GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Medio oriente – Africa - page 17

La caduta del Califfato a Kobane, la città liberata dai curdi

Ben 4 mesi di combattimenti senza tregua e i peshmerga siriani sono riusciti a liberare Kobane da terroristi dell’ISIS. Era dal 16 settembre  scorso che la città resisteva all’assedio dei jihadisti sunniti. Lo ha riferito il 27 gennaio scorso l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, il quale ha precisato che i resistenti curdi ormai hanno liberato quasi l’intera area della città curda di Kobane ai confini con la Turchia.

Proprio nel Kurdistan turco numerose sono state le  manifestazioni di festa alla diffusione della notizia. In migliaia hanno riempito le piazze con canti e balli, in uno spirito di grande appartenenza alla causa della lotta allo Stato Islamico e alla resistenza eroica dei combattenti peshmerga.

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Alcune conseguenze sono già tangibili in seguito alla liberazione di Kobane. In primo luogo, la grande attenzione mediatica che giustamente si è guadagnato l’intero popolo curdo tramite i suoi combattenti nelle fila della Resistenza. Un umore gelido soffia da Ankara e gli eventi  non smuovono affatto il suo leader. Erdogan lo ha dichiarato senza mandarle a dire, “non c’è nulla da festeggiare!”.

La prospettiva del Grande Kurdistan, il tanto agognato stato curdo che s’andrebbe a estendere tra Turchia, Siria, Irak e Iran rimane improponibile per Erdogan. “chi costruirà adesso le città distrutte?” ha domandato sarcastico riferendosi ai bombardamenti delle truppe americane che hanno aiutato i combattenti curdi sul territorio. Kobane è una città che conta circa 45mila abitanti.Eppure, gli strike americani hanno colpito più duro qui che a Raqqa, dove si ritiene che abbia passato molto tempo anche lo stesso capo di IS, Abu Bakr Al Baghdadi.In molte giornate di bombardamenti, Kobane è stato addirittura l’unico bersaglio degli aerei della coalizione.

D’altronde, il contributo turco alla lotta è stato unicamente quello di far passare i peshmerga curdi lasciando il confine aperto a seguito delle pressioni inderogabili della comunità internazionale. Erdogan sogna la caduta di Bashar Al Assad in Siria per espandere la sua influenza con un governo filoislamico che bloccherebbe ogni possibilità ai curdi di costituirsi a Stato. Fa pensare la notizia confermata dall’intelligence turca che parla di numerose cellule jihadiste “dormienti” in Turchia. Fanno pensare anche i movimenti quasi indisturbati di profughi siriani che dai confini turchi, attraversano il paese senza quasi venire intercettati giungendo numerosi nei Balcani.

Eppure, forse la considerazione più pregnante da portare sul tavolo della strategia nella lotta al Califfato sta in quella locuzione inglese del “boots on the ground” perché è esattamente quello che hanno fatto i peshmerga siriani del YPG (Foze di Difesa del Popolo): combattere per una porta, un vicolo, una piazza, una città. La resistenza dei curdi, non finisce a Kobane.

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Centrafrica – inaugurato il ponte costruito dai genieri italiani

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Bangui 29 gennaio – E’ stato inaugurato oggi il ponte metallico di 24 metri costruito dal genio militare italiano della missione europea EUFOR RCA per riunire tre zone della capitale centrafricana divise dal crollo – nel 2010 – della struttura che superava un ampio canale idrico, mai più ripristinata a causa del conflitto civile.

39---UNITY-BRIDGE-THE-DAY-AFTERIl ponte ‘Sewa’ – ‘unità’ in lingua locale – rappresenta un’iniziativa europea a sostegno della  sicurezza, dello sviluppo economico e della riconciliazione interconfessionale tra le diverse comunità di Bangui. Al progetto hanno preso parte numerosi Paesi dell’Unione Europea: la Repubblica Ceca ha fornito la struttura metallica modulare di fabbricazione polacca, successivamente trasportata a cura delle Svezia e infine assemblata dai militari dell’Esercito italiano, con la supervisione di tecnici tedeschi e cechi.

Composto da oltre 1000 elementi, nell’arco di due giorni il ponte modulare è stato costruito e spinto a mano tra le due sponde del canale dagli uomini del 2° reggimento genio della brigata Julia di stanza a Trento.

