GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Egitto: il caso Regeni e gli strascichi libici

La questione dei diritti umani. Il comportamento ambiguo della Francia. La Libia. L’uccisione di Giulio Regeni e lo scontro diplomatico tra Roma e Il Cairo sulle dinamiche legate alla morte del ricercatore italiano si legano ad altre questioni geopolitiche.

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“Abbiamo una visione diversa dei diritti umani rispetto all’Unione Europea. Non potete immaginare cosa succederebbe al mondo intero se questo Paese cadesse. Ciò che sta avvenendo in Egitto è un tentativo di spaccare le istituzioni dello Stato. Siamo sempre pronti a ricevere gli inquirenti italiani affinché si assicurino di tutte le misure che stiamo attivando a questo proposito”.

Queste le parole del presidente egiziano Al Sisi nel corso della conferenza stampa congiunta del 17 aprile con il suo omologo francese Francois Hollande al termine del bilaterale tra i due Paesi. Parole di facciata, volte a ricucire lo strappo con l’Italia, a seguito delle imbarazzanti indagini sulla morte di Regeni, e a rifarsi un’immagine compatibile con l’opinione pubblica internazionale, viste le continue violazioni dei diritti umani in Egitto svelate dalle varie ONG e messe in evidenza proprio dopo le torture subite dal dottorando italiano.

I rapporti tra Italia ed Egitto sono al minimo storico. Lo dimostra il richiamo dell’ambasciatore Maurizio Massari, lo dimostrano i pochi stralci messi a disposizione della Procura di Roma, incredula di fronte al fatto che la Procura Generale de Il Cairo stia insistendo sull’omicidio ad opera della banda criminale.

“In base a tali sviluppi, si rende necessaria una valutazione urgente delle iniziative più opportune per rilanciare l’impegno volto ad accertare la verità sul barbaro omicidio di Giulio Regeni”, si legge nel comunicato pubblicato dalla Farnesina venerdì 8 aprile.

Parole che fanno seguito alle tante denunce fatte in particolar modo da Amnesty International, che smentiscono le parole di Al Sisi e la versione fornita dalle autorità egiziane: “Secondo gli ultimi dati forniti dall’organizzazione egiziana “El Nadim”, che il Governo ha per altro minacciato di chiudere, dall’inizio di quest’anno i casi accertati di tortura in danno di cittadini egiziani sono stati 88 e in 8 casi c’è stato il morto – afferma il portavoce italiano di Amnesty International Riccardo Noury in un’intervista a La Repubblica -. Ora, è vero che in questo momento non esistono prove in grado di sostenere che Giulio Regeni sia stato torturato da apparati dello Stato per ordine delle autorità di quello Stato. Ma è altrettanto vero che questo sospetto esiste, è legittimo, è sostenuto dagli esiti dell’autopsia sul cadavere di Giulio, dagli elementi indiziari emersi sin qui dall’indagine e dunque bisogna che questo sospetto il governo egiziano ce lo tolga”.

Una battaglia, quella sui diritti umani e sulla tragica morte di Regeni, fatta propria dal New York Times: “Appoggiamo la battaglia dell’Italia. Gli abusi dei diritti umani in Egitto sotto il presidente Al Sisi hanno raggiunto nuovi picchi, e nonostante ciò, i governi che commerciano con l’Egitto e lo armano hanno continuato a fare affari come se niente fosse”.

Una dura reprimenda e un riferimento non celato alla Francia. L’incontro della scorsa settimana tra Hollande e Al Sisi, infatti, è servito a rinvigorire i legami commerciali tra i due Paesi, stimabili in 2,5 miliardi l’anno. Mentre le flebili denunce sui diritti umani da parte del presidente francese nel corso della conferenza stampa finale sembrano essere state fatte per salvare le apparenze.

