolto. A marzo sono necessari 45.000 lavoratori stagionali, 80.000 in aprile e 80.000 in maggio”, ha dichiarato.

È stato creato un sito Web per collegare domanda e offerta. Inoltre, gli agricoltori hanno negoziato con il governo in modo che i volontari possano combinare i salari dei lavoratori a tempo ridotto e quelli stagionali.

Repubblica Ceca – Italia, la questione delle mascherine sequestrate

EUROPA di

L’Italia è il paese europeo più colpito dalla pandemia del coronavirus, mentre la Repubblica Ceca si trova a fronteggiare una situazione meno grave, seppur caratterizzata dalla veloce diffusione del virus, con oltre mille casi di contagi e i primi decessi. Proprio nel pieno della crisi, quando gli Stati hanno un maggior bisogno di cooperare, è stato denunciato un grave caso di mancanza di solidarietà, almeno all’apparenza: il 20 marzo un ricercatore ceco ha denunciato un sequestro di mascherine in arrivo dalla Cina e dirette in Italia.

Cosa è successo

La pandemia da Covid-19 sta mettendo alla prova i singoli Stati sotto diversi punti di vista, dal proprio sistema sanitario alla capacità di prendere decisioni in tempi rapidi, sacrificando la produzione e l’economia del paese, considerando anche l’attitudine alla cooperazione tra Stati. Per ciò che riguarda gli Stati membri dell’Unione europea, la situazione non è semplice come sembra: prevalgono le politiche nazionali e l’UE fa fatica ad imporsi come guida. Allo stesso tempo, il sentimento di solidarietà tra gli Stati membri dell’UE non è lo stesso per tutti: la questione delle mascherine tra Italia e Repubblica Ceca sembra esserne un esempio.

Il 17 marzo, le autorità locali della Repubblica Ceca hanno sequestrato a Lovosice, nel nord-ovest del paese, in modo arbitrario, un carico comprendente 110.000 mascherine e migliaia di respiratori provenienti dalla Repubblica popolare cinese e diretti in Italia. La denuncia è avvenuta al GR1 da parte di un ricercatore ceco, Lukas Lev Cervinka, membro del partito Pirata (all’opposizione in Parlamento, ma al potere nella città di Praga). Il ricercatore si è reso conto che le autorità ceche avevano iniziato a vantare un grande successo nella lotta a chi specula, affermando che “si trattava di mascherine e respiratori confiscati, parlando di materiale rubato a imprese ceche da criminali senza scrupoli che volevano venderle a costo maggiorato sul mercato internazionale, sfidando i severi limiti all’export medico imposti in Cechia come altrove dall’emergenza”. Poco dopo però sono iniziati ad apparire i primi filmati in cui si poteva chiaramente riconoscere la provenienza del materiale: si trattava in parte di aiuti umanitari cinesi, in quanto scatoloni con le bandiere cinese e italiana, con le scritte – in inglese e in mandarino – “forza Italia, siamo al tuo fianco”.

Il chiarimento diplomatico

Iniziandosi a diffondere la notizia anche sui media locali ed internazionali, il Ministro dell’Interno ceco Jan Hamacek ha ammesso, inizialmente solo attraverso dei tweet, che parte del carico intercettato dalle autorità locali era proprio quello destinato all’Italia: “I doganieri hanno sequestrato centinaia di migliaia di mascherine. Purtroppo, successivamente è venuto alla luce che una parte era un dono cinese all’Italia”, ha scritto il Ministro su Twitter, aggiungendo che “l’Italia sarà risarcita”. Dopo la pronta reazione della diplomazia italiana, la situazione sembra essersi risolta.

La mattina del 22 marzo, il Ministro degli Affari Esteri della Repubblica Ceca, Petříček, ha comunicato all’Ambasciatore italiano a Praga che, in attesa della conclusione delle indagini relative al materiale sanitario, il paese avrebbe inviato quanto prima in Italia 110.000 mascherine provenienti dalle proprie scorte, lo stesso numero di mascherine sequestrate dalle autorità ceche. Considerata l’urgenza crescente in Italia, il Governo ceco, in coordinamento con l’Ambasciata d’Italia a Praga, ha deciso di inviare subito il carico destinato all’Italia senza attendere la conclusione dell’inchiesta di polizia tuttora in corso: ad ogni modo, le prime indagini hanno rivelato che le forniture mediche sequestrate dalle autorità includevano un lotto separato di materiale sanitario donato dalla Croce Rossa della città di Qingtian. La Repubblica ceca ha espresso rammarico per questa constatazione e ha sostituito le forniture mediche in questione con quelle identiche delle sue scorte. Nel primo pomeriggio del 22 marzo, il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, ha ricevuto una lettera dal ministro degli Esteri ceco, in cui è stato rassicurato per quanto riguarda la spedizione del carico di mascherine.

“Questione risolta”

Il Ministro Di Maio, ricevuta la conferma dall’omologo Petříček, ha commentato affermando “Dunque questione risolta, andiamo avanti”. Come assicurato dal Ministro ceco, il 23 marzo è partito per l’Italia il carico di materiale sanitario: 110.000 mascherine sono state inviate in Italia, l’equivalente di quelle sequestrate, e verranno consegnate alle autorità competenti a Roma. In particolare, vista l’emergenza anche di rimpatriare gli italiani in Repubblica Ceca, le mascherine sono state caricate a bordo di un autobus messo a disposizione del Ministro degli Affari esteri ceco che riporta in Italia circa quaranta connazionali – tra cui molti studenti Erasmus – che lo hanno richiesto all’Ambasciata da quando sono stati ridotti i voli diretti. Il ministero degli Esteri si sta muovendo attraverso dei propri mezzi di trasporto anche per recuperare i cittadini cechi bloccati nei paesi vicini, offrendosi, con l’occasione, di trasportare nella tratta di andata i cittadini del Paese di destinazione, come è avvenuto con l’Italia.

Israeliani e palestinesi insieme contro la diffusione del Covid-19

MEDIO ORIENTE di

Israele offre assistenza medica all’Autorità Nazionale Palestinese dopo la rottura provocata dal piano di pace proposto dal Presidente americano  Donald Trump.

