GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

Category archive

Medio oriente – Africa - page 16

2014, la devastazione dei diritti umani.

Medio oriente – Africa di

Un anno da dimenticare, il 2014. Almeno per quanto riguarda Amnesty International che ha divulgato il rapporto annuale in occasione dell’anniversario della scomparsa del suo fondatore, Peter Benenson, avvenuta il 25 febbraio di dieci anni fa. Un anno “devastante per coloro che cercavano di difendere i diritti umani e per quanti si sono trovati intrappolati nella sofferenza delle zone di guerra”. A sottolinearlo, Salil Shetty, segretario generale dell’associazione.

[subscriptionform]

[level-european-affairs]

Le 415 pagine che riassumono il racconto delle violenze consumate in 160 paesi del mondo non fa sconti sul giudizio espresso a proposito dell’atteggiamento adottato dai vari Governi. “Da Washington a Damasco, da Abuja a Colombo, i leader di governo hanno giustificato orrende violazioni dei diritti umani – evidenzia Shetty – sostenendo che era necessario commetterle in nome della sicurezza. In realtà, è semmai vero il contrario. Questo tipo di violazioni sono uno dei motivi principali per i quali oggi viviamo in un mondo tanto pericoloso. Non può esserci sicurezza senza rispetto dei diritti umani”. I dati sono allarmanti.

Negli ultimi quattro anni in Siria – continua – sono morte 200.000 persone, la stragrande maggioranza civili, principalmente in attacchi compiuti dalle forze governative. Circa quattro milioni di persone in fuga dalla Siria hanno trovato rifugio in altri paesi. Più di 7,6 milioni sono sfollate in territorio siriano”. Poi l’Iraq dove l’Isis impazza. “Il gruppo armato che si autodefinisce Stato islamico (Islamic State – Is, noto in precedenza come Isis), che in Siria si è reso responsabile di crimini di guerra, nel nord dell’Iraq ha compiuto rapimenti, uccisioni sommarie assimilabili a esecuzione e una pulizia etnica di proporzioni enormi. Parallelamente, le milizie sciite irachene hanno rapito e ucciso decine di civili sunniti, con il tacito sostegno del governo iracheno”.

Il rapporto prosegue citando le 2000 vittime palestinesi causate dall’assalto condotto nel luglio scorso dagli Israeliani a Gaza, i crimini di guerra compiuti da Hamas “sparando indiscriminatamente razzi verso Israele e causando sei morti”, i risultati del conflitto fra forze governative ed il gruppo armato Boko Haram in Nigeria esplicitati nel rapimento di 276 studentesse nella città di Chibok e gli orrori commessi dalle forze di sicurezza nigeriane che hanno ucciso e sepolto corpi in fosse comuni. Infine la Repubblica Centrafricana dove 5.000 sono le vittime della violenza settaria ed il Sud Sudan dove “decine di migliaia di civili sono stati uccisi e due milioni sono fuggiti dalle loro case, nel contesto del conflitto armato tra le forze governative e quelle dell’opposizione. Entrambe le parti hanno commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità”.

Amnesty rileva l’immobilità del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di fronte alle crisi siriana, iraquena, palestinese, israeliana e ucraina “neanche quando sono stati commessi crimini orrendi contro la popolazione civile da parte degli stati o dei gruppi armati, per proprio tornaconto o interessi politici”. Pertanto per riuscire a smuovere le acque “ora chiede ai cinque stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza di rinunciare al loro diritto di veto nei casi di genocidio o di altre atrocità di massa”. Dalle Nazioni Unite intanto arrivano i numeri del nuovo rapporto dedicato anch’esso alle violazioni dei diritti umani commessi da Isis in Iraq fra settembre e dicembre 2014. Il rapporto, realizzato dalla Missione delle Nazioni Unite di assistenza all’Iraq (UNAMI) e dall’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, parla di almeno 165 esecuzioni che hanno interessato i membri di varie “comunità etniche e religiose dell’Iraq, tra cui turkmeni, Shabak, cristiani, yezidi, Sabei, Kaka’e, Faili curdi, sciiti arabi, e altri”. Negli scontri fra i tagliagole e forze di sicurezza tante anche le vittime fra la popolazione civile nella quale si contano almeno 11.602 uccisioni e 21.766 ferimenti.

