GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Medio oriente – Africa - page 13

Ciad: vietato il burqa

Medio oriente – Africa di

“I burqa in vendita nei mercati verranno ritirati perché utilizzati dai terroristi per camuffarsi”. Così il premier del Ciad Deubet ha annunciato alla stampa il divieto di indossare il velo al fine di combattere l’avanzata di Boko Haram, dopo gli attentati suicidi avvenuti nella capitale N’Djamena. Una norma che “non è contraria ai principi dell’Islam”, afferma dal canto suo il Consiglio Superiore per gli Affari Islamici dello Stato africano.

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Dopo l’offensiva a quattro, denominata MJTF (Multinational Joint Task Force), assieme a Nigeria, Niger, Camerun e Benin, partita a gennaio, l’organizzazione terroristica è passata al contrattacco. E, dopo essere tornata in azione nello Stato di Borno, adesso l’offensiva jihadista ha puntato dritto il Ciad.

Il Califfato in Africa, proclamato nel 2014 da Boko Haram, al netto di qualche battuta d’arresto, sta maturando e sta assumendo un’organizzazione parastatale e paramilitare in grado di mettere in difficoltà gli eserciti regolari. E, dopo la Nigeria, anche il Ciad, alleato strategico per l’Occidente, si trova a dover combattere una battaglia interna.

Il 15 giugno scorso, infatti, quattro attentatori suicidi hanno causato la morte di quasi 30 persone e un centinaio di feriti a N’Djamena, la capitale del Ciad. Gli uomini di Boko Haram, fattisi esplodere nei pressi del commissariato e dell’accademia di Polizia, hanno colpito per la prima volta la principale città del Paese.

Non solo. A cavallo tra maggio e giugno, presso l’isola di Choua, nel lago di Ciad, si è consumata una cruente battaglia tra le truppe jihadiste e l’esercito, riuscito in parte a fermarne l’avanzata. Alla fine, 37 sono stati i morti totali, 33 dei quali riconducibili a Boko Haram.

Giacomo Pratali

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Nigeria: tra crisi finanziaria e Boko Haram

Medio oriente – Africa di

Il presidente Buhari parla di milioni di dollari di debiti e di casse dello Stato vuote. Intanto, l’esercito perde terreno nello Stato del Borno e i jihadisti tornano a colpire.

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La Nigeria è sull’orlo del baratro. La crisi economica di questi ultimi mesi, dovuta al crollo del prezzo del petrolio, principale risorsa per l’erario, sta mettendo in ginocchio il Paese africano. Le casse statali sono “virtualmente vuote e per il Paese questo è una disgrazia”, ha dichiarato il neopresidente Buhari di fronte ai giornalisti. “La Nigeria ha milioni di dollari di debiti:gli impiegati pubblici e anche i dipendenti federali non stanno percependo i propri salari”, ribadisce ancora.

Rieletto a discapito del capo dello Stato uscente Goodluck, Buhari si trova di fronte ad un Paese destabilizzato anche a causa del terrorismo. Se a febbraio l’esercito regolare era riuscita a riconquistare Maiduguri, capitale dello Stato del Borno, adesso i miliziani di Boko Haram sono passati al contrattacco. E la violenza nel nord-est della Nigeria è tornata a livelli allarmanti.

Infatti, solo poche ore fa, due ragazze si sono fatte esplodere nei pressi di una moschea di Maiduguri, affollata nell’orario di preghiera: il bilancio è di 30 morti e di decine di feriti. Secondo gli operatori internazionali impegnati sul posto, i miliziani di Boko Haram utilizza le centinaia di donne e ragazze rapite nell’ultimo anno proprio in questi attacchi kamikaze, seppure contro la loro volontà.

E, a questa nuova escalation di violenza, si aggiungono le bombe esplose in un accampamento di Boko Haram nello Stato del Borno mercoledì 17 giugno. Fonti locali parlano addirittura di decine di morti e di oltre 50 feriti.
Giacomo Pratali

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Libia: buona la quarta?

Tripoli dice sì con riserva alla bozza proposta da Leon. Daesh, questione migratoria e crisi finanziaria rendono sempre più necessario un accordo tra i due governi. La stampa internazionale, tuttavia, sottolinea l’incapacità del mediatore Onu e dei Paesi occidentali di individuare quale dei due esecutivi sia quello più adatto ad arginare l’avanzata dello Stato Islamico e arrestare l’imponente flusso di persone dirette verso l’Europa.