L’iniziativa portata a termine dalla missione EUFOR RCA si inserisce nel quadro dei progetti europei a sostegno della popolazione realizzati in cooperazione con le autorità centrafricane. In particolare, il ponte metallico realizzato dai genieri italiani ha anticipato temporaneamente il ponte permanente in costruzione nella stessa zona grazie al finanziamento dall’Unione Europea, che è il primo partner per lo sviluppo della Repubblica Centrafricana.

6--UNITY-BRIDGE-MOUNTING-2Il taglio del nastro è avvenuto per mano del Generale Philippe Pontiès – comandante operativo di EUFOR RCA – e della Presidente della Repubblica Centrafricana Catherine Samba Panza, in presenza della massime autorità centrafricane e dei rappresentanti della comunità internazionale, tra cui l’Ambasciatore a capo della Delegazione UE Jean-Pierre Reymondet e il Console onorario d’Italia a Bangui Stefano Giuliani.

Nel discorso tenuto prima dell’inaugurazione, l’alto ufficiale francese, dopo aver evocato lo spirito che anima l’operazione europea, a base di “apertura, dialogo, rispetto reciproco per facilitare il ritorno della stabilità e della sicurezza per tutti nell’ambito di quartieri fortemente segnati dagli scontri di Dicembre 2013”, ha sottolineato la cooperazione esemplare tra nazioni europee, citando tra l’altro il ruolo fondamentale del genio italiano nel montaggio della struttura.

 

 

Sono 13 le nazioni europee che compongono la forza militare dell’Unione Europea in Repubblica Centrafricana, composta da circa 700 elementi che operano nella capitale Bangui, ma il supporto finanziario e logistico della missione coinvolge tutti i 28 Paesi dell’Unione Europa.

L’Italia contribuisce alla missione EUFOR sin dallo scorso mese di agosto con un’unità del genio attualmente costituita dai genieri alpini del 2° reggimento di Trento che hanno avvicendato a dicembre i colleghi dell’8° genio paracadutisti della Folgore di stanza a Legnago (Verona).

 

Libano, offensiva Hezbollah: tre uccisi nella “Linea Blu”

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Tre vittime nella zona detta “Linea Blu” in Libano nella mattinata di mercoledì 28 gennaio 2015. Due soldati israeliani uccisi e sette feriti è il bilancio dell’attacco missilistico ad un convoglio militare condotto da Hezbollah nella zona delle fattorie di Shebaa. Morto, in maniera accidentale, anche un casco blu della missione Onu Unifil, rimasto coinvolto nello scontro tra i due eserciti.

“Il nostro Paese è pronto a reagire ad ogni attacco”, ha commentato a caldo il premier israeliano Netanyahu. Mentre un portavoce del suo governo ha rivelato che “risponderemo ad ogni attacco da parte di Hezbollah attraverso la nostra aviazione e la nostra artiglieria”. Di tutto altro tenore, invece, la replica di un portavoce Onu per Unifil che ha parlato di un necessario massimo sforzo per prevenire una escalation di violenza”. La morte del soldato della missione internazionale è stata definita dallo stesso “un incidente”, ma non è stato rivelato il vero responsabile. Secondo quanto riportato da Al Jazeera, il colpo letale sarebbe partito dall’esercito di Tel Aviv.

L’Arabia dei Saud al centro della mezza luna islamica

A prescindere da chi sia al potere e da quali siano gli alleati, da quelle parti a chiunque lo si chieda tutti sanno sempre quello che fanno.

Simile al deserto di cui è formata, l’Arabia Saudita non è il classico potere statale che ti aspetti, per lo meno non lo è all’europea. E’ di quelli che nella perfetta ottica islamica di sempre, mutano come le dune di sabbia dalla sera alla mattina. Camuffata (spesso a volto scoperto) in un ambiente che è stato la causa dei suoi mali ed allo stesso tempo benefattore della sopravvivenza della casa reale, è sopravvissuta alle numerosissime crisi che l’hanno coinvolta. La sua politica, come molte politiche nel mondo arabo che un occidentale non si sa spiegare, non va capita: queste politiche prima vanno accettate e poi, quando ci si mette nei panni di chi ha come dirimpettaio Iraq, Iran, Yemen, Egitto, Israele, (per non mettere dentro al pentolone anche inglesi, francesi e americani che sono il trito e ritrito condomino che vuoi o non vuoi dalle parti del 46° Est ti ritrovi) si può sperare di capirle. Quando la tua preoccupazione è innanzitutto il controllo della fedeltà della famiglia reale, ben prima che dei sudditi e poi delle alleanze, allora capisci che la faccenda si complica. Questa sorta di perenne insicurezza che accompagna da sempre casa Saud ha reso la sua politica interna ed esterna in alcuni casi piuttosto squilibrata, in continuo ricomponimento. Non è certo confortante se la si giudica dall’ottica della sicurezza e stabilità regionale, ma tale è.