[/level-european-affairs]

Monia Savioli

Accordi Al Qaeda-Usa: rispunta il fantasma del Mullah Omar

Medio oriente – Africa di

Si torna a parlare di una vecchia conoscenza, il Mullah Mohammad Omar. Il capo spirituale di Al Quaeda che Tolo tv, l’emittente afghana, dichiarò morto – per poi smentire la notizia – nel 2011 per mano pakistana riemerge dall’oblio in occasione dei tentativi di arrangiare i negoziati di pace fra talebani e Stati Uniti in Qatar. L’evento, annunciato da una fonte del movimento islamista, riconosce al Mullah Omar un ruolo ancora determinante nella definizione degli accordi che potrebbero già vedere la luce entro pochi giorni, nel mese di marzo. Islamabad, Kabul, Pechino o Dubai sono le città candidate ad assumere il ruolo di quello che potrebbe diventare il negoziato del secolo, a chiusura del lungo percorso che dal 2001 ha visto opporre la forza armata internazionale alla comunità talebana in Afghanistan.

[subscriptionform]

[level-european-affairs]

 

Al Qaeda, oggi guidata da Ayman al Zawahiri, ha subito negli ultimi anni la mancanza di un potere organizzativo forte spaccandosi in mille rivoli. Insicurezze e precarietà sono state utilizzate dai seguaci dell’Isis – che ancora in Afghanistan rappresenta una debole presenza – per potersi infiltrare e accusare Al Qaeda di non essere sufficientemente in linea con la corretta dottrina jihadista, applicata al contrario, dal Califfato di Abu Bakr al Baghdadi. Le posizioni di Isis a questo proposito sono riassunte nel sesto numero di Dabiq, la rivista on line dello Stato islamico in lingua araba. Nell’articolo dal titolo “al Qaeda di al Zawahiri e la saggezza perduta dello Yemen”, i terroristi dubitano fortemente dell’esistenza in vita del Mullah Omar ritenuto da molti combattenti arabi provenienti dall’Afghanistan, morto o catturato. E criticano pesantemente il movimento di Al Zawahiri, reo di non aver “mai lanciato anatemi contro gli sciiti in Iraq”.

Dell’esistenza del Mullah Omar ha invece ricominciato a parlare una fonte diplomatica che da Kabul sottolinea come l’esito dei negoziati di pace con gli Usa “dipendera’ dal leader talebano, il Mullah Mohammad Omar”, impegnato, pare, in queste ore a consultare la leadership talebana. Intanto la presenza armata statunitense che oggi in Afghanistan impiega circa 10.000 soldati (altri 3.000 sono i militari forniti dalle nazioni partner della Nato) sarà ridimensionata ulteriormente nei prossimi mesi fino a d arrivare a circa la metà entro la fine del 2015. Una decisione, paventata dal Presidente Obama, che in realtà ha suscitato le preoccupazioni del Presidente afghano Ashraf Ghani preoccupato dell’arrivo, con l’estate, della stagione più pericolosa.

La recrudescenza ciclica, nei mesi estivi, degli attacchi terroristici talebani metterebbe a dura prova infatti la capacità di risposta delle forze afghane in parte “orfane” dell’assistenza fornita dalla coalizione. Obama quindi starebbe valutando la possibilità di un rientro meno traumatico anche per evitare che possano crearsi parallelismi con l’Iraq dove la rapida rimozione delle forze nel 2011 ha fatto ripiombare di fatto il paese nella destabilizzazione e soprattutto si possano aprire quei vuoti utili alle infiltrazioni delle frange terroriste.

Monia Savioli

[/level-european-affairs]

 

Donne curde e rivoluzione: oltre l'autodifesa

Medio oriente – Africa di

Tanto si è detto e scritto in questi ultimi quattro mesi sulle donne curde, in virtù di quello che accadeva a Kobane, in Rojava (Kurdistan siriano). Si è dato spazio soprattutto alle immagini delle donne curde, donne che solo in pochi conoscevano, per evidenziare la loro giovane età, la loro bellezza e il fatto che avessero imbracciato un’arma. Ma questo non è che l’aspetto più superficiale di quanto sta accadendo in quella parte di Medio Oriente. Sì, perchè le donne curde lì stanno facendo una rivoluzione, ma in tutti gli ambiti della società. E l’aspetto militare non è che uno fra questi, e non sarebbe nemmeno il più importante se non fosse per il particolare momento, che vede la necessità dell’autodifesa dagli attacchi che il popolo curdo subisce con rinnovato vigore da ISIS come prima da altri gruppi, per esempio Al Nusra, affiliato a Al Qaeda, ma anche da parte del regime di Assad.