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Un timido passo in avanti. L’accordo tra le due parti in causa sembra essere più vicino. Questo ci dice la risposta affermativa, seppure con la “necessità di apportare alcune modifiche”, fatta pervenire al mediatore Onu il 17 giugno dal governo di Tripoli. Un’apertura ad un “Governo di Accordo Nazionale” assieme ai rappresentanti di Tobruk, come recita il documento contenente 69 articoli, che è già una notizia visti i continui contrasti tra i due esecutivi.

La paura dell’avanzata dello Stato Islamico, le pressioni dell’Unione Europea sulla questione migratoria, la ormai più che probabile bancarotta finanziaria della Libia, pongono i due governi ad una sola scelta possibile: l’accordo.

La quarta bozza, presentata ad Algeri da Leon ad inizio giugno, parte dalla precedente, ma cerca di dare più spazio alle istanze del governo filomusulmano di Tripoli. Permane la formazione di un’unica assemblea legislativa a Tobruk, ma si fa spazio una Presidenza del Consiglio tripartita, composta da un presidente e da due vice: un check and balance a favore della giusta rappresentanza delle due parti in causa.

Se comunque i due governi continuano a tirare la giacca a Leon per arrivare ad una soluzione favorevole per uno piuttosto che per l’altro, il nodo da sciogliere gira attorno alla figura del generale Haftar. Vero leader della fazione riconosciuta a livello internazionale e sostenuto dal presidente egiziano Al Sisi, viste le accuse di crimini contro i civili a suo carico, suscita non poco imbarazzo in Occidente.

E se è vero che è necessario trovare un interlocutore unico in Libia per arginare l’avanzata dello Stato Islamico e per regolamentare i flussi migratori diretti in Europa, il vero dubbio è se non solo su Haftar, ma sul governo stesso di Tobruk, sulla sua reale capacità di incidere sulla popolazione (è stato votato dal solo 25% degli aventi diritto).

Come rilanciato di recente dal Financial Times, finora Leon, nel corso di questi quasi infruttuosi negoziati, Unione Europea e Paesi occidentali non hanno capito che il vero epicentro della crisi della Libia ruota attorno a Tripoli e alla Tripolitania, la regione dove si concentrano la maggior parte degli scontri tra le milizie del Daesh e le truppe filoislamiche legate ai Fratelli Musulmani, sostenitori del governo della capitale.

In questa ottica, i governi di Tripoli e Tobruk dovrebbero avere pari riconoscimento presso il consesso internazionale. Questo perché se Tobruk viene considerato legittimo, Tripoli, da parte sua, ha in mano quello che è il reale polso del Paese. È quindi in questo direzione che la quarta bozza proposta da Leon deve andare.

In questo scenario, è assordante il silenzio dell’Unione Europea. Incapace di portare avanti una reale politica dell’accoglienza dei rifugiati e della regolamentazione dei migranti in arrivo da Africa e Medio Oriente, stenta a fare sentire la propria voce nel contesto libico. E riesce a porsi come arbitro della necessaria pace nel Paese che, alla fine dei conti, altro non è che un accordo tra Stati: Arabia Saudita, Egitto e Russia (pro Tobruk) e Turchia e Qatar (pro Tripoli).
Giacomo Pratali

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Dei – Egitto: da leader africani ok a creazione zona libero scambio

Dopo cinque anni di negoziati, i leader di 26 Paesi africani hanno firmato a Sharm El Sheikh l’accordo per la creazione di una Zona di Libero Scambio Tripartita (TFTA), che coprirà meta’ del continente africano. L’accordo integra le tre aree di libero scambio già esistenti e diventerà il più grande mercato unificato del continente.

L’operazione dovrebbe inoltre aprire la strada nel 2017 ad un’area di libero scambio per tutta l’Africa, comprendente circa un miliardo di persone. La TFTA coprira’ un’area che va dal Cairo a Capetown e rappresenterà il 60% del Pil del continente africano, il 57% della sua popolazione, con un peso pari al 2% degli scambi commerciali globali. La TFTA avrà infine tre pilastri chiave: integrazione del mercato, sviluppo infrastrutturale e sviluppo industriale.