Due aspetti di questa importante fetta della mezza luna islamica – che corre dal Magreb (lì dove tramonta il sole) passando per le sconsolate distese del Sahel, lo sfortunato e martoriato Corno d’Africa per giungere a chiudersi tra il Mar Caspio e il Pakistan, tra le steppe kazakhe – vanno considerati: il timore di un crollo interno e l’instabilità permanente ai suoi confini. L’intrinseca vulnerabilità di tutto il mondo arabo è allo stesso tempo la sua principale caratteristica, quella cioè di essere un gran caleidoscopio che riflette nelle politiche dei governi e nelle guerre l’indissolubile rivalità tra le sue anime sciita e sunnita e prima ancora la sua poliedricità etnica e tribale. L’Arabia dei Saud ha tentato tutte le strade per cercare di arginare le spinte centrifughe interne ora elargendo privilegi, ora attraverso fondi, ora (è il caso di Bin Laden ad esempio) mandando in esilio personaggi scomodi, magari in passato dimostratisi insostituibili alleati della corona contro lo sgretolamento a favore della miriade di realtà locali. Certamente scomoda la posizione della famiglia reale, in perenne dibattito e scontro più o meno dichiarato per mantenere l’equilibrio regionale senza dare troppo fastidio a grossi e grassi vicini. La religione, che guida una buona parte delle continue conflittualità, è un mezzo attraverso cui legittimare la propria leadership al governo – antico sodalizio nato nella metà del 1700 dall’incontro della fama di dominio della famiglia di Muhammad Saud con quella di Muhammad al Wahhab, fervente predicatore di un fondamentalismo devoto al solo dio Allah: da quel momento il potere politico è stato finalizzato al perseguimento della causa religiosa wahhabita in una sorta di gioco delle parti utile ad entrambi. Sistematicamente al centro di attacchi da parte del radicalismo che ne critica il tradimento filo occidentale, questo ricco e sfortunato Stato ha vissuto al centro di tumulti e guerre che ne hanno plasmato la sensazione di sicurezza e la proiezione politica.

Utile a questo punto accennare ad un momento fondamentale della storia saudita e della famiglia Saud: quello che ne ha visto la cacciata dalla regione in seguito alla morte di Turki nel terzo decennio del 1800 con la conseguente guerra civile che portò al governo la famiglia rivale Al Rashid e, l’abilità politica e militare del principe Al Aziz che dall’esilio in Kuwait fu in grado di condurre un esercito alla lenta ma inesorabile riconquista delle vecchie regioni del Neged e del Hijaz (regione simbolicamente importantissima, centro della religione islamica con le città sante di La Mecca e Medina). E’ questo un momento che ha rappresentato nella storia del regno saudita un nodo molto importante: mancando la figura di Muhammad Wahhab a rappresentare la guida religiosa e spirituale, Al Aziz assunse per se anche il titolo di Imam: da quel momento stringeva nelle sue mani la spada del potere temporale e quella del potere secolare (come il simbolo di casa Saud).

Dagli attacchi terroristici alla guerra in Somalia, dalla guerra del Golfo al conflitto israelo-palestinese al vicino Iran nucleare, l’Arabia Saudita è stata più volte salvata e condannata anche dal petrolio, salvo scoprire poi che la sua presa sull’equilibrio mondiale del commercio dell’oro nero era limitata. Contrariamente alle aspettative infatti, la produzione del greggio saudita non conta così come si credeva…per lo meno fuori dal gioco del Golfo. L’eccessiva considerazione data al petrolio è stata infatti già smentita e rischia di esserlo nuovamente. E’ vero si che se escludiamo potenze come Russia e Stati Uniti il peso del greggio saudita è ancora importante ma, date le nuove tendenze, rischia di essere una spada spuntata. Il gioco di abbassare la produzione di barili per cercare di premere sbilanciando la produzione internazionale non ha funzionato in passato ed è improbabile che con i prezzi dati (il Medio Oriente continua ad essere il centro della produzione di petrolio, davanti agli Stati Uniti e all’Eurasia), i sauditi rigiochino nuovamente al ribasso, soprattutto considerando la ripresa delle estrazioni dopo le recenti rivolte libiche (che comunque non sono in grado di mettere in difficoltà il Regno). Per casa Saud non si tratta tanto di competere contro Algeria o Libia, quanto di utilizzare la moneta nera come contrappeso al rivale iraniano, costringendolo ad adattarsi ai prezzi per restare competitivo (mossa che rientra in una più ampia strategia di confronto e che sposta la rivalità dal terreno ai mercati finanziari), tentando di sbarazzarsene e di metterlo da parte nella partita anti ISIL. L’Arabia Saudita può permetterselo. L’ Iran al contrario ha bisogno di restare su picchi sempre alti di produzione, cosa resa difficile dal blocco commerciale imposto da molti paesi proprio nella speranza di rallentare il percorso sull’acquisizione di tecnologia nucleare. Inoltre, a favore dei sauditi gioca la diffusa riduzione della domanda di greggio a livello mondiale in linea con trend di crescita decisamente deboli delle economie avanzate che gli permette di fare la prima mossa mantenendo un discreto margine di vantaggio.