Dietro i volti delle nostre donne, dunque, c’è di più. Il loro coraggio e la loro determinazione hanno aperto un varco che deve lasciare spazio a un’analisi più profonda del processo cominciato diversi anni fa con la formazione di un partito delle donne e delle unità femminili di difesa del popolo in seno al movimento curdo, soprattutto in Nord Kurdistan (Turchia). Il Partito dei lavoratori del Kurdistan e il suo leader Abdullah Öcalan, da 16 anni in prigione sull’isola di Imrali, hanno cominciato questo processo, con un paziente e sotterraneo lavoro tra le famiglie, le studentesse, le lavoratrici, per riflettere sul ruolo delle donne e sulla loro oppressione nella società tradizionale curda. Abbiamo studiato e analizzato la posizione della donna nelle diverse epoche storiche e nei diversi luoghi, per scoprire che la donna curda subiva una doppia oppressione, come popolo e come genere. Questo lavoro ha portato a una presa di coscienza delle donne, che si sono sempre più impegnate in tutti i settori della società, fino a acquisire coraggio e fiducia in se stesse e ad assumere un ruolo attivo.

Il punto di partenza delle donne, addirittura, ha dimostrato di essere privilegiato rispetto a quello degli uomini: a causa dell’oppressione di genere, l’assimilazione è stata meno invasiva. Quando per diversi motivi le donne non hanno studiato, non hanno imparato il turco o l’arabo, significa che non si sono assimilate al sistema, e che gestiscono dal basso la propria famiglia e il proprio villaggio autonomamente. Questo è il principio dell’autonomia democratica, un principio molto femminile dunque, contro l’ideologia dall’alto verso il basso dello stato-nazione.

Piano piano le donne sono arrivate a contare di più, sia in famiglia, sia in politica, sia nell’economia e nella società in generale. Si sono formate associazioni, cooperative, perfino agenzie di stampa di donne, per rispondere con azioni concrete a questa oppressione. Le donne si sono prese il loro posto anche nel sistema rappresentativo: il modello dell’autonomia democratica, che è quello che oggi i curdi stanno cercando di realizzare in Turchia come in Siria, non prevede la riproposizione di un nuovo stato-nazione con il suo portato di schiavitù e oppressione, bensì la realizzazione di ciascuno con le sue peculiarità insieme agli altri, che siano gruppi etnico-linguistici, religiosi, politici e di genere. Da qui il meccanismo della co-presidenza di genere: ossia non un presidente e un vice, ma due presidenti di cui un uomo e una donna. E in tutti gli organismi rappresentativi funziona così, non solo per il genere ma anche per le diverse componenti della società, musulmani, zoroastriani, cristiani, ezidi, arabi, turcomanni.

Contro questo sistema si è scagliato IS, lo Stato Islamico, che non tollera la diversità, e che vede la donna come una minaccia da rinchiudere, salvo averne paura sul campo di battaglia in quanto qualche religioso avrebbe interpretato che l’essere uccisi da una donna non farebbe entrare in paradiso dopo la morte. Ma anche il partito AKP di Erdoğan partecipa di questa ideologia, perché ha un’idea completamente subalterna della posizione delle donne nella società. Non a caso, tre donne curde sono state vittima di un brutale assassinio due anni fa a Parigi: con l’attiva parte dei servizi segreti turchi, sono state prese di mira in quanto donne, in quanto simbolo di questa rivoluzione che è l’autonomia democratica.

A livello pratico, nell’attività politica rivoluzionaria all’interno del movimento curdo, le donne hanno trovato uno spazio di libertà che ha permesso loro di conquistare rispetto e dignità e di affrancarsi dai ruoli subordinati tradizionali, e hanno saputo dimostrare di valere quanto e anche più dei loro compagni maschi. C’è ancora molto da fare ovviamente, perché la mentalità feudale saldata alla modernità capitalistica è molto pervasiva, nessuna e nessuno ne è totalmente immune, neanche le donne stesse.

Questo processo è ormai innescato, e sarà molto difficile tornare indietro. Ma il modello che propongono e per il quale queste donne hanno lottato e continueranno a lottare è la potenziale soluzione ai problemi dei popoli in Medio Oriente, e forse anche altrove. Autorganizzazione, partecipazione, autodifesa, democrazia, ecologia: molte di queste donne, una volta che – si spera presto – sarà finita la guerra, non vorranno tornare a vivere in un mondo che le discrimina e le esclude, ma vorranno continuare su questa strada: e questa è già una rivoluzione.

 Suveyda Mahmud

 

Nigeria, si allontanano le elezioni

Medio oriente – Africa di

La pressione dei terroristi di Boko Haram nel nord est del paese non permettono lo svolgimento delle elezioni presidenziali previste inizialmente per lo scorso 14 febbraio.