Dopo anni di congelamento delle relazioni e la rottura dei legami causati dalla presentazione nel mese di febbraio del controverso piano di pace dagli Stati Uniti, israeliani e palestinesi stanno collaborando da vicino nelle ultime settimane per arginare la diffusione della pandemia del coronavirus. L’avvicinamento, generato dal coordinamento sanitario, ha portato Israele ad offrire aiuti medici all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), estendendosi per la prima volta anche alla sovraffollata Striscia di Gaza, sotto il controllo dell’organizzazione islamista Hamas. Inoltre, decine di migliaia di lavoratori della Gisgiordania sono stati autorizzati a risiedere sul territorio israeliano, contrariamente all’attuale divieto, durante la situazione d’emergenza.

In una tregua non dichiarata, i razzi hanno smesso di librarsi nei cieli delle città israeliane al confine con Gaza, le truppe rimangono acquartierate e gli incidenti violenti sono diventati una rarità nelle comunicazioni dei media locali. L’ANP ha dichiarato il confinamento di tutta la popolazione a partire da domenica.

Già con quasi mille casi di Covid-19 registrati in Israele (9 milioni di abitanti), con un deceduto fino ad oggi, e oltre cinquanta positivi in Cisgiordania (2,5 milioni di abitanti), la crisi è ancora distante dai livelli europei. Gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sono stati colpiti dal fatto che nell’enclave sovraffollata di Gaza (circa 2 milioni tra residenti e rifugiati) nessun caso è stato  dichiarato fino a sabato sera, quando sono stati annunciati i primi due casi positivi: due viaggiatori provenienti dal Pakistan.

La striscia costiera, appena 375 chilometri quadrati, è stata isolata dal 2007, quando gli islamisti di Hamas hanno estromesso il partito Fatah del Presidente dell’ANP Mahmud Abbas e Israele ha imposto un feroce blocco militare. Poiché Gaza è dotata di un solo laboratorio per eseguire i test di rilevamento dei virus, Israele ha facilitato l’ingresso di qualche centinaio di kit per eseguire test e dispositivi di protezione per il personale medico, pur ammettendo un grave deficit di apparecchiature mediche nei loro centri ospedalieri, secondo i dati ufficiali riportati dal The Jerusalem Post.

Il Cogat, il corpo del Ministero della Difesa israeliano che gestisce l’occupazione nei territori palestinesi, ha messo in guardia da un possibile contagio tra la popolazione della Striscia di Gaza, il cui sistema sanitario copre a malapena i bisogni minimi dopo le tre guerre devastanti con Israele tra il 2008 e il 2014. Il maggiore Yotam Shefer, capo del dipartimento internazionale del Cogat, ha avvertito in una teleconferenza con giornalisti stranierei che “i virus non conoscono confini”. L’enclave dispone solamente di 60 posti nelle unità di terapia intensiva. Al momento, oltre 2700 persone sono confinate nelle loro case dopo essere tornate a Gaza attraverso il varco di Rafah, l’unico passaggio aperto con l’Egitto. Il confine di Erez con Israele è chiuso, tranne che per i pazienti oncologici e con malattie gravi che devono essere trasferiti negli ospedali israeliani o della Cisgiordania.

Sempre Sheref ha affermato che “per tre settimane, il Cogat ha coordinato la cooperazione tra il Ministero della Salute israeliano e le autorità sanitarie palestinesi”, ricevendo circa 400 kit di test di rilevazione e 500 dispositivi di protezione individuale. Sono stati inoltre organizzati incontri telematici per formare professionisti palestinesi per la prevenzione della pandemia. La prospettiva di un massiccio contagio in Cisgiordania e a Gaza viene analizzata con preoccupazione dallo stato maggiore delle forze armate, riferisce il quotidiano Haaretxz.

Il Presidente dello Stato di Israele, Reuven Rivlin, ha telefonato nei giorni scorsi a Rais Mahmus Abbas: un gesto di avvicinamento all’Autorità Nazionale Palestinese inusuale da quando i negoziati di pace sono stati annullati nel 2014. “La crisi del coronavirus non distingue tra popoli e territori”, ha detto il Presidente ebraico, “e la nostra cooperazione è vitale per proteggere la salute di israeliani e palestinesi: la nostra capacità di lavorare insieme in tempi di crisi testimonierà anche la nostra volontà di collaborare in futuro per il bene di tutti”, ha aggiunto Rivlin, prima di esprimere ad Abbas la sua volontà di offrire aiuto, in modo coordinato.

Da parte palestinese, il Ministro degli Affari Civili, Hussein al-Sheikh, responsabile del coordinamento con Israele, ha riconosciuto in alcune interviste il miglioramento delle relazioni bilaterali, sottolineando come ci sia una forte volontà di collaborazione e come il pericolo pandemia non abbia confini. E’ nella situazione degli oltre cento mila palestinesi che ogni giorno attraversano la Cisgiordania verso Israele per motivi di lavoro che la cooperazione è diventata più visibile. Infatti, secondo Al-Sheikh saranno circa 45.000 i lavoratori che riceveranno l’autorizzazione a risiedere in territorio israeliano per almeno un mese, evitando così quei trasferimenti continui che potrebbero moltiplicare le possibilità di diffusione del virus.

Di Mario Savina

Brexit, si decide sul futuro partenariato UE – UK

EUROPA di

L’inizio del mese di marzo coincide con l’inizio dei negoziati sulle future relazioni tra Regno Unito e UE, sulla base di quanto raccomandato dalla Commissione europea il 28 febbraio. Il 18 marzo la Commissione europea ha pubblicato un progetto di accordo sul futuro partenariato tra Unione europea e Regno Unito. Il testo si può considerare la base giuridica delle direttive di negoziato già approvate dagli Stati membri lo scorso 25 febbraio, che prevedono cicli di negoziati completi da tenersi ogni due o tre settimane.