I volti dell’attivismo

Medio oriente – Africa di

“Buongiorno” o “buonanotte dalla Palestina occupata dal mostro nazista israeliano”. E’ con questo saluto che Samantha Comizzoli, attivista volontaria per i diritti umani originaria di Ravenna, ama introdurre i messaggi lanciati tramite la sua pagina Facebook. Il suo impegno è senza tregua. Quarantacinque anni, originaria di Ravenna dove si è candidata a sindaco alle ultime amministrative con la lista “Ravenna Punto a Capo”, da un anno e quattro mesi si trova in Palestina. Il suo obiettivo è di documentare tramite post, foto, video e filmati (fra cui il film dal titolo “Israele, il cancro” realizzato con immagini di scontri reali avvenuti in Palestina e interviste ai loro protagonisti) diffusi tramite il blog e la pagina FB che gestisce, le azioni condotte dai militari israeliani negli insediamenti palestinesi. Tramite le sue testimonianze si entra in una dimensione che non da tregua. Rapimenti, incursioni notturne, violenze di vario tipo. Samantha è stata fermata sabato a Nablus in Cisgiordania, durante una manifestazione, dalla polizia israeliana. La sua carta di identità era contraffatta ed ora, dopo aver iniziato lo sciopero della fame ed essersi dichiarata prigioniera politica, sarà probabilmente espulsa. L’8 giugno scorso ha affidato alla sua pagina Facebook il compito di divulgare il suo appello, affinchè tutti possano conoscere la sua verità. A spronarla, ciò che era successo tre giorni prima, il rinvenimento a casa propria di “qualcosa che non deve assolutamente esserci” e di cui fortunatamente è riuscita a sbarazzarsi prima che potesse arrivare la Polizia e con essa, un arresto sicuro. “Mi chiamo Samantha Comizzoli e sono entrata in Palestina, tramite volo a Tel Aviv, l’11 febbraio 2014 – scrive. “Ho avuto un “visto turistico” dal terrorista Israele per 3 mesi. Dopo mi è scaduto e sono diventata “illegale” o “clandestina”. Sono qui con la mia faccia e il mio nome e ho sempre reso tutto pubblico.
Avevo la possibilità, forse, di regolarizzare la mia presenza qui, ma non l’ho fatto. Non l’ho fatto perchè non vado dai nazisti a chiedergli “un permesso” e non vado nemmeno dai loro amici (l’autorità palestinese) a chiedere il permesso di esistere dove cazzo mi pare. E’ una forma di Resistenza, personale certo – aggiunge – ma sono qui dopo un anno e 4 mesi alla faccia del mostro. Questo ha portato molte conseguenze: i primi tempi salivo sul service per fare anche solo 10 km con le chiappe strette perchè avevo paura che mi beccassero, dopo ho iniziato a non dare più il passaporto ai checkpoint volanti e a rispondergli sui denti, ogni volta che vado in mezzo agli scontri il timore non è che mi sparino, ma che mi prendano. Mi è andata sempre bene? No, non credo, Israele non è stupido. E’ una mente più complessa di quanto uno possa immaginare”. Perchè sia riuscita sempre a cavarsela, almeno fino a quando non è stata fermata, l’attivista ravennate se lo spiega in questo modo. “Inizio a pensare che la motivazione è più agghiacciante: Israele ha dimostrato e mi ha dimostrato che anche se uno sacrifica la propria vita, sta qui con il suo nome e la sua faccia e pubblica tutta (ma veramente tutta) la merda che accade; non cambia nulla. Ha dimostrato che è tutto inutile e che il mondo se ne fotte e non ferma Israele. Ho deciso di scriverlo adesso tutto questo perchè 3 giorni fa purtroppo è accaduta una cosa…. Qualcuno mi ha messo in casa qualcosa che non deve assolutamente esserci. Me ne sono liberata quando ho capito, subito, il giorno dopo e sono stata, sì, fortunata che i soldati non sono venuti quella notte. Questo però mi ha portato a pensare che abbiano deciso di venire qui, ma soprattutto che prima di venire a prendermi vogliono screditarmi e distruggere il mio lavoro. Così anche il Governo italiano sarà fuori dall’imbarazzo. Io sono pronta – aggiunge – non ho paura; prima