Gli analisti internazionali non si aspettano però che il governo nigeriano riesca a rispettare anche questa data vista la difficile situazione del paese e le basse aspettative sulla riuscita di azioni military a contrasto delle milizie fondamentaliste.

Le violenze perpetrate nel Nord Est da Boko Haram si sommano alle tensioni che caratterizzano le tornate elettorali della Nigeria rendendo di fatto impossibile garantirne lo svolgimento.

Le elezioni metteranno a confronto il Presidente uscente, il cristiano Goodluck Jonathan, del Partito Democratico Popolare (PDP) e l’ex Generale musulmano Muhammadu Buhari, leader del Congresso dei Progressisti (CP), che era stato sconfitto nelle precedenti elezioni presidenziali del 2011 proprio da Jonathan.

Proprio la ricandidatura dell’attuale president Jonathan ha aperto una stagione di tensioni e violenze tra le fazioni che si dicono di religion Cristiana e quelle di origine musulmana guidata dal leader Muhammadu Buhari. Il rinvio delle elezioni potrebbe esacerbare le tensioni tra i due gruppi.

In questo contesto continuare a ritardare l’appuntamento elettorale acuirebbe le tensioni tra I due gruppi in lotta per il potere.

A contrasto dell’attività di Boko Haram il governo Nigeriano ha schierato migliaia di uomini alla frontier con il CIAD dove risiedono le basi dei miliziani mettendo in crisi la loro tattica di penetrazione nel paese per rapidi colpi di mano.

Grazie anche alla decisione dell’Unione Africana che a support delle attività antiterrorism ha autorizzato il dispiegamento di una forza regionale composta da 7500 soldati con l’obiettivo prioritario di bloccare il sistema logistico di Boko Haram.

In questi giorni l’offensiva più significativa ha preso di mira Gombe, capitale dello Stato omonimo. I miliziani fondamentalisti  sono stati respinti  ma il pericolo di perdere di nuovo il controllo della città è molto alto.

 

 

Libia, il Califfato bussa alla porta dell’Italia

Medio oriente – Africa di

“Un califfato islamico alle nostre porte è ormai più di una possibilità. Abbiamo bisogno dell’aiuto dell’Onu per intervenire in Libia”. Si è espresso così il ministro degli Interni Angelino Alfano a proposito del rischio di una infiltrazione islamista in Italia. Ma queste parole, che fanno seguito alle dichiarazioni del titolare della Farnesina Paolo Gentiloni, appaiono in ritardo visto il collasso della Libia durante l’ultimo anno.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Intanto, nella notte del 16 febbraio, l’aviazione egiziana, in collaborazione con quella libica, ha bombardato gli obiettivi strategici dell’Isis a Derna in risposta alla decapitazione dei 21 compatrioti cristiani. “Il piano è di colpire i punti del Paese dove si è insediato lo Stato Islamico, ovunque essi siano”, ha dichiarato il Presidente dell’Egitto al Sisi.

Sirte conquistata il 13 febbraio dall’Isis, già in possesso di tutta la Cirenaica. Il rimpatrio degli Italiani il 16 febbraio. La situazione istituzionale della Libia fuori controllo, con il governo riconosciuto di al Thani contrapposto a quello di al Hassi. Il rischio sunnita, insomma, sta già bussando alla porta dell’Europa.

È probabile che l’Italia e i partner occidentali si siano resi conto del pericolo Isis troppo tardi. Roma si è “accorta” solo adesso che i terroristi, nascosti tra gli immigrati, potrebbero arrivare via mare nel sud del Paese.

Ma oggi la reazione deve essere differente rispetto a quella del 2011, quando la Francia decise di prendere d’assedio le truppe libiche per fare fuori il regime di Gheddafi. Da lì, ebbe iniziò un caos istituzionale e sociale nell’intero Paese che ci portiamo avanti fino ad oggi. La richiesta di Hollande di un’immediata convocazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu non deve proporre di nuovo quello scenario. Per questi motivi, Usa ed Unione Europea devono mettere sul piatto una soluzione che sia di ampio respiro per la Libia.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

La Libia in amministrazione fallimentare

Medio oriente – Africa di

A vederle oggi certe realtà politiche danno più l’impressione di essere gestite in regime di amministrazione fallimentare, piuttosto che governate da istituzioni vagamente riconosciute o che abbiano qualche parvenza di affidabilità sul lungo termine.