Resta da chiedersi con gli ultimi cambiamenti che hanno acceso nuovi focolai di cui lo Stato Islamico è la manifestazione più lampante, se la corona ha intenzione di giocare seriamente la partita apertasi in Iraq e Siria e, in questo caso: lo farà ispirandosi alla teoria del divide et impera (che non ha portato grandi risultati fino ad ora visti i vuoti di potere creatisi con gli scontri dei gruppi fondamentalisti)? Lascerà che Obama riprenda a fare il grande poliziotto di un quartiere che non è decisamente più così stimolante per gli Stati Uniti nell’ottica globale ma sembra giocoforza attirarne il coinvolgimento militare? Riuscirà a trovare una linea comune con gli emiri vicini o resterà intrappolata nel pantano di un’insicurezza che contribuisce in buona parte a creare?

Isis alla conquista della Libia

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Quando si  parla del Califfato si pensa subito alla Siria e all’Iraq  mentre l’avazata dei Kalashnikow e delle bandiere nere è molto più vicina alle coste italiane ed europee.

Da Davos il Ministro delle Finanze de del Petrolio del debole governo di transizione libico, Ali Tarhouni,  lancia l’allarme, le formazioni islamiste dell’Isis stanno avanzando su tutta la costa del paese.

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Ormai senza controllo del territorio e senza esercito la Libia è preda delle milizie che si proclamano appartenenti al califfato e dopo aver conquistato Derna e la regione di Bengasi stanno espandendosi verso la Tunisia occupando Sirte, Misurata e in infine Sabrata.

Proprio dalle spiagge tra Sabrata e Zuara al confine con la Tunisia partono i migranti che poi approdano sulle coste italiane grazie anche alla totale mancanza di forze dell’ordine e di controllo.

La maggior parte delle imbarcazioni che partono da questi luoghi chiede poi aiuto via telefono alla guardia costiera italiana, migliaia i migranti soccorsi negli ultimi mesi nello stretto braccio di mare che divide la Sicilia dalle coste libiche.

In questo contesto il pericolo di infiltrazioni di combattenti dell’ISIS tra i migranti sono molto alte e in questo senso le nuove proposte di legge che saranno presentate al governo italiano dal senatore Marco Minniti dovrebbero cercare di ridurre il fenomeno.

Il ministro Tarhouni  ha sottolineato con il suo intervento che sia l’Europa che l’Italia stanno  sottovalutando cosa succede in Libia, l’avanzata dei terroristi dell’ISIS ira a conquistare le risorse petrolifere della regione così come ha fatto in Siria e Iraq mettendo a repentaglio l’economia regionale e internazionale.

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Centrafrica liberato l’ostaggio francese

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L’educatrice  Claudia Priest , 67 anni , arrivata nella Repubblica Centroafricana  il 6 gennaio sarebbe dovuta restare due settimane a Bangui,  durante le quali avrebbe dovuto presentare i nuovi progetti e incontrare l’amministrazione locale  per la prima volta dopo la rivolta contro il presidente Francois Bozizè nel 2012.

Trascinata via in maniera brutale dalla sua auto dalle milizia Anti-balaka è stata tenuta prigioniera in condizioni difficili e ferita alla testa senza possibilità di assistenza medica.

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Non è il primo caso nell’area, già qualche giorno prima era stato rapito e poi rilasciato per due volte un dipendente delle Nazioni Unite, trattenuto nello stesso quartiere dove si crede sia stata trattenuta la cooperante francese.