Avvio dei negoziati

Il 31 gennaio 2020 il Regno Unito è formalmente uscito dall’Unione Europea, dopo tre anni e mezzo dal referendum che ha dato inizio all’iter della Brexit. L’uscita dall’UE ha dato, a sua volta, inizio al cosiddetto periodo di transizione, che avrà luogo fino al 31 dicembre 2020 e servirà a Londra e Bruxelles per mettere a punto il loro futuro partenariato. Durante il periodo di transizione, il Regno Unito è considerato paese terzo: non parteciperà più ai processi decisionali dell’UE e non sarà più rappresentato nelle istituzioni dell’UE, nelle agenzie e così via.

Su iniziativa della Commissione, il 25 febbraio scorso il Consiglio ha adottato il mandato negoziale per il partenariato con il Regno Unito, ha nominato la Commissione come negoziatore dell’UE e ha adottato le direttive di negoziato che stabiliscono l’ambito del futuro partenariato. I settori compresi sono molteplici, dal commercio alla pesca, dalla politica estera, di sicurezza e difesa alla cooperazione delle autorità giudiziarie.

Secondo quanto previsto, ogni due o tre settimane, alternandosi tra Londra e Bruxelles, le due parti si sarebbero dovute incontrare per portare avanti cicli di negoziato, in vista della riunione di alto livello prevista per il giugno 2020. Il primo ciclo si è tenuto in occasione dell’apertura generale, quindi dal 2 al 5 marzo, a Bruxelles. Il secondo negoziato era previsto proprio in questi giorni, dal 18 al 20 marzo, a Londra: vista l’emergenza Covid-19 che coinvolge tanto il Regno Unito quanto l’Unione Europea, lo stesso governo inglese ha annullato l’incontro previsto. In particolare, si sarebbero dovuti vedere il negoziatore del governo britannico David Frost e il capo dei negoziatori dell’UE, Michel Barnier. Il governo inglese ha comunque tenuto a specificare che entrambe le parti sono a stretto contatto per continuare i negoziati, e che nelle prossime settimane verrà considerato se svolgerli in videoconferenza o in conferenza telefonica. La Commissione europea si è mostrata d’accordo con tale decisione, anche perché lo stesso Michel Barnier è risultato positivo al Coronavirus, e con un tweet ha dichiarato “Sto bene, e il morale è alto. Seguo naturalmente tutte le istruzioni come anche la mia squadra. Il mio messaggio a tutti coloro che sono colpiti o attualmente isolati: insieme ce la faremo! Uno per tutti”.

Il progetto di accordo

Sul tavolo negoziale è presente senz’altro la volontà dell’UE di stabilire la più stretta relazione di partenariato possibile: sulla base della dichiarazione politica congiunta del 17 ottobre 2019 e delle direttive di negoziato del 25 febbraio, la Commissione ha pubblicato il progetto di accordo sul futuro partenariato. Il testo fa seguito alle consultazioni con il Parlamento europeo e il Consiglio, ed è uno strumento per avanzare nei negoziati con il Regno Unito, nonostante la pandemia da Coronavirus. Proprio il capo negoziatore UE Barnier ha dichiarato “Questo testo dimostra che è possibile arrivare a un accordo ambizioso e globale sulla nostra relazione futura, basato sul mandato dell’Unione e sull’ambizione politica concordata con il Regno Unito cinque mesi fa.”

Il progetto di testo pubblicato dalla Commissione tocca tutti i settori dei negoziati: la cooperazione commerciale ed economica, la cooperazione delle autorità di contrasto e giudiziarie in materia penale, la partecipazione ai programmi dell’Unione e l’importante settore della sicurezza.

Il presidente del gruppo di coordinamento britannico del Parlamento europeo McAllister, in merito alla pubblicazione del progetto di accordo, ha affermato “Accolgo con favore il fatto che la Commissione europea abbia trasmesso al Regno Unito un progetto di accordo su un nuovo partenariato con l’Unione europea che è strettamente allineato con le raccomandazioni del Parlamento europeo nella sua risoluzione adottata a febbraio e le direttive di negoziato approvate dagli Stati membri dell’UE il 25 febbraio”. Ha aggiunto poi che “entrambe le parti condividono il forte desiderio di concordare un nuovo partenariato basato su un buon equilibrio di diritti e doveri e nel rispetto della sovranità di entrambe le parti”.

Step successivi

In merito all’accordo di partenariato, Il Regno Unito ha indicato che presenterà dei testi riguardanti alcuni elementi della relazione futura tra l’UE e il Regno Unito delineati nella dichiarazione politica. Per quanto riguarda la situazione coronavirus, i negoziatori sono consapevoli di dover sospendere gli incontri fino a quando la situazione non tornerà alla normalità. Ciò però non impedirà loro di continuare con i negoziati: “Dati gli sviluppi relativi alla diffusione del Covid-19, i negoziatori di Ue e Regno Unito stanno attualmente esplorando modalità alternative per proseguire le discussioni”, ha affermato un portavoce di Bruxelles alla delegazione UE di Londra. Ad ogni modo, entrambe le parti continueranno a lavorare sui testi giuridici, così da garantire il termine del periodo di transizione del 31 dicembre prossimo.

Covid-19, l’UE dispone la chiusura delle frontiere Schengen

EUROPA di

Sospensione per 30 giorni dei viaggi non essenziali nell’area Schengen con l’impegno di mantenere la libera circolazione delle merci: è questa la posizione emersa il 17 marzo in seno al vertice straordinario, in videoconferenza, tra i Capi di Stato e di Governo degli Stati membri dell’UE, il Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, la Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, quella della Bce, Christine Lagarde, e quello dell’Eurogruppo, Mario Centeno.

La decisione

I leader degli Stati membri dell’UE hanno, così, dato il loro “political endorsement” alla proposta della Commissione europea circa la sospensione del Trattato Schengen. “Con i governi europei abbiamo deciso una restrizione temporanea dei viaggi non essenziali nell’Unione. Lo facciamo per non far ulteriormente diffondere il virus dentro e fuori il continente e per non avere potenziali ulteriori pazienti che pesano sul sistema sanitario Ue” ha affermato la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Previste eccezioni per gli europei che rientrano nell’UE, nonché per medici e scienziati che portano avanti la ricerca contro il Covid-19.

La decisione trae origine da una telefonata tra Ursula von der Leyen, la Cancelliera tedesca, Angela Merkel, il Presidente francese, Emmanuel Macron ed il Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, in seguito alla quale è stato fissato il vertice in videoconferenza del 17 marzo.