però ho voluto scrivere tutto questo affinchè rimanga scritto e voglio aggiungere che mentre lo scrivo sto bevendo una birra e anche che ho fumato in strada varie volte e che ho anche avuto storie d’amore. In quest’anno di prigionia non mi sono mai privata della vita e della mia libertà mentale. Ho amato, sorriso, vissuto, scritto sempre la verità. Ho resistito più di un anno, e di notte ho iniziato a dormire perchè non ho paura”. Qualche giorno prima, la Comizzoli è stata ferita durante una manifestazione organizzata per celebrare i 67 anni della Nakba, la “Catastrofe”, data che segna l’espropriazione della patria palestinese del 1948, mentre stava procedendo con le braccia aperte verso il checkpoint israeliano di Howara. A colpirla due rubber bullet, proiettili di gomma utilizzati nelle armi antisommossa. L’11 giugno, una paio di giorni prima di essere fermata e imprigionata nel carcere israeliano dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, la Comizzoli aveva avuto modo di raccontare nelle pagine del suo blog un’altro episodio. “Questa è una storia orrenda che ho vissuto oggi – scrive. “Ne sono testimone e in parte partecipe. Vi prego di leggerla, farla leggere e divulgarla perchè non ci sono giornalisti che la conoscono, ma va assolutamente fatta conoscere. Avevo appuntamento con una mia amica a casa sua, nel villaggio di Assira Al Qabilia, Nablus. Volevamo parlare di un piccolo progetto per i bambini che forse inizierò presto, il tutto bevendo un caffè. Con me è venuto un ragazzo italiano che è qui in vacanza. Siccome questo ragazzo non parla né inglese né arabo, ha colto l’occasione per farsi una passeggiata nel villaggio mentre noi parlavamo. Ha iniziato a camminare su, verso la collina, in mezzo alle case del villaggio, e un paio di bambini che l’hanno visto hanno iniziato ad avvicinarsi per fargli compagnia. Nessun dialogo ovviamente, se non a gesti. Si è fermato quando finiva il villaggio di Assira e ha scattato 3 foto alla cima della collina (dal quale era ancora molto distante), dove c’è l’insediamento illegale di Yhitzar. E’ tornato, io avevo finito, abbiamo preso il service e siamo tornati a Nablus. Quando siamo arrivati al checkpoint di Howwara abbiamo visto molti soldati con le jeep, pronti ad entrare in azione (e ho mandato un tweet). Scesi dal service ricevo una telefonata della mia amica, agitata, che mi dice di tornare subito indietro perchè ci sono lì i soldati israeliani e vogliono il ragazzo italiano che ha scattato le foto. Prendiamo un taxi per far prima e torniamo indietro al villaggio di Assira Al Qabilja. Nel frattempo davanti alla casa erano arrivate molte donne del villaggio. La mia amica ci ha fatti tornare di corsa perchè: i soldati israeliani erano piombati nel villaggio con 10 jeeps e avevano preso uno dei due bambini che aveva tentato un dialogo con il ragazzo italiano e volevano anche l’altro bambino se il ragazzo italiano non si fosse consegnato ai soldati.Il bambino che avevano preso ha 15 anni”. Dopo ore farcite di sigarette e caffè e tentativi di sbloccare la situazione, finalmente il bambino viene rilasciato. “Il problema non sono quelle 3 foto del cazzo che ha fatto l’italiano – conclude la Comizzoli. “Il problema è che qui un bambino di 15 anni non è nemmeno libero di camminare su una strada perchè deve sempre temere di essere rapito dai soldati israeliani. Il ragazzo italiano è capitato, secondo logica, in mezzo a qualcosa che volevano già fare oggi (le jeeps e i soldati erano pronti ad Howwara). Così, per buttare anche un po’ di merda sulla presenza degli internazionali e su chi stringe contatti con loro, hanno pensato bene di inscenare questa storia. Se non fosse così, pensateci bene, non sarebbero almeno venuti a prendersi la macchina fotografica o a chiedere di cancellare le foto? Anche questa storia, raccontatela ai vostri figli e ditegli che i mostri esistono”.