Con queste operazioni i ribelli anti-balaka mirano a ottenere il rilascio del loro leader e aumentare le fila del loro esercito, una azione non pianificata ma realizzata come immediata ritorsione all’arresto.

Il vescovo di Bangui ha condotto in prima persona le delicate trattative con i ribelli e le autorità locali ed è riuscito a riportare in libertà la 67enne francese.

Il rapimento della cooperante francese si inserisce in un quadro ancora più complesso che comprende le prossime consultazioni che precedono il forum politico di Bangui che è stato previsto con l’intento di sollecitare una riconciliazione nazionale.

Nel frattempo le violenze delle due fazioni in lotta, gli islamisti Seleka e le cosidette milizie cristiane Anti- Balaka, sembrano non avere fine mettendo in serio dubbio la capacità della missione ONU che nonostante il dispiegamento di uomini e mezzi non riesce a mantenere il controllo delle zone di competenza.

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Tag: ostaggio francese

La minaccia terroristica interna alla sopravvivenza di Israele

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E’ pacifico ormai interpretare il perenne conflitto in Medio Oriente come lo scontro tra uno Stato in espansione (Israele) ed un territorio in continua difesa (Gaza), nella parte del più debole. E’ indubbio, certamente, che un paragone tra i due governi (o come li si voglia definire l’uno in rapporto all’altro) non possa porsi. D’altra parte, però, senza negare la sofferenza cui gli abitanti della striscia sono sottoposti ed anzi, sottolineandone la paradossale ed incomprensibile inevitabilità, vale la pena girare intorno al tavolo e sedersi dall’altro capo.

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Mettiamo per un attimo il conflitto con la striscia di Gaza da parte. Israele sin dal momento della sua nascita ha dovuto fare i conti con vicini tutt’altro che amichevoli. Ha dovuto nel tempo e deve attualmente affrontare una minaccia terroristica di diversa provenienza e natura. Sebbene si tratti di terrorismo, esso è però caratterizzato da una pluralità di manifestazioni di cui il lancio di razzi o mortai dalla striscia di Gaza (spesso lanci alla cieca) rappresenta solo una parte e, come dimostrano le analisi ed i dati del Sommario Annuale 2013 sul terrorismo e le attività di contrasto, in alcuni periodi non rappresenta neanche la minaccia più grave. Israele deve fare i conti con dimostrazioni di ostilità che spesso sono condotte non dall’esterno verso l’interno dei suoi confini, ma con attacchi che nascono e si concludono nel suo territorio. In particolare nella città di Gerusalemme e nelle aree di Giudea e Samaria. Oltre a ciò, permane  il pericolo che la regione del vicino Sinai continui a rappresentare un focolaio incontrollato ove gruppi terroristici di matrice islamica fondamentalista possano trovare terreno fertile per accrescere la loro influenza ed aumentare dunque il rischio per la sicurezza d’Israele e non solo.

Nello specifico, Giudea e Samaria hanno visto nel 2013 un forte incremento degli attacchi terroristici, più che raddoppiati rispetto all’anno precedente, caratterizzati da lanci di granate o esplosioni di ordigni improvvisati. L’area di Gerusalemme, al contrario, ha visto un calo di attacchi. Le minacce si riferiscono ad una serie di tipologie di azioni ostili che vanno dal lancio di granate all’uso di veicoli, dal lancio di razzi ad omicidi condotti con uso di armi alla deflagrazione di ordigni improvvisati inesplosi (IED). La possibilità che alcuni gruppi appartenenti alla cosiddetta jihad islamica globale mantengano il controllo di parte dell’area della penisola del Sinai, ha inoltre spinto le autorità israeliane a cooperare con quelle egiziane al fine di ridurre la pericolosità di queste organizzazioni terroristiche, tanto che negli ultimi anni si è potuto notare una diminuzione degli attacchi provenienti da queste regioni. Il problema è infatti a doppio filo anche egiziano, poichè l’attuale governo di Al Sisi affronta gli stessi disagi: tunnel sotterranei, disordini, minaccia allo Stato, conflitti localizzati. Fortunatamente, alla riduzione degli attacchi è corrisposta una riduzione del numero delle vittime.