Già prima del vertice, alcuni Stati membri avevano adottato delle misure autonome, reintroducendo controlli alle frontiere interne, come Estonia, Norvegia, Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Danimarca, Polonia, Lituania, Germania e Svizzera. Francia e Spagna avevano reintrodotto i controlli, ma le notifiche non sono arrivate a Bruxelles. Per l’Italia, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ha posto l’accento sulla necessità di coordinare le misure a livello europeo relative a viaggi, trasporto delle merci ed individuazione di misure eccezionali.

I precedenti del Trattato Schengen

Il Trattato di Schengen per la libera circolazione delle persone è stato firmato nell’omonima cittadina lussemburghese il 19 giugno 1990, da Belgio, Olanda, Lussemburgo, Germania e Francia, in applicazione di un accordo dell’85. Anche l’Italia firmò lo stesso anno, la Spagna e Portogallo nel 1991, la Grecia nel ‘92, l’Austria nel ‘95, Danimarca, Finlandia e Svezia nel ’96. Con riguardo al caso dell’Italia, pur avendo ratificato il Trattato dal 1993 con la Legge 30 settembre 1993 n.388, non poteva ancora far parte, a livello operativo, del sistema di Schengen – entrato poi in vigore il 26 marzo 1995- a causa di una serie di problemi di natura politica ed organizzativa, a partire dalla difficoltà di separare i varchi Schengen nell’aeroporto di Roma-Fiumicino.

Prima del Covid-19, il Trattato è stato sospeso solo unilateralmente da alcuni Stati membri a seguito di emergenze dovute all’ordine pubblico, come il caso del G8 di Genova nel 2011 per l’Italia e del G8 di Schloss Elamu nel 2015 per la Germania.

“Finora – ha raccontato l’Ambasciatore Raniero Vanni d’Archirafi, già Commissario europeo al mercato interno tra il ’93 e il ’95 – l’Europa ha preso soltanto misure a livello di autorità nazionali dando un messaggio di grande disunione, ma ora la sospensione decisa da tutti gli Stati membri offre l’immagine di un’Unione che ha ripreso in mano il ruolo di iniziativa che deve avere per gestore questo tipo di emergenze”.

Tutelare i flussi commerciali e il mercato unico

Al netto dell’emergenza del Covid-19, a rischio vi è il futuro del mercato unico. La Commissione europea, pertanto, ha sottolineato l’intenzione di tutelare i flussi commerciali.

Secondo il Commissario europeo agli Affari economici, Paolo Gentiloni, il mercato interno non può soccombere in questa emergenza. Gentiloni afferma che non è possibile rassegnarsi “all’idea che il mercato unico, che è una delle grandi forze dell’Ue, sia una vittima di questa emergenza sanitaria”. Certamente, ha aggiunto, “ci sono sospensioni di Schengen legalmente autorizzate ma che la Commissione sta cercando di scoraggiare perché il virus non si ferma chiedendo un passaporto al confine di un Paese”. Per le relazioni economiche, per i trasferimenti di materiale sanitario e per il personale medico “è assolutamente inaccettabile che ci siano blocchi” ha concluso Gentiloni, dichiarandosi soddisfatto per il lavoro della Commissione che ha portato a rimuovere blocchi che erano presenti la scorsa settimana.

Ursula von der Leyen ha spiegato che “abbiamo bisogno di restaurare la fiducia economica globale. È il momento di sostenere la nostra economia con determinazione. È quello che stiamo facendo con tutti gli strumenti che abbiamo”. Proseguendo, ha poi affermato che l’UE deve “investire tutto quello che è necessario per far andare avanti l’economia”. La libera circolazione delle merci, infatti, è cruciale per le forniture alimentari, di medicinali e di protezioni. Inoltre, evita gravi interruzioni delle catene di approvvigionamento il cui stop danneggerebbe ulteriormente l’economia.

Covid-19, in America Latina. L’infettivologo Castro Méndez “In Venezuela scenario da incubo”

Americas/AMERICHE di

Dopo settimane di rinvii l’Oms l’11 marzo ha pronunciato l’inevitabile parola “Pandemia” e quello che pochi giorni prima sembrava interessare solo pochi paesi del globo, ha bruscamente coinvolto sempre più aree del mondo. Oltre Italia, Spagna, Germania, Francia e Regno Unito si registrano un numero crescente di casi anche negli Stati Uniti e nel Sudamerica. L’espansione del virus e della sua minaccia ha costretto alcuni di questi paesi a correggere il tiro introducendo misure sempre più rigorose. Angela Merkel si è spinta a rievocare la Seconda guerra mondiale per far capire quanto sia grave l’emergenza in Germania: “È la sfida più grande da allora”, ha detto in un discorso alla nazione, il primo attraverso i canali della tv pubblica in 14 anni, cioè da quando è cancelliera.

I timori ormai sono tanti e in differenti misure ogni paese sta attuando le sue scelte, più o meno rigorose, che puntano a rallentare la diffusione del virus che minaccia di riuscire a sopraffare, non solo le economie e i sistemi sanitari dei Paesi in via di sviluppo, ma anche quelli dei Paesi più avanzati. “La Germania – ha avvertito la cancelliera – ha un eccellente sistema sanitario, forse uno dei migliori al mondo”, ma “anche i nostri ospedali sarebbero totalmente travolti se troppi pazienti arrivassero in un tempo troppo breve “.