L’intensa crisi politica e sociale che sta interessando la Libia può essere ben descritta da alcuni dati: nell’anno appena concluso sono oltre 2500 le vittime ufficiali del confronto tra fazioni (a cui andrebbero aggiunte le morti causate dalle traversate del deserto, quelle in mare ecc.), milioni di armi di vario calibro sono a disposizione della popolazione (importate o sottratte alle riserve del passato regime) e centinaia le fazioni grandi e piccole che si contendono la loro fetta di territorio, con un livello di criticità dell’intera area del Sahel libico corrispondente a quello di una zona ad alto rischio. Per intenderci, nel rating che bolla uno Stato come fallito, la Libia è a metà, a un passo dal fallimento ufficiale.

[subscriptionform]

[level-european-affairs]

Non che in passato questo Paese godesse di condizioni di stabilità diffusa ed ordine sociale, ma certamente la crisi terminata con la morte di Gheddafi ha fatto esplodere una bomba ad orologeria tenuta sotto controllo da esercito, polizia e accordi locali che si sono rivelati fragili e dettati da questioni di convenienza politica. D’altra parte per lo stesso Gheddafi era divenuto ormai impossibile controllare un territorio di quasi due milioni di chilometri quadrati, in larga parte disabitato e desertico che si era trasformato in una delle bocche africane dalle quali fuoriuscivano profughi diretti verso le nostre coste: dalla sua capitale non a caso situata a nord, il Ra’is controllava ben poco, ma se non altro la sua autorità politica gli consentiva di mediare per quella porzione di Libia che valesse la pensa rappresentare, considerando il caos tribale del sud.  E comunque, era pur sempre un leader con cui volenti o nolenti si era tenuti a trattare. Proprio l’instabile meridione libico è al contempo compreso nella fascia centrale del deserto del Sahara e rappresenta il nord di quel buco nero, quella zona grigia che è il Sahel, riconosciuta come una delle aree più pericolose del mondo ed in cui non vi è praticamente alcuna forma di governo riconosciuto se non quello tribale, legato a traffici di armi, droga e persone.

Non solo a causa della sempre crescente presenza dei miliziani dell’ISIS ma anche per colpa di uno stato di instabilità che lo sta risucchiando, questo territorio rischia ogni giorno di più di entrare ad ogni titolo tra i cosiddetti Failed States, appellativo caro agli occidentali ma che descrive realtà statali collassate, non Paesi che da sempre si sono retti su una sorta di amministrazione fallimentare permanente (di fatto lo era con Gheddafi, di fatto lo sono molti altri governi tenuti in piedi con la forza). Queste debolezze sono alla base della facilità con cui le milizie dell’ISIS sono penetrate nella regione e sono riuscite a farsi largo tra le varie fazioni. Inoltre, in una nazione in guerra come la Libia affannata internamente da una tendenza all’implosione incontrollata ed esternamente dalla sfida al ribasso lanciata sul petrolio oltre che alle influenze degli Stati confinanti e non, il controllo della produzione di greggio resta un’incognita enorme ed allo stesso tempo un’importante partita non solo per i partner esterni. Da esso si sono scatenate rivolte interne, ammutinamenti, da esso dipende la credibilità del futuro governo o della futura coalizione nonché la tenuta del patto civile interno alla Libia stessa.

L’evoluzione della situazione che ha reso più potenti alcune fazioni (vedi i gruppi che controllano la zona di Misurata) non ha portato ad un indebolimento di altre, ragion per cui lo scontro fra ribelli pre e post Gheddafi è ancora molto vivo. Sono in molti a ritenere propria la fiaccola di paladini della libertà o a dichiararsi eredi della Primavera Araba e nessuno è disposto a cedere lo scettro, tanto più quando c’è di mezzo lo scontro tra esponenti dell’antico regime ed islamisti. A questo punto ci si è arrivati anche a causa agli scontri avvenuti nel 2014, che hanno visto come risultante un ricompattamento del fronte islamista da un lato (antichi gruppi fomentati dall’ondata fondamentalista), contrapposto al fronte anti islamista o progressista dall’altro. Questo rapido inasprimento delle violenze ha avuto tra le cause principali la lotta per il controllo del governo (di qui il fallito tentativo di golpe del generale Haftar). Ad oggi si contano oltre mille gruppi armati a contendersi il territorio o una qualche minima fonte di legittimità. A calmare la situazione non sono bastati i governi succedutisi in questi ultimi anni che, anzi, non hanno potuto fermare le guerre fratricide di chi da una parte o dall’altra si proclama erede della rivoluzione e non hanno potuto fermare neanche esecuzioni, rapimenti, omicidi che giornalmente si sono compiuti. Attualmente, nel rispetto della geografia del Paese, a ovest del golfo di Sidra nella capitale Tripoli si è insidiato un governo islamista e ad est del golfo, nella zona di Tobruk il governo di al Thani e del generale Haftar. Quest’ultimo ha un passato interessante, trascorso in parte negli USA dove emigrò per poi ritornare per il fallito colpo di stato e autoproclamandosi principale bastione contro le milizie islamiste. Accusato di essere agente della Cia, è però parte dell’esecutivo attualmente riconosciuto dalla comunità internazionale e più o meno apertamente appoggiato dal vicino Egitto (che dal canto suo teme la nascita di basi di addestramento dello Stato Islamico al confine con il suo Egitto).