Un ulteriore rischio per Israele è rappresentato (con potenziali critiche ripercussioni in scala temporale) dagli arabi israeliani che abbandonano la loro terra per recarsi a combattere all’esterno. Questo esodo, sebbene ridotto, dal punto di vista di Israele è visto a ragione come possibile minaccia in quanto questi individui si recano in territori stranieri (ad esempio in Siria) per essere coinvolti in conflitti o movimenti di vario genere. Ciò implica un attivismo che spesso giunge fino al combattimento armato, che presume tra l’altro un addestramento di tipo militare. Il pericolo (come prova l’arresto di Yusef Higla nel 2013) è che questi soggetti mantengano contatti con organizzazioni o elementi  coinvolti in attività ostili ad Israele e, che possano essere poi utilizzati per condurre attacchi di varia forma contro il governo israeliano o i suoi abitanti. A questo spesso poco citato argomento,  si aggiunge il rischio politico sociale proveniente dalle ali estreme della destra e della sinistra in seno al menage politico interno, ma che si trasformano in attacchi mirati da parte di radicali contro specifici settori della popolazione (attacchi a persone quali accoltellamenti ed alle proprietà, come incendi dolosi).

Una realtà, dunque, lontana da quella che spesso ci viene proposta. Israele è al centro di numerosi possibili attacchi condotti da altrettanto numerosi soggetti singoli o organizzati i cui obiettivi sono spesso civili (nelle strutture e nelle persone che ne sono coinvolte). E’ chiaro che, in una situazione in cui ad una forte minaccia per così dire interna si aggiungono uno o più conflitti esterni (entrambi in buona parte riconducibili alla stessa matrice di rivalità storico religiosa), quel forte Stato che risponde al lancio di razzi con invasioni militari assume un aspetto più realistico, meno eroico e soprattutto più in preda ad una situazione di costante stress ed allarme. Sotto un ulteriore punto di vista, allargando la nostra visione all’area regionale in cui esso è inserito, l’esistenza stessa di Israele, poi, apparrebbe sotto tutt’altro punto di vista qualora si evidenziasse il ruolo di cuscinetto per nulla scontato che esso svolge nell’area medio orientale. Le preoccupazioni israeliane sull’esistenza di gruppi terroristi fondamentalisti ai suoi confini o al suo interno è una preoccupazione che, qualora venisse a mancare l’impegno israeliano, peserebbe interamente su parte degli stati con esso ora confinanti.

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EMERGENCY – Contro Ebola forse ci siamo

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Gino strada con un post su Facebook annuncia una grande buona notizia, diminuiscono i nuovi casi di infezione in Sierra Leone – «Forse ci siamo. Forse si riesce a sconfiggere questa epidemia. Il numero di nuovi casi sta diminuendo rapidamente ogni giorno, speriamo non si verifichino nuove impennate. Forse tra poco potremo dire che l’epidemia di Ebola è finita in Sierra Leone. Ma che fatica! E quanti miracoli ci sono voluti” – ha commentato il fondatore di Emergency.

10915304_10152539837076367_4754568819001755211_nUna buona notizia che sembra non trovare spazio sui media anche dopo mesi e mesi di terrore incontrollato, le buone notizie non vendono.

La lotta all’epidemia non ha avuto un attimo di tregua soprattutto da parte delle ONG che sul territorio sono stati in prima fila spesso con perdite umane o gravi situazioni di contagio fortunatamente per Emergency risolte positivamente ma che in altri casi hanno decretato il decesso di missionari e volontari.

“Quando in agosto il Ministero della Sanità ci ha chiesto di aprire a Lakka un centro di isolamento per i casi sospetti- continua Strada nel suo Post – in sole tre settimane i nostri logisti hanno realizzato una struttura in tende per un totale di 22 letti, che presto si è trasformata anche in centro di trattamento: troppi pazienti, accasciati fuori dal cancello, prostrati dalla malattia e in attesa di un posto lettoLa situazione in Sierra Leone è da anni critica e soprattutto in questo perido la mancanza di infrastrutture ha permesso il dilagare della malattia, l’incapacità del governo centrale di gestire l’emergenza è stata di fatto compensata dall’enorme sforzo delle ONG e prima tra tutti di Emergency.