In Germania si sono registrati 2.800 casi in sole 24 ore, il totale è 10.082 casi, 27 morti. Nella giornata di oggi il Regno Unito ha visto i suoi casi attestarsi a 2.626 casi positivi, 104 decessi. Il premier Boris Johnson ha perciò invertito la rotta e, davanti a una Camera dei Comuni semivuota, annuncia il nuovo obiettivo di “25.000 tamponi al giorno”. La Spagna registra +30% di morti in 24 ore. La Cina ha avuto mercoledì 13 nuovi casi di coronavirus: uno solo a Wuhan (per il secondo giorno di fila) e 12 importati, di cui cinque nel Guangdong, tre a Pechino e a Shanghai e uno nel Sichuan. I contagi di ritorno sono saliti a 155, si legge nel bollettino della Commissione sanitaria nazionale, secondo cui gli 11 morti aggiuntivi sono tutti nell’Hubei. Cresce così il timore per l’aumento dei casi importati: il Global Times sottolinea come dei 155 accertati, 47 siano legati all’Iran e 41 all’Italia. Seguono, stando al quotidiano, la Spagna (21 casi), il Regno Unito (12) e gli Stati Uniti (7). In totale dall’inizio dell’emergenza i dati cinesi parlano di 3.237 morti e 80.894 casi positivi. A New York, il sindaco chiede la chiusura dell’intera città. In Australia e Nuova Zelanda chiudono le frontiere a chi non ha la cittadinanza, il Giappone a 38 Paesi, tra cui l’Italia. Il caponegoziatore UE per la Brexit, Michel Barnier positivo al test. L’Ue lavora al rimpatrio di 100mila cittadini e crea una riserva strategica di materiale sanitario di protezione, ventilatori, e vaccini quando saranno disponibili ai 27 Paesi. Iran: “Un morto ogni 10 minuti”.

Pertanto, quella che poche settimane fa sembrava una minaccia lontana, oggi preoccupa allo stesso modo varie aree del mondo. L’epicentro oggi è in Europa ma la preoccupazione che questo possa spostarsi in quei paesi dove le economie e i sistemi sanitari sono più vulnerabili, si sta rafforzando l’inquietudine anche in quei governi e leader che si sono mostrati spavaldi difronte lo scoppio di un’epidemia nel proprio paese.

Sudamerica – Le ripercussioni della rapida diffusione del Covid-19 nel continente sud-americano ha evidenziato che il virus non ha confini. Come sappiamo la diffusione del virus, che in questi giorni sta già maturando le sue prime vittime in Sudamerica, ha il doppio effetto di minacciare le economie e di portare al collasso i sistemi sanitari nazionali. Insomma, se la diffusione del Covid-19 ormai è assai probabile anche in America Latina, è altrettanto preoccupante chiedersi cosa potrà succedere in quei paesi, come il Venezuela, dove l’impossibilità di farvi fronte sembra quasi certa.

Venezuela – E se arriva in Venezuela? “Il problema non è se arriva in Venezuela – taglia corto il Dottor Julio Castro Méndez, medico infettivologo, referente dell’ONG Médicos por la Salud (Medici per la salute), che redige un periodico rapporto sulla situazione degli ospedali venezuelani –. Il problema è quando arriva. Io ritengo che la cosa sia inevitabile, è solo questione di tempo, visto che il Covid-19 ha iniziato a diffondersi negli altri Paesi del Sudamerica”. Uno scenario da incubo, quello che si verificherebbe all’arrivo del coronavirus, “dato che la situazione sanitaria, in Venezuela, è da tempo compromessa. Negli ospedali spesso manca l’acqua, fondamentale nel prevenire la diffusione del virus, si verificano continuamente blackout elettrici. Il 53% delle strutture sanitarie è completamente privo di mascherine”.

Sistema sanitario al collasso. É il Venezuela, appunto, il Paese che suscita le maggiori preoccupazioni. Non mancano gli interrogativi sulla reale possibilità che eventuali positività vengono comunicate, dato che l’attuale governo di Maduro non ha mai comunicato qualcosa relativamente alle altre epidemie in atto nel Paese. “Ce ne sono tre in particolare, in questo momento: malaria, morbillo, difterite, mentre il dengue, che sta causando numerosi contagi in altri Paesi, soprattutto Brasile e Paraguay, non sta contagiando particolarmente il Venezuela”, dice il medico. Ma nel Paese ci sono anche diversi casi di tubercolosi. Castro Méndez spiega: “da tre anni ci sono queste epidemie in atto, ma a denunciarlo sono state le organizzazioni internazionali, non certo il Governo” e continua spiegando come “nell’attuale contesto di poca trasparenza e crisi generalizzata, pensare alla possibilità di poter effettuare diagnosi a gruppi numerosi di persone sia tecnicamente impraticabile per il sistema sanitario venezuelano”. Per le prossime settimane, “molto dipenderà da quanti saranno i casi che si presenteranno. Ma se si arrivasse a numeri simili a quelli di Corea o Italia, nel giro di due settimane la situazione sarebbe di completo collasso”. Il rapporto 2019 di Médicos por la Salud, del resto, è eloquente. Lo studio documenta che durante il 2019 il 78% degli ospedali venezuelani ha avuto problemi di rifornimento idrico. Nel mese di dicembre, solo il 16% delle strutture ha avuto acqua tutti i giorni. Restano frequenti i blackout, che lo scorso anno hanno coinvolto oltre il 60% degli ospedali. La presenza di medici, nel Paese, è scesa del 10%, quella del personale infermieristico del 24%. Le unità di terapia intensiva funzionano al 60-70%, a seconda dei momenti, le sale operatorie a poco meno del 50%.

Il Presidente Nicolás Maduro, dopo aver annunciato nei giorni scorsi una “quarantena totale” per il paese, ove finora ci sono stati 33 contagi senza vittime, sospende tutte le attività escluse quelle legate alla distribuzione alimentare, alla sicurezza, ai servizi sanitari e ai trasporti, per poi aver visto tramontare la sua richiesta di aiuti al Fmi per rafforzare le capacità di risposta del sistema sanitario venezuelano per il contenimento del Covid-19.

Libia, Khalifa Haftar vola a Berlino. Merkel: “nessuna soluzione militare”

AFRICA di

Lo scorso 10 marzo il generale Khalifa Haftar, leader dell’Esercito Nazionale Libico (LNA), ha incontrato la cancelliera tedesca Angela Merkel a Berlino. L’incontro è avvenuto il giorno successivo alla visita del generale a Parigi , dove ha incontrato il Presidente francese Emmanuel Macron.