In tutto il resto della nazione è anarchia, che rischia di fagocitare anche i due grandi competitors.

[/level-european-affairs]

 

Bangui: La presidente Samba-Panza visita la base EURFOR

Medio oriente – Africa di

Bangui, il capo dello Stato Centrafricano ha visitato la base della forza militare dell’Unione Europea EUFOR RCA, alla quale l’Italia partecipa con un contingente dell’Esercito.

La presidente era già stata a Bangui per l’inaugurazione del ponte dell’Unità  due settimane prima e costruito dai genieri del 2° reggimento alpini. Nel corso della visita, la massima autorità Centrafricana ha incontrato i contingenti che costituiscono EUFOR RCA.

[subscriptionform]

[level-european-affairs]

Presso lo stand italiano – dopo un’esposizione dei mezzi del genio e del sistema d’arma Hitrole montato sui blindati Lince – la Presidente ha ringraziato i genieri per la realizzazione del ponte che ha consentito di riunire tre zone divise dal conflitto scoppiato nel 2013, oltre che per la riabilitazione di numerose strade della capitale e per i lavori di bonifica della rete idrica condotti l’anno scorso dall’8° genio paracadutisti.

Le  opere realizzate dalla missione a Bangui sono di importanza vitale per la pacificazione della città che oltre la bolla di sicurezza vive ancora fortissimi problemi di sicurezza. La realizzazione di nuove opere viarie e infrastrutture di collegamento come il ponte permettono di rendere più fruibili e quindi sicure arre importanti della città.

Importanza che è stata sottolineata al  termine della visita alla base dalla Presidente  Catherine Samba-Panza che salutando il comandante della forza europea, il  generale francese Jean-Marc Bacquet e i rappresentanti delle 13 nazioni che la costituiscono, ha dichiarato  « l’accettazione di tutti i militari europei da parte della popolazione in zone della capitale in cui le relazioni tra le diverse comunità erano critiche, un’accettazione acquisita privilegiando il dialogo all’uso sistematico della forza.”

[/level-european-affairs]

Nigeria, Boko Haram: il report di Msf

Medio oriente – Africa di

I ripetuti attacchi di Boko Haram tra 2014 e 2015 hanno provocato una preoccupante emergenza umanitaria nello Stato del Borno e in altre regioni della Nigeria. Malattie, abusi sessuali e malnutrizione hanno colpito soprattutto donne e bambini. European Affairs ha chiesto a Isabelle Mouniaman, Program Manager di Medici Senza Frontiere in Nigeria, quali sono le condizioni sociali e psicologiche incontrate nell’attività in questo Paese.

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
Dove e da quanto Msf opera in Nigeria?

“Msf è in Nigeria dal 1996. Operiamo in diverse parti del Paese. Nello Stato di Jigawa con un centro di soccorso ostetrico e per la cura della fistola. Nel Sokoto dove curiamo l’avvelenamento da piombo e dove siamo impegnati nel “Noma” (chirurgia ricostruttiva dopo un’infezione facciale cancrenosa). Nello Stato di Rivers (Port Harcourt) con un programma di assistenza per le vittime di violenze sessuali. Oltre a questi progetti, Msf sta combattendo anche altre emergenze (epidemie di morbillo e colera, disastri naturali). Nel corso dell’ultimo anno abbiamo trattato più di 150 mila casi di colera negli stati del Borno e del Bauchi. Msf ha poi ricominciato a lavorare nel Borno nell’aprile 2013, dopo il primo attacco a Baga, ma, per ragioni di sicurezza, il team si è ritirato dalla regione. In questo momento, lì è presente un gruppo attivo dal maggio 2014. Le attività sono incentrate sulle cure mediche per circa 30 mila sfollati dislocati nei tre maggiori campi di Maiduguri (dalle 10 alle 15 mila persone in ogni campo)”.