 

Libia: nuova missione di Leon

Medio oriente – Africa di

Ad Algeri sono in corso i colloqui di pace tra le fazioni in lotta. L’avanzata dell’Isis e l’emergenza umanitaria nel Mediterraneo rendono sempre più necessaria la costituzione di un governo di unità nazionale.

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“Nessuna delle due parti è sufficientemente forte per vincere”. Con queste parole, Bernardino Leon ha aperto la due giorni di colloqui di pace (3 e 4 giugno) ad Algeri. Un ennesimo incontro tra il governo di Tobruk, sostenuto dalla comunità internazionale, e quello di Tripoli, appoggiato da Qatar e Turchia. Per porre freno all’avanzata dell’Isis in Libia, le due parti sembrano intenzionate a “raggiungere una soluzione politica”, sottolinea il delegato della Nazioni Unite.

Dello stesso tenore, le parole di Abdelkader Messahel, Ministro per gli Affari Magrebini e Africani dell’Algeria: “Appare ormai chiaro che ci sia la necessità di unire gli sforzi e di farli convergere per capitalizzare i risultati ottenuti finora nel tentativo di giungere quanto prima, alla formazione di un governo di unità nazionale in grado di farsi carico della missione essenziale e urgente di affrontare il terrorismo e di creare le condizioni – aggiunge – per garantire una transizione serena verso la creazione di istituzioni democratiche e stabili, condizioni essenziali di uno Stato sovrano e forte”.

Sul fronte interno, intanto, continuano gli attacchi terroristici. Come quello del 31 aprile avvenuto ad ovest di Misurata, responsabile dell’uccisione di cinque miliziani di Fajr Libia, e rivendicato con un tweet dal Daesh. Anche se islamisti, quest’ultimi hanno pagato la vicinanza all’esecutivo di Tripoli e il controllo dei pozzi di petrolio nella provincia di Jaffa. Lo Stato Islamico punta così alla presa della zona centrale della Libia al fine di isolare le truppe di Alba Libica presenti a Sebha, situata nella parte meridionale del Paese.

Anche il fronte internazionale è cupo. Dopo l’apertura a sorpresa del governo di Tripoli in merito ad una missione Ue contro gli scafisti, Ibrahim Dabbashi, Ambasciatore della Libia all’Onu, ha per il momento chiuso a questa eventualità: “Fino a quando l’Unione Europea e alcuni altri paesi non ne discuteranno con il legittimo governo, in quanto unico rappresentante del popolo libico, non ci sarà alcun consenso da parte nostra”.

La frase del rappresentante del governo di Tobruk rende ancora più importante il lavoro di Leon. La spinta verso il governo di unità nazionale conserva un duplice scopo: fermare l’avanzata dell’Isis e giungere un accordo tra Libia e comunità internazionale per la lotta al traffico di esseri umani all’interno del Mediterraneo.
Giacomo Pratali

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Libia: governo Tobruk colpisce petroliera a largo di Sirte

L’esecutivo riconosciuto a livello internazionale si è reso protagonista di una azione militare simile a quella contro il mercantile turco l’11 maggio scorso. I servizi segreti britannici, intanto, rivelano che la Francia e l’Italia sono diventate le corsie preferenziali dei foreign fighters che si arruolano tra le fila dell’Isis in Libia. Sullo sfondo, a sorpresa, si prospetta un intervento di ispezione e sequestro per i barconi partenti dalle coste libiche, sotto l’egida delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea.

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Ancora un bombardamento, stavolta contro una petroliera vicino a Sirte. Dopo l’attacco contro un mercantile turco l’11 maggio scorso, alcuni caccia del governo di Tobruk hanno colpito la nave che, secondo l’esecutivo riconosciuto a livello internazionale, stava trasportando il greggio per un centrale elettrica in mano ad un gruppo terrorista vicino al governo di Tripoli. In più, c’era il sospetto che l’imbarcazione trasportasse con sé armamenti per i ribelli. Due componenti dell’equipaggio sono rimasti feriti.

Intanto, i foreign fighters, secondo il rapporto pubblicato dall’intelligence britannica, hanno sviluppato una nuova strategia per arruolarsi nello Stato Islamico in Libia. Per evitare i rigidi controlli aeroportuali, questi aspiranti jihadisti giungono in Francia via mare e, una volta in Italia, partono alla volta di Tunisi via traghetto. Da qui, poi, raggiungono Sirte e Derna, le città controllate dall’Isis.