 

Al centro dell’incontro tra il leader dell’LNA e la cancelliera Merkel vi è stato, anzitutto, il perdurare della crisi libica, ma anche il confronto sulle possibili soluzioni per porre fine al conflitto. A tal proposito, la cancelliera tedesca ha ribadito che la crisi libica non dovrà essere risolta militarmente e, pertanto, ha nuovamente invocato la necessità di un “cessate il fuoco” permanente.  Secondo quanto dichiarato dal portavoce del governo tedesco Steffen Seibert, la cancelliera Merkel ha ribadito al leader libico la necessità di favorire l’avvio di un processo politico nel Paese nordafricano, in conformità con quanto stabilito alla Conferenza di Berlino, tenutasi il 19 gennaio scorso. Questo è quanto riferito dal portavoce del governo tedesco, il quale, però, non ha rivelato dettagli sulla risposta di Haftar.

 

Sappiamo però che lo scorso 9 marzo, nel corso dell’incontro con il Presidente francese, il leader libico ha dichiarato di essere pronto a raggiungere una tregua, a patto che tutti i gruppi armati, compreso l’esercito di Tripoli sotto il comando del Governo di Accordo Nazionale (GNA), si impegnino a fare lo stesso.

Il governo di Tripoli, dal canto suo, il 3 marzo scorso aveva invitato la comunità internazionale a proseguire il suo sforzo di pacificazione nel Paese, in particolare esercitando pressioni sulle forze di Haftar volte a porre fine agli scontri.

Il Paese, e soprattutto la capitale libica, continuano tuttavia ad essere caratterizzati da instabilità e da scontri continui tra le due fazioni in campo.

Fonti locali dichiarano infatti che venerdì 13 marzo, le forze dell’LNA hanno avviato un’offensiva su due diversi fronti. Una al centro di al-Aziziya, situata a 55 km a Sud-Ovest di Tripoli, ed un’altra presso al-Hira, vicino la città di Gharyan. Secondo quanto dichiarato, le forze di Haftar avrebbero parallelamente condotto un attacco aereo contro le postazioni delle forze del governo triplino, situate ad Est della città di Misurata. I raid aerei, secondo le stesse fonti, hanno preso di mira principalmente obiettivi militari.

Nel frattempo, il portavoce dell’LNA, Ahmed al-Mismari, ha riferito che la Turchia continua ad inviare a Tripoli combattenti siriani, ovvero militanti appartenenti alle divisioni di Sultan Murad, addestrati da Ankara per combattere a fianco dell’esercito tripolino. Secondo quanto riportato da al-Mismari, il numero di mercenari siriani il Libia ha raggiunto quota 7500, a cui vanno ad aggiungersi funzionari ed altri uomini di provenienza turca.

 

Francia, primo turno delle elezioni municipali: al voto con il COVID-19

EUROPA di

Domenica 15 marzo, in Francia, nonostante l’emergenza COVID-19, si è svolto il primo turno delle elezioni municipali in circa 35.000 comuni. L’affluenza è stata molto bassa ed al centro della giornata elettorale vi è stata la polemica relativa all’opportunità o meno di tenere le elezioni. In generale si è confermato un esito positivo per i Verdi ed a Parigi è stata premiata la sindaca uscente, Anne Hidalgo.

Coronavirus e la carta dell’astensione

Tra i 35.000 comuni, al voto importanti città come Bordeaux, Marsiglia, Nizza, Lione, Tolosa, Lille, Montpellier, e la capitale Parigi.

Il 15 marzo l’affluenza si è attestata al 44,64%, in calo di 20 punti rispetto all’ultima elezione svoltasi nel 2014. Per la prima volta dall’inizio della Quinta Repubblica, meno della metà dei francesi iscritti nelle liste elettorali si è recata alle urne per le elezioni municipali. Questo forte calo della partecipazione è quasi generalizzato in tutto il territorio metropolitano, ad eccezione di alcuni piccoli comuni. Tra le principali città, Nizza ha vissuto la più forte spinta astensionista: solo il 29% degli elettori è andato alle urne, rispetto al 54% di sei anni fa. A Parigi l’affluenza è intorno al 43 per cento, contro il 56,27 per cento del 2014. “L’alto tasso di astensione testimonia la crescente preoccupazione dei nostri concittadini di fronte all’epidemia che ci sta colpendo”, ha dichiarato il Primo Ministro francese, Edouard Philippe-candidato a Le Havre- spiegando che comunque il voto si è svolto nel rispetto delle norme sanitarie. Pulizie dei locali e delle attrezzature necessarie, segnalazioni a terra per mantenere la distanza tra gli elettori, punti di distribuzioni di gel idroalcolico: queste alcune delle misure adottate nella giornata di domenica.

L’ultimo bilancio comunicato nella giornata elettorale parla di 127 morti (+36 rispetto al giorno precedente) e 5423 contagiati confermati (+900). Alla vigilia del voto, il Governo francese ha decretato il passaggio alla cosiddetta Fase 3 nella gestione della pandemia, che comporta la chiusura di scuole, università, ristoranti e di tutti i luoghi che non comportano servizi essenziali, fatta eccezione quindi dei negozi di alimentari, delle farmacie, delle banche, delle tabaccherie e dei distributori di benzina. All’indomani del voto, il Presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, ha disposto una nuova e più incisiva riduzione degli spostamenti dei suoi concittadini: assembramenti e riunioni con familiari ed amici non sono più permessi; ovunque nel territorio francese sono ridotti i contatti; si può uscire soltanto per fare la spesa; sono interdetti i viaggi lunghi; l’attività fisica all’aperto è lecita soltanto se da soli ed a distanza.

Emmanuel Macron, ha annunciato, altresì, il rinvio del secondo turno delle elezioni municipali e lo stop alla riforma delle pensioni. Secondo molti costituzionalisti francesi ciò comporta la necessità di ricominciare da capo l’intero processo elettorale: ai sensi della legge francese, il secondo turno deve svolgersi la domenica seguente al primo, pertanto, gli elettori potrebbero tornare a votare anche per il primo turno. In particolare, il Codice elettorale, all’Art. 56, dispone che le elezioni municipali si svolgono la domenica, “in caso di un secondo scrutinio, ciò avviene la domenica successiva al primo scrutinio”. La situazione è, tuttavia, senza precedenti.

I risultati

In questo scenario è piuttosto difficile trarre delle conclusioni dai risultati elettorali del 15 marzo.