“ Così è iniziata la corsa per metterci in condizione di curare i pazienti, non solo di isolarli e osservarli: assicurare acqua e energia elettrica, garan

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tire procedure e percorsi di sicurezza, assicurare aria condizionata per diminuire la fatica fisica degli operatori rinchiusi in un caldissimo scafandro, e finalmente iniziare a curare i malati. Perché anche in assenza di una cura specifica per la malattia si possono salvare molte vite, se si riesce a capire qualcosa di questa grave malattia ancora in gran parte sconosciuta, se si hanno gli strumenti e i farmaci più adatti. Così un passo dopo l’altro, tra grandi difficoltà, abbiamo messo a punto un laboratorio di biochimica, poi uno di virologia, sono arrivati i monitor, le pompe per infusioni endovenose, i ventilatori per intubare i malati più critici, le macchine per la dialisi. In soli tre mesi siamo riusciti ad allestire una terapia intensiva come quelle che si trovano nei centri specializzati in Europa e in USA, che hanno trattato una trentina di pazienti con una mortalità inferiore al 30 per cento. Due pazienti su tre sono guariti nei paesi

Dopo tutto questo lavoro e i risultati ottenuti Gino Strada conferma pienamente quanto ha detto qualche mese fa che ”se mi ammalo di Ebola resto in Africa”. Oggi lo posso affermare con tranquillità e convinzione: mi farei curare nell’ ETC (Ebola Treatment Centre) di Emergency. ricchi, due su tre sono morti nell’Africa povera. Per assenza di cure.”

 

Un lavoro eccezionale che merita di essere sostenuto.

 

Alessandro Conte

Centrafrica: Continua la missione EURFOR RCA

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Mantengono la posizione i militari della forza multinazionale europea a Bangui.

I genieri alpini della missione europea EUFOR-RCA hanno ripristinato un’importante strada di Bangui, nell’ambito dei progetti volti a migliorare la circolazione e la sicurezza nei diversi quartieri della capitale centrafricana.

I lavori di ripristino sono terminati ieri con la posa di una passerella metallica fabbricata dai tecnici militari italiani, che ha consentito la riapertura definitiva di una strada che – dopo un lungo periodo di interruzione dovuto al conflitto  – faciliterà i collegamenti con il 3° distretto di Bangui e consentirà tra l’altro di

raggiungere più facilmente il centro e i luoghi di culto, oltre a permettere il pattugliamento della zona da parte delle forze locali e internazionali.

Il progetto realizzato dal 2° reggimento genio di Trento è stato promosso – oltre che dalla missione militare dell’Unione Europea – anche dall’Ambasciata francese nella Repubblica Centrafricana, nel quadro di una serie di iniziative di riconciliazione inter-confessionale.

All’inaugurazione della strada hanno partecipato il generale Jean-Marc Bacquet – comandante di EUFOR RCA a Bangui – l’Ambasciatore Charles Malinas e i rappresentanti del 3° e del 5° distretto della capitale, rispettivamente a prevalenza musulmana e cristiana.

Nelle prossime settimane i genieri alpini della brigata Julia completeranno la costruzione di un ponte militare di 24 metri che collegherà tre quartieri di Bangui. Il progetto sarà realizzato grazie a un’importante partnership europea: la Repubblica Ceca ha fornito la struttura modulare di fabbricazione polacca, la Svezia ha curato il trasporto mentre la Germania esercita insieme a un team di Praga la supervisione tecnica dei lavori affidati ai militari italiani.

L’Occidente e i sui confini sensibili

Ottobre 2014, i notiziari albanesi danno risalto a una notizia in particolare: 76 cittadini siriani sono stati fermati in territorio albanese, al confine con la Grecia. Provati dalla traversata notturna dei monti che separano i due paesi, chiariscono di provenire “dalla guerra in Siria” e chiedono asilo politico allo Stato albanese. Erano stati avvistati mentre camminavano in colonna e, una volta fermati, hanno chiarito la loro provenienza senza indugi. Stessa sorte, ma con delle zone d’ombra fitte abbastanza da far sollevare un groviglio di ipotesi è stata riservata a 24 cittadini siriani, fermati mentre attraversavano il paese a bordo di mezzi a pagamento. Erano diretti in Montenegro e da lì, non è dato sapere.

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Del primo gruppo, intervistato dalla tv albanese Top Channel, ne parla Ahmed, un profugo palestinese, che dal campo profughi in Siria è dovuto scappare di nuovo con moglie e figli. “ Abbiamo camminato per circa un mese. Dalla Turchia, alla Grecia e infine qui in Albania”, spiega, “ camminavamo perché non avevamo scelta. Non abbiamo denaro e non possiamo pagare nessuno che ci aiuti”. Non hanno progetti o paesi di riferimento che vorrebbero raggiungere, vorrebbero soltanto mettersi in sicurezza e assicurare le famiglie da guerra e miseria.