Oltre alla partita dei combattenti di origine occidentale reclutati dal Califfato, l’altro fronte caldo è quello relativo all’immigrazione. Mercoledì 20 maggio, il governo di Tobruk ha spedito una lettera alle Nazioni Unite in cui apre ad un’azione comune assieme all’Unione Europea “al fine di sviluppare un piano d’azione per affrontare la crisi degli immigrati nel Mediterraneo”.

Una sostanziale ammissione di “incapacità della Libia di ridurre le migrazioni illegali”. Ma anche parole importanti, che vanno ad assecondare quello che la risoluzione Onu in materia dovrebbe dire: no al bombardamento e sì all’ispezione dei barconi prima che partano dalla Libia.

Una missione che, secondo fonti diplomatiche, dovrebbe avere il consenso di tutte le
parti in causa libiche e, quindi, anche del governo di Tripoli. In questo senso, la missione del mediatore Bernardino Leon di ricucire lo strappo istituzionale libico diventa cruciale.

Il futuro della Libia e la questione migratoria appaiono dunque correlati. “Il punto principale è decidere le operazioni europee in mare per smantellare le reti criminali e il traffico di esseri umani nel Mediterraneo. L’accordo tra i due governi è essenziale”, ha affermato l’alto rappresentante Ue Federica Mogherini, in missione a New York per sollecitare la comunità internazionale a prendere una decisione rapida sulla politica da attuare nel Mediterraneo.

La partita interna al Consiglio di Sicurezza sarà decisiva nei prossimi giorni. Anche se, forse, già segnata. Tra i membri permanenti, la Russia è quella che si è opposta ad un intervento militare. Ma il Cremlino, così come Usa, Gran Bretagna, Francia e Cina, hanno dato il benestare ad un’operazione di polizia internazionale la quale, con solide basi legali, dia la “possibilità di ispezionare, sequestrare e neutralizzare le barche che sono sospettate di essere utilizzate per il traffico di migranti”, come recita il capitolo 7 della Carta Onu.
Giacomo Pratali

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Libia, Gentiloni: “Nessun intervento militare”

EUROPA/Medio oriente – Africa di

Il titolare della Farnesina respinge l’ipotesi di una risoluzione Onu a favore di un’eventuale operazione armata. Intanto, il tentativo di riconciliazione nazionale portato avanti da Leon rischia di saltare a causa dell’ostilità di Haftar.

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“Nessun intervento militare è stato deciso né dall’Unione Europea né dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu”. Con queste parole, pronunciate venerdì 15 maggio durante la trasmissione Agorà su Rai3, il ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni smentisce l’ipotesi di un’operazione armata da condurre presso le coste libiche, nell’ambito del contrasto alla crescente immigrazione proveniente dal continente africano. Ipotesi trapelata attraverso la stampa italiana ed internazionale.

Il Capo della Farnesina ha comunque precisato che, un’eventuale risoluzione positiva delle Nazioni Unite lunedì 18 maggio, “autorizzerebbe solo la confisca e il sequestro di barconi in mare e l’individuazione attraverso meccanismi di intelligence in acque territoriali prima che vengano imbarcati i migranti”. Questo perchè “bisogna organizzare combattere la criminalità rendere più sopportabili le condizioni nei Paesi di origine”. Un’azione possibile solo se viene suddividiso “il peso della situazione tra i Paesi europei: in questo senso è stato fatto qualche passo avanti”, ha precisato Gentiloni.

Se il governo di Tripoli sembra accogliere in senso positivo la discussione dell’Europa e della comunità internazionale, altrettanto non si può dire per l’esecutivo di Tobruk. Khalifa Haftar, Capo delle Forze Armate, si è dichiarato preoccupato da una possibile “azione militare contro le nostre coste”. Non solo. Passando dalle parole ai fatti, lunedì 11 maggio ha dato il via libera per il bombardamento di una nave mercantile turca, rea di “non aver rispettato l’ordine di non avvicinarsi alla città di Derna”, ha affermato ancora l’ex agente della Cia. L’azione ha causato l’uccisione di un membro dell’equipaggio, mentre Ankara ha fatto sapere che ricorrerà in sede giudiziaria a livello internazionale.

Un tira e molla continuo che di fatto non favorisce le estenuanti trattative condotte da oltre due mesi dal delegato Onu Bernardino Leon. Il suo ottimismo circa