Vi sono, tuttavia, due tendenze da segnalare: in primo luogo i Verdi hanno confermato l’ascesa, avviata con le elezioni europee dello scorso maggio in diversi Stati membri dell’UE; questi, sono andati bene a Grenoble (44 %), Lione (29 %), Strasburgo (26,7 %), Besançon sono in prima posizione anche a Bordeaux (34 %), Tolosa e Tours. In secondo luogo, ad ottenere buoni risultati al primo turno è Rassemblement national, Partito di estrema destra di Marine Le Pen, che ha confermato il proprio radicamento in alcuni comuni francesi in cui aveva registrato la vittoria nel 2014 – Hénin-Beaumont, Villers-Cotterêts, Beaucaire, Fréjus, Hayange e Béziers.

Il Partito Socialista, dopo anni di difficoltà, è andato bene a Lille, Nantes, Rennes, Le Mans, Clermont-Ferrand, Brest e soprattutto nella capitale. Qui, la sindaca uscente Anne Hidalgo – eletta con il Partito Socialista nel 2014 e sostenuta dalla lista “Paris en commun” di cui fa parte anche il Partito Comunista francese – è al 29,33% dei voti: otto punti di vantaggio su Rachida Dati – ex ministra della Giustizia nel governo di Nicolas Sarkozy e candidata con Les Républicains, al 22,72 % – e più di dodici su Agnès Buzyn- precedentemente Ministra della Sanità, candidata per il Partito di Emmanuel Macron, al 17,26 %. Hidalgo ha affermato: “Chiedo ora unità e la convergenza di ecologisti, progressisti, umanisti, di tutte le donne e gli uomini di buona volontà, affinché trionfino l’ecologia, i valori della solidarietà e dell’aiuto reciproco”. Ma, a differenza di altri candidati, Hidalgo non ha ufficialmente chiesto lo slittamento del secondo turno. A Parigi sembra improbabile una vittoria della destra: nonostante il buon risultato di Dati, non vi sono riserve di voto a cui attingere e fino ad ora non vi sono segnali di una possibile alleanza con Buzyn. Tra gli altri candidati, David Belliard dei Verdi è al 10,79%, davanti a Cédric Villani, dissidente del partito di Macron, al 7,88 % e Danielle Simonnet, candidata dell’estrema sinistra, al 4,59%.

Relativamente al Partito di Macron, La République en Marche, questo non è riuscito, come previsto, ad ottenere risultati significativi: le scelte politiche adottate negli ultimi mesi (come la riforma delle pensioni) e la mancanza di un radicamento locale, sono le cause alla base del risultato. Edouard Philippe, a Le Havre è intorno al 43,6 per cento, andrà al ballottaggio con il comunista Jean-Paul Lecoq (al 35,9 %), che probabilmente riuscirà a presentarsi con una coalizione ampia che comprenderà anche le liste dei Verdi. Tra gli altri membri del governo che si sono candidati alle municipali, Gérald Darmanin, Ministro dell’Azione e dei Conti pubblici, è stato rieletto al primo turno a Tourcoing, così come Franck Riester, Ministro della Cultura, a Coulommiers. Tuttavia, nonostante questi successi isolati, il Partito del Presidente francese mostra difficoltà nel vincere in una grande città.

Infine, con riguardo al partito Les Républicains, è stata registrata una vittoria al primo turno a Calais. A Marsiglia, invece, andranno al ballottaggio contro la sinistra, sperando di conquistare anche Tolosa dove, in alleanza con il partito di Macron, è stato ottenuto per ora circa il 36%.

 

 

 

 

La Repubblica Ceca dichiara lo stato di emergenza: chiusi i confini del paese

EUROPA di

Con oltre 300 casi di covid-19 nel paese, la Repubblica Ceca ha iniziato a prendere importanti misure restrittive di prevenzione all’ulteriore diffusione del contagio. A circa due settimane dai primi casi di coronavirus nel paese, il governo di Praga ha dichiarato prima lo stato di emergenza e poi la messa in quarantena dell’intero paese, con la chiusura dei confini.

Lo stato di emergenza
Il 12 marzo è stato dichiarato lo stato di emergenza in Repubblica Ceca per la durata di 30 giorni con possibile prolungamento: in questo periodo, alcuni diritti e libertà saranno limitati per il tempo necessario e per l’estensione necessaria a prevenire la diffusione del virus. Concretamente ciò vuol dire che a partire dalle 06:00 del 13 marzo, il governo ha vietato qualsiasi appuntamento con più di 30 persone: manifestazioni culturali, eventi sportivi o religiosi, festival, pellegrinaggi, spettacolo e così via saranno sospesi. Si chiudono al pubblico servizi come gli impianti sportivi, le strutture per l’intrattenimento, le gallerie, le strutture benessere e le biblioteche. Infine, sarà disposta la chiusura di ristoranti alle 20.00. Il divieto non pregiudica il funzionamento di negozi, mezzi pubblici o tribunali e altre autorità pubbliche, così come il divieto di riunioni non si applica alle aziende, secondo quanto ha dichiarato il Ministro degli Interni Jan Hamacek.
A tutte queste misure si aggiunge la chiusura di scuole e università con la sospensione delle attività didattiche che a partire dall’11 marzo verranno svolte da remoto per quanto possibile, per aiutare a rallentare la diffusione del coronavirus. Alcune scuole e insegnanti sono meglio preparati e tecnicamente più attrezzati di altri per passare all’apprendimento remoto; tuttavia, per garantire che gli studenti non rimangano indietro nelle materie fondamentali, la televisione ceca ha iniziato a trasmettere programmi educativi speciali preparati in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione, con l’obiettivo di replicare l’esperienza della classe.

