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In 41 a processo per il disastro del Rana Plaza

Asia di

Il 24 aprile 2013 il Rana Plaza, un casermone di otto piani che ospitava una banca, negozi, appartamenti ed alcune fabbriche tessili, crollò su se stesso uccidendo 1135 persone e provocando oltre 2500 feriti. L’edificio si trovava in un sobborgo industriale di Dacca, la capitale del Bangladesh e da allora il suo nome ricorda il peggiore disastro mai avvenuto nella storia dell’industria tessile. A morire furono quasi solamente operai. Il giorno prima del crollo alcune crepe si erano aperte sui muri e i negozi, insieme alla banca, erano stati fatti chiudere per ragioni di sicurezza. I padroni degli stabilimenti tessili, però, non accettarono di interrompere la produzione ed obbligarono gli operai e le operaie a recarsi ugualmente a lavoro. La mattina successiva, nel momento di massimo affollamento, le pareti si sbriciolarono e il palazzo si accartocciò su se stesso seppellendo migliaia di lavoratori. Gli ultimi 4 piani del palazzo, si apprese in seguito, erano stati alzati abusivamente nel corso degli anni.

Il disastro chiamò direttamente in causa noti marchi di abbigliamento americani ed europei, che subappaltavano la produzione alle fabbriche tessili locali per risparmiare sul costo del lavoro, incuranti delle pessime condizioni imposte agli operai. Seguirono denunce, impegni ufficiali, campagne di sensibilizzazione internazionali, accordi tra i produttori per migliorare le condizioni dei lavoratori, ma ben poco venne fatto realmente. Nel marzo del 2014, solo 7 delle 29 griffe coinvolte si erano effettivamente attivate per finanziare un fondo di solidarietà in favore delle famiglie delle vittime.

Due anni e mezzo dopo la strage, il 21 dicembre scorso, la giustizia del Bangladesh ha finalmente chiamato a giudizio 41 persone. Gli imputati dovranno rispondere di uno dei peggiori disastri industriali della storia e rischiano la condanna all’ergastolo. La posizione più grave è quella di Sohel Rana, il proprietario del Rana Plaza, accusato di aver ordinato agli operai degli stabilimenti  di rientrare al lavoro, benché il sopralluogo del giorno precedente avesse certificato che l’edificio non era sicuro.

Mr. Rana è l’unico imputato attualmente sotto custodia. Sedici sono liberi su cauzione e per gli altri 24, al momento irreperibili, sono stai emessi lunedì scorso gli ordini di arresto.

Il settore tessile è ancora oggi fondamentale per la debole economia del Bangladesh, con esportazioni che generano un fatturato superiore ai 25 miliardi di dollari. Il 60 percento della produzione prende la strada dell’Europa, rifornendo i magazzini dei nostri negozi di abbigliamento. Il massacro del Rana Plaza non ha portato però ad un miglioramento sensibile delle condizioni di lavoro nel settore tessile, dove gli incidenti continuano a verificarsi, seppur su scala minore. I produttori non hanno tenuto fede alle loro iniziali promesse e continuano ad approfittare di un mercato del lavoro che garantisce salari bassissimi e significativi margini di guadagno.

Il tradimento degli impegni è stato anche certificato da una recente ricerca della New York University, che ha mostrato come solo 8, delle 3425 fabbriche di abbigliamento ispezionate nel paese, abbiano introdotto miglioramenti per elevare gli standard di sicurezza. Creare un ambiente più sicuro per i lavoratori, sostiene il rapporto, non è impossibile ma richiede grandi investimenti in termini di tempo e denaro e la collaborazione di tutti i brand e dei governi coinvolti.

Al momento, un cambiamento di paradigma sembra alquanto improbabile mentre appare reale il rischio che i committenti decidano di spostare la produzione tessile verso paesi dove le fabbriche sarebbero soggette a minori controlli. Un paradosso potenzialmente letale per l’economia del Bangladesh.

Foto: rijans, Flickr.

Cina: borsa a picco

Asia/BreakingNews/ECONOMIA di

Quasi il 35% del valore dei titoli bruciati dal 12 giugno ad oggi, equivalente a 3000 miliardi di dollari. Nella giornata di ieri l’8%. Più che la crisi greca, a tenere con il fiato sospeso la comunità internazionale è la Borsa cinese. Nei 12 mesi precedenti al picco, Shanghai e Shenzen erano cresciute di circa il 150%. Poi, il baratro.

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Dopo quest’apertura, altre 500 società quotate in Cina hanno sospeso le proprie contrattazioni, portando il totale a 1476 titoli fermi, più del 50% del totale. La China Securities Regulatory Commission, ente addetto al monitoraggio della borsa, parla di “panico tra gli investitori”. Mentre, da Pechino questo crollo viene paragonato a quello di Wall Street del 1929.

Le perdite, tuttavia, non si registrano solo dal punto di vista finanziario. Il grande perdente, infatti, resta il Partito Comunista Cinese. Per due ragioni. La prima è che non sono state finora mantenute le promesse di crescita e benessere per l’intero Paese.

La seconda è che le mosse del governo, come la creazione di un fondo ad hoc per questa emergenza di circa 19 miliardi di dollari annunciata a giugno, non ha, come si vede oggi, portato agli effetti sperati. In questo senso, Citic Securities International, compagnia di broker cinese, ha chiesto a gran voce il taglio dei tassi di interesse per limitare i danni dello scoppio di questa bolla borsistica.

I giugno e luglio neri stanno sortendo un effetto domino sui mercati azionari limitrofi, come Nikkei sotto del 3,1% nella giornata di ieri, o come la Borsa di Hong Kong scesa quasi del 6%. Ma il panico e gli effetti negativi rischiano di ripercuotersi su Stati Uniti ed Europa.
Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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