A dicembre 2014, i media albanesi parlano di cittadini siriani, richiedenti asilo, scappati dai centri di permanenza. Voci non ufficiali parlano di condizioni difficili a cui erano costretti, ma le autorità negano ogni noncuranza o mancanza di adeguate condizioni di vita all’interno dei centri.

Alla stregua delle stragi di Parigi che stanno costringendo l’intelligence dei paesi europei a dichiarare allerta n.10 in Francia, in Italia n.7, i quesiti si moltiplicano.

Ormai è abbastanza chiaro che gran parte degli autori e ideatori degli attacchi terroristici in Occidente hanno potuto viaggiare in modalità A/R per prendere contatti, indottrinarsi, addestrasi alla guerra e fare rientro in Europa per portare a termine le stragi ideate. E’ notizia di oggi che è stato scovato in Grecia un esponente dell’ISIS che coordinava il reclutamento di aspiranti terroristi in Europa, pronti a replicare il terrore dei primi giorni sanguinosi di questo mese di inizio anno. Tal Abdelamid Abaoud, o meglio conosciuto come Abu Soussi, cittadino belga (!), originario del quartiere Molenbeek a Bruxelles.

Dunque, la mappa pare consolidata. V’è una rete di confini sensibili che rendono friabile l’entrata nei grandi paesi europei. Dalla Siria, in Turchia, in Grecia, Albania, Montenegro o Kossovo, via mare verso l’Italia (anche se dimostrato fin troppo bene dai fatti che l’allerta profughi nelle coste siciliane è molto inferiore ai movimenti migratori via terra) o altrimenti verso Germania, Francia o Belgio.

Oltre a un mero fattore geografico favorevole agli scambi e per questo conteso nei secoli, le ragioni della traversata “agevolata” dei profughi, uomini, donne e bambini, ma con la alta probabilità di militanti di Isis o Al Qaeda al loro interno, vanno ricondotte anche alla  malagestione dei paesi di confine da parte delle grandi potenze.

Con uno sguardo al passato, nella guerra di Bosnia, 1992-1995, USA, Arabia Saudita, Turchia e Unione Europea si schierarono con i mussulmani bosniaci nel conflitto contro i serbi. In palio c’erano l’allargamento a est della Nato e il controllo di un’area geografica strategicamente utile per il passaggio degli oleodotti che portano gas e petrolio dall’Asia Centrale all’Europa, senza passare per l’Ucraina, fino a ieri legata alla Russia. Tra i mussulmani sostenuti dall’Occidente e dai suoi alleati, militavano anche migliaia mujaheddin provenienti dall’Asia e dall’Africa Settentrionale, che porteranno il radicalismo islamico nei Balcani, prima in Bosnia e in seguito  anche in Kossovo.  Il 3% della popolazione bosniaca oggi si dichiara wahabita e varie operazioni di antiterrorismo hanno portato a centinai di arresti in Bosnia e Kossovo. L’Al Qaeda spagnola (responsabile degli attentati di Madrid) era composta di mujaheddin addestrati nei campi presso Zenica.

La medesima riflessione si estende alla posizione dei paesi del Caucaso: dall’Afghanistan, dove il ritiro delle forze internazionali non ha manifestamente contribuito alla stabilità dell’area o semplicemente a limitare il numero di vittime civili di guerra, affatto limitato; alla Cecenia e i suoi trascorsi di sangue, nonché Daghestan, Ossezia Settentrionale e così via.

Solo apparentemente in secondo piano pare sia collocato il conflitto in Libia, paese in balia della totale incontrollabilità e della guerra interna tra islamisti radicali. Dall’attacco di USA, Francia e Gran Bretagna nell’estate del 2011 con conseguente morte di Gheddafi, la situazione va irrimediabilmente peggiorando. Se non ne sentiamo parlare o non ne leggiamo, non significa che non esiste.

Quando ci chiediamo chi sono, da dove vengono, chi li finanzia, domanda, in verità spesso omessa dai media mainstream, ma anche evitata con acrobazie lessicali magistrali dalla politica, chiediamoci anche perché vengono in Occidente; perché da qui partono, fanno propria quella guerra e tornano per punirci? Perché continuiamo a destabilizzare tutto intorno a noi? Le domande non sono mai indiscrete, le risposte a volte lo sono (cit.), ma non facciamoci crollare i diritti addosso, non scontiamoli a beni ereditati con beneficio d’inventario.

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Sabiena Stefanaj
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