Misure rafforzate: il paese è in quarantena
Visto il diffondersi del virus nel paese e in tutta Europa, il Consiglio di sicurezza dello Stato ha deciso di limitare severamente la libera circolazione nella Repubblica ceca: dalla mezzanotte del 16 marzo alle 06:00 del 24 marzo, il paese è interamente in quarantena per combattere la diffusione del coronavirus. Tale decisione è stata presa per proteggere le persone più vulnerabili nel paese, ha detto il Primo Ministro. Dopo l’Italia, la Spagna e l’Austria, la Repubblica ceca è il quarto paese europeo a ordinare restrizioni ai movimenti della popolazione.
“Nella situazione attuale, consideriamo i raduni di persone nei centri commerciali e nei ristoranti un rischio troppo grande”, ha detto Andrej Babiš. “Non vogliamo assolutamente limitare la vendita di prodotti alimentari, prodotti farmaceutici, carburante e altri beni di prima necessità. Le persone non devono preoccuparsi: le scorte di cibo rimangono illimitate e in realtà non è necessario che le persone svuotino gli scaffali dei supermercati”. In termini pratici, alle persone sarà permesso di uscire di casa solo per comprare cibo e medicine, andare al lavoro, andare in ospedale e in banca o fare viaggi legati alla cura di giovani e anziani. Le elezioni al Senato sono state posticipate, così come il termine per l’invio delle dichiarazioni fiscali (rimandato al 1 ° luglio). “Solo restrizioni fondamentali come questa possono aiutare a fermare la diffusione dell’infezione nel nostro paese”, ha affermato Adam Vojtěch, ministro della sanità. “Anche se non è piacevole per nessuno di noi, si tratta di proteggere la nostra salute”.
Come se non bastasse, proprio durante la situazione di emergenza a cui lavorano gli ospedali, non si fermano gli attacchi hacker. Il Brno University Hospital – abilitato anche a fare i tamponi per rilevare il coronavirus – è stato colpito da un cyberattacco nel mezzo dell’epidemia covid-19: l’attacco ha costretto a posticipare operazioni chirurgiche e dirottare i pazienti più gravi ad un ospedale vicino. Dopo l’attacco è stato necessario l’intervento del National Cyber Security Center, della polizia ceca e dello staff informatico della struttura ospedaliera.

Restrizioni ai viaggi
Il rafforzamento delle misure coinvolge anche il settore di viaggi e trasporti: anticipando la decisione di Bruxelles di vietare gli spostamenti interni all’area UE, il paese ha deciso di chiudere i confini e garantire solo gli spostamenti per motivi di lavoro, raggiungimento dei familiari per necessità e delle strutture sanitarie. Da venerdì 13 marzo è stato impedito agli abitanti dei 18 paesi maggiormente a rischio di entrare nella Repubblica Ceca: si tratta di Austria, Belgio, Cina, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Iran, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Norvegia, Corea del Sud, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti. Lo stesso discorso vale per i cechi che vogliono andare all’estero per motivi di piacere. L’unica eccezione sono gli stranieri con residenza temporanea nella Repubblica ceca e gli stranieri con residenza permanente. Tutti i collegamenti commerciali internazionali di trasporto via aria e via terra sono interrotti. I viaggiatori in auto possono attraversare l’Austria a condizione che il transito attraverso il territorio austriaco avvenga senza soste di nessun tipo. I controlli ai valichi di frontiera con Germania e Austria resteranno in vigore, mentre non ci saranno controlli ai confini con la Slovacchia e la Polonia poiché questi Stati stanno già controllando il confine dalla loro parte.

Il Coronavirus irrompe in Africa: aumentano gli Stati colpiti e la preoccupazione dell’OMS

AFRICA di

La pandemia da Covid-19 è sbarcata anche nel continente africano. Nelle ultime ore quattro nuovi Stati hanno registrato pazienti positivi, portando a 23 il numero di Paesi Africani colpiti dal virus.

Secondo uno studio della rivista medica Lancet, l’Egitto, l’Algeria e il Sudafrica sarebbero gli Stati a più alto rischio di diffusione del virus, in virtù del volume dei collegamenti e delle relazioni commerciali con la Cina.

Il Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), Tedros Ghebreyesus, si è detto seriamente preoccupato per la diffusione del virus in Paesi con sistemi sanitari deboli, come è il caso di molti Paesi Africani. Il timore è che, nonostante la percentuale di letalità del Covid-19 sia bassa, questa possa aumentare a causa delle condizioni di vita della popolazione di numerosi Stati del Continente. La preoccupazione degli esperti riguarda, inoltre, le effettive capacità di alcune Nazioni africane di contenere la diffusione del virus, portando ad una potenziale crisi sanitaria dagli effetti devastanti.

Secondo le stime aggiornate dell’OMS e della piattaforma online di monitoraggio Covid19-Africa, il numero più alto di casi si registra attualmente in Egitto con 126 casi, seguito da Algeria (48), Sudafrica (51) e Tunisia (18).  I casi totali sono 347, ma i dati sono in costante aggiornamento e le stime si basano sulle limitate capacità diagnostiche dei Paesi contagiati.

Il Sudan, alle prese con una grave crisi economica dopo la dittatura di Al Bashir, si trova ad affrontare anche l’emergenza Covid-19. Venerdì scorso c’è stata la prima vittima a Khartoum, ed il governo ha decretato la sospensione di visti e voli da e verso 8 Paesi, tra cui l’Italia e l’Egitto. È stata inoltre decisa la chiusura di scuole ed università, ed il divieto di eventi sociali, compresi i matrimoni.

Il Kenya, l’economia più ricca dell’Africa Orientale, ha individuato il paziente 0 in una donna proveniente dagli Stati Uniti. Il Governo di Nairobi ha quindi intrapreso misure atte a contenere un possibile focolaio. Ai cittadini e agli stranieri in possesso di regolare visto è permesso l’ingresso, a condizione che si sottopongano ad un periodo di isolamento nelle proprie abitazioni, o in strutture predisposte dal governo. In generale, quasi tutti i governi africani hanno iniziato ad attivare misure precauzionali: maggiori controlli agli aeroporti e quarantena per i passeggeri provenienti dai Paesi più colpiti.

Il Direttore regionale dell’OMS per l’Africa, Matshidiso Moeti ha sollecitato tutti i Paesi africani a continuare ad agire in tal senso al fine di affrontare l’emergenza e frenare il numero dei contagi. “Ogni paese può ancora cambiare il corso di questa pandemia aumentando le proprie riesposte all’emergenza. I casi sono ancora bassi in Africa e possiamo mantenerli così con solide azioni di tutti i governi per combattere il nuovo coronavirus”.

Giulia Treossi
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