Dopo l’insediamento di Boko Haram, qual è la condizione dal punto di vista sociale nello Stato del Borno?

“Fino dai maggiori attacchi di Boko Haram dall’inizio del 2014, le condizioni di vita della popolazione del Borno sono diventate sempre più miserabili. La gente ha iniziato a fuggire a Maiduguri, lasciando le proprie case e i propri averi nei loro villaggi. Qualcuno di loro ha tentato saltuariamente di tornare nei propri campi, ma oggi questo non è più possibile a causa dell’insicurezza e della presenza della rivolta in quell’area”.

A quanto ammonta il numero dei rifugiati?

“Secondo la National Emergency Management Agency (Nema), almeno 400mila persone hanno cercato rifugio a Maiduguri. Forse anche di più, ma dobbiamo prestare attenzione alle cifre reali. Ci sono circa 10 campi in città, ma la stragrande maggioranza degli sfollati risiede in centri di accoglienza”.

Eventi traumatici, malnutrizione, malattie: quali sono le condizioni in cui versano donne e bambini?

“Nel team medico di Msf stiamo assistendo soprattutto donne e bambini. Donne incinte e bambini malnutriti vengono seguiti con l’ausilio di terapie speciali. Malaria e infezioni respiratorie: sono queste le malattie più presenti oggi. I pazienti in condizioni più critiche vengono mandati nell’ospedale universitario di Maiduguri. Molti sfollati, inoltre, si sono stabiliti in edifici pubblici come le scuole. Questi rifugi temporanei, però, stanno raggiungendo il loro limite in termini di quantità d’acqua potabile e servizi sanitari. Il rischio di una nuova epidemia di colera è tuttora presente a causa del sovraffollamento e delle pessime condizioni igieniche”.

Le imminenti elezioni stanno contribuendo all’incremento delle violenze nel Paese?

“|Le elezioni, i nuovi attacchi di Boko Haram e il coinvolgimento di forze militari internazionali al confine sono potenzialmente preoccupanti per il futuro di tutto il Paese. Pertanto, Msf ha pronto un eventuale piano d’azione per gli altri stati che potrebbero essere coinvolti da violenze. Nello Stato del Rivers e nella Nigeria meridionale, Msf stano predisponendo una unità d’intervento in collaborazione con le autorità locali. Negli Stati del Borno, di Nagarawa e Taraba, abbiamo intenzione di installare qualche accampamento medico avanzato, se necessario. E supportare, attraverso donazioni, le sale operatorie dei maggiori ospedali. In tutte queste aree, verrà inoltre creato un avanzato sistema per il ricovero dei pazienti nei centri di assistenza sanitaria. Nell’attesa, Msf ha addestrato i dottori provenienti dal Ministero della Salute dello Stato del Borno, così come le nostre equipe, alla gestione delle numerose vittime”.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

Nigeria, morti 200 miliziani di Boko Haram. Ma il Paese resta nel caos

Medio oriente – Africa di

La controffensiva dell’esercito del Ciad contro Boko Haram, iniziata a gennaio in Camerun e proseguita ora in Nigeria, sta mettendo l’organizzazione di Abubakar Shekauin difficoltà.L’esercito regolare di Lagos sembra incapace di proteggere la popolazione.E, intanto, un silenzioso Goodluck si avvia verso il secondo mandato

[subscriptionform]
[level-european-affairs]
200 miliziani di Boko Haram sono stati uccisi in Nigeria dall’esercito del Ciad il 3 febbraio. Questo blitz segue quello del 31 gennaio in Camerun, quando le forze speciali di N’Djamena hanno ucciso altri 123 guerriglieri islamisti. Azioni che hanno ottenuto il benestare del segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, favorevole alla formazione di una forza militare di 7500 unità che, sotto l’egida dell’Unione Africana, combatta l’avanzata del Califfato di Abubakar Shekau.

Saccheggio e distruzione di villaggi, uccisioni di massa: sono la costante di una linea, quella di Boko Haram, che punta a stabilizzarsi in modo definitivo presso lo Stato di Borno (nord della Nigeria), nonostante la mancata conquista della capitale Maiduguri, espandendo i confini del Califfato a Camerun, Ciad e Niger.

La strategia seguita dal Shekau da agosto ad oggi punta a seguire per filo e per segno lo Stato Islamico proclamato in Iraq e Siria da al Baghdadi. L’affiliazione del Califfato all’Isis, la creazione di un’entità parastatale, l’utilizzo della medesima bandiera, la lettura del Corano in una moschea da parte del leader, i prigionieri vestiti di arancione. Sono questi alcuni dei segni più riconoscibili di un avvicinamento ai finanziamenti stanziati dall’organizzazione sunnita a chi si arruola per espandere le proprie insegne in tutto il mondo arabo.