Il gelo tra Italia ed Egitto potrebbe essere sfruttato a proprio vantaggio non solo dalla Francia, ma anche dalla Germania e dalla Gran Bretagna, nonostante il governo britannico abbia accolto la petizione di numerosi accademici e studenti e abbia chiesto “più trasparenza nelle indagini sulla morte di Giulio Regeni”.

Non solo motivi economici, ma anche risvolti geopolitici attinenti alla Libia. Se fino ad ora l’appoggio egiziano al generale Haftar e al governo di Tobruk a discapito del nuovo governo di Serraj era cosa palese, più fonti italiane ed internazionali rilanciano l’idea che anche la Francia appoggi segretamente l’esecutivo della Cirenaica a causa della presenza, in quella regione, di numerosi pozzi petroliferi.

La riconquista delle ultime ore di Bengasi da parte dell’esercito di Haftar pone ancora di più agli occhi delle potenze occidentali il tema delle alleanze trasversali internazionali al primo punto. L’Egitto, in questo senso, potrebbe divenire il pomo della discordia tra i partner internazionali impegnati a ricucire l’assetto istituzionale libico in nome della lotta al Daesh.
Giacomo Pratali

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Serraj e le incognite sul futuro della Libia

Prima l’atterraggio negato. Poi l’arrivo via mare mercoledì 30 e il respingimento del governo retto da Khalifa Ghwell. Infine, la fuga di quest’ultimo a Misurata. L’entrata in vigore del governo di unità nazionale presieduto da Fayez al Serraj, dopo i tumulti delle prime ore a Tripoli e l’istituzione del quartier generale provvisorio nella base navale di Abu Sittah, getta speranze e incognite sul futuro della Libia.

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Il pressing della comunità internazionale alla fine ha portato ad un primo risultato. L’accelerazione dell’istituzione del governo di unità nazionale avvenuta mercoledì 30 marzo è un segno evidente che le Nazioni Unite, complici gli attentati di Bruxelles e l’indebolimento dello Stato Islamico in Siria a fronte di un suo rafforzamento in Libia, hanno rotto gli indugi.

Questo, nonostante due ostacoli interni. In primis, dal governo di Tobruk e dal GNC, ancora lontani dal ratificare la lista dei membri del nuovo esecutivo concordato in Marocco sotto l’ombrello dell’ONU. Dall’altra parte, i rappresentanti del governo di Tripoli, tra cui il premier Ghwell, che hanno sì partecipato alle trattative di Skhirat, ma che adesso hanno paura di vedere svanire quella posizione di potere costruita dal 2014 ad oggi.

Le dure parole di Ghwell all’arrivo del nuovo premier Serraj (“Il nuovo governo è illegale perché designato dall’ONU”), gli scontri nel centro di Tripoli che hanno portato ad un morto e la presa di controllo della emittente Al Nabaa, vicina ai Fratelli Musulmani, da parte di uomini vicini al nuovo esecutivi, completano un quadro ancora incerto.

Ma forse meno fosco del previsto. Come rivelato da Libya Herald, l’improvvisa e inaspettata fuga di venerdì di Ghwell a Misurata sarebbe il risultato della pressione proprio delle milizie di Misurata, sostenitrici di Serraj, oltre che delle sanzioni nei suoi confronti annunciate dall’Unione Europea (riguardanti anche il presidente dell’HoR Agilah Saleh e l’omologo del GNC Nouri Abusahmen).

In più, i sindaci delle 13 municipalità di Tripoli oltre ai sindaci di 10 città libiche hanno annunciato il loro sostegno al nuovo esecutivo: “La situazione del Paese è critica – ha rivelato il sindaco di Sabrata Hussein al Dawadi al Daily Mail -. Il costo della vita è molto alto e al contempo non c’è abbastanza disponibilità di denaro: questo ci porta a sostenere il nuovo governo”.

Ed è infine notizia di oggi dei colloqui in corso proprio tra Serraj e il capo della Banca Centrale libica per aumentare l’emissione di denaro.

Un po’ a sorpresa, dunque, questo governo, bollato da parte dell’opinione pubblica internazionale come paracadutato dalle Nazioni Unite, sta in parte risolvendo dentro i suoi confini i suoi problemi. Rimangono comunque i problemi legati all’ordine pubblico a Tripoli e negli altri centri del Paese di qui ai prossimi giorni e due rischi concatenati: che il nuovo esecutivo venga visto come un’indebita ingerenza dell’Occidente negli affari interni libici e che, di conseguenza, l’opera di proselitismo dello Stato Islamico abbia un’ulteriore arma propagandistica dalla sua parte.

E l’intervento militare esterno? Anche se bollato come non prioritario da Serraj (“I primi provvedimenti del mio governo potrebbero essere di natura economica”), l’arrivo sul territorio libico di un contingente ONU è ormai prossimo.

A partire dal supporto in materia di addestramento e di messa in sicurezza della capitale Tripoli, sede del governo di unità nazionale, e delle infrastrutture libiche. Come già concordato nel corso del congresso di metà marzo a Roma, l’Italia fornirà 2500 uomini, mentre il Regno Unito 1000.

Mentre l’ipotesi di un intervento militare diretto resta un punto interrogativo che divide Renzi da Obama e gli altri alleati occidentali, determinati a stroncare la radicalizzazione dello Stato Islamico in Libia.

 

Giacomo Pratali

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Libia: nuovo quartier generale del Daesh?

Medio oriente – Africa di

La lente d’ingrandimento puntata sulla Siria, divenuto terreno di scontro della rediviva guerra fredda tra USA e Russia, sta facendo il gioco dello Stato Islamico in Libia. Mentre Turchia e Arabia Saudita preparano l’intervento di terra in Medio Oriente, il quartier generale del Daesh si sta spostando. A dirlo, sono i numeri.

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Secondo le ultime rilevazioni statistiche, ci sarebbe un’inversione di tendenza rispetto al numero di militanti presenti in Siria e Iraq e in Libia. Nel primo caso, le stime parlano di 15-25 presenze, con un calo di 20-30 mila rispetto alle ultime variazioni. Nel secondo caso, invece, il numero totale, 5-6 mila, è ancora inferiore, ma l’aumento nell’ultimo anno si è aggirato attorno ai 2-3 mila.

Molteplici i possibili fattori dovuti a questa inversione di tendenza. Primo fra tutti i caduti di guerra a seguito dei raid nel Paese retto da Assad. Morti che hanno probabilmente causato diserzioni e la conseguente scelta, da parte dei foreign fighters di una meta meno a rischio, per il momento, come la Libia.

Numeri che portano a due riflessioni. Come rilanciato da molti analisti, la crescita numerica dell’Isis in Libia non avrà particolari ripercussioni sui possibili futuri attacchi terroristici in Europa. Quella attraverso la Siria rimane una rotta più sicura non solo per i rifugiati, ma anche per gli stessi jihadisti. E difficilmente i vertici del Califfato rischieranno i loro uomini addestrati attraverso la rotta meno sicura per raggiungere l’Europa, cioè quella attraverso il Mediterraneo meridionale.

Discorso contrario, invece, per quanto riguarda la radicalizzazione stessa del Califfato. I riflettori della comunità internazionale puntati sulla Siria, uniti alla cronica lentezza di un governo di unità nazionale a Tripoli, stanno rendendo la Libia la nuova roccaforte dello jihadismo.

A Sirte, dove ha sede il quartier generale. A Bengasi e in altri centri metropolitani del Paese, dove il Daesh, così come fatto in Siria e Iraq, sta concentrando le proprie forze.

I continui appelli lanciati nelle ultime settimane dalle varie autorità italiane affinché si formi al più presto un nuovo governo, sembrano essere caduti nel vuoto, al netto dell’apparente interesse mostrato, ad esempio, dal segretario di Stato USA John Kerry. Un interesse che, invece, dovrebbe essere reale.
Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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