Ma perché Boko Haram ha scelto lo Stato di Borno? Perchè stiamo parlando della parte settentrionale della Nigeria, ovvero la più povera ed arretrata, a differenza del sud sviluppato, coperto economicamente dallo sfruttamento delle risorse petrolifero, ma pervaso anche ad una corruzione endemica. Un nord dove, già prima dell’agosto 2014, era in vigore la sharia e, quindi, più penetrabile. E non protetto da un esercito che appare, al contrario di quello del Ciad, impreparato a difendere la propria popolazione.

Come contraltare, abbiamo di fronte l’assordante silenzio dell’intera classe politica nigeriana, a cominciare dal presidente uscente Jonathan Goodluck. Non solo, il crescente clima di terrore provocato da Boko Haram sembra spingere il Capo dello Stato ad un’imminente rielezione nelle presidenziali del 14 febbraio. Ma se così avvenisse, si aprirebbe un precedente nuovo per Lagos: un secondo mandato consecutivo di ispirazione cristiana in contrasto con l’altra fede religiosa del Paese, l’Islam.

Giacomo Pratali

[/level-european-affairs]

La caduta del Califfato a Kobane, la città liberata dai curdi

Ben 4 mesi di combattimenti senza tregua e i peshmerga siriani sono riusciti a liberare Kobane da terroristi dell’ISIS. Era dal 16 settembre  scorso che la città resisteva all’assedio dei jihadisti sunniti. Lo ha riferito il 27 gennaio scorso l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, il quale ha precisato che i resistenti curdi ormai hanno liberato quasi l’intera area della città curda di Kobane ai confini con la Turchia.

Proprio nel Kurdistan turco numerose sono state le  manifestazioni di festa alla diffusione della notizia. In migliaia hanno riempito le piazze con canti e balli, in uno spirito di grande appartenenza alla causa della lotta allo Stato Islamico e alla resistenza eroica dei combattenti peshmerga.

[subscriptionform]

[level-european-affairs]

Alcune conseguenze sono già tangibili in seguito alla liberazione di Kobane. In primo luogo, la grande attenzione mediatica che giustamente si è guadagnato l’intero popolo curdo tramite i suoi combattenti nelle fila della Resistenza. Un umore gelido soffia da Ankara e gli eventi  non smuovono affatto il suo leader. Erdogan lo ha dichiarato senza mandarle a dire, “non c’è nulla da festeggiare!”.

La prospettiva del Grande Kurdistan, il tanto agognato stato curdo che s’andrebbe a estendere tra Turchia, Siria, Irak e Iran rimane improponibile per Erdogan. “chi costruirà adesso le città distrutte?” ha domandato sarcastico riferendosi ai bombardamenti delle truppe americane che hanno aiutato i combattenti curdi sul territorio. Kobane è una città che conta circa 45mila abitanti.Eppure, gli strike americani hanno colpito più duro qui che a Raqqa, dove si ritiene che abbia passato molto tempo anche lo stesso capo di IS, Abu Bakr Al Baghdadi.In molte giornate di bombardamenti, Kobane è stato addirittura l’unico bersaglio degli aerei della coalizione.

D’altronde, il contributo turco alla lotta è stato unicamente quello di far passare i peshmerga curdi lasciando il confine aperto a seguito delle pressioni inderogabili della comunità internazionale. Erdogan sogna la caduta di Bashar Al Assad in Siria per espandere la sua influenza con un governo filoislamico che bloccherebbe ogni possibilità ai curdi di costituirsi a Stato. Fa pensare la notizia confermata dall’intelligence turca che parla di numerose cellule jihadiste “dormienti” in Turchia. Fanno pensare anche i movimenti quasi indisturbati di profughi siriani che dai confini turchi, attraversano il paese senza quasi venire intercettati giungendo numerosi nei Balcani.

Eppure, forse la considerazione più pregnante da portare sul tavolo della strategia nella lotta al Califfato sta in quella locuzione inglese del “boots on the ground” perché è esattamente quello che hanno fatto i peshmerga siriani del YPG (Foze di Difesa del Popolo): combattere per una porta, un vicolo, una piazza, una città. La resistenza dei curdi, non finisce a Kobane.

[/level-european-affairs]

Sabiena Stefanaj
0 £0.00
Vai a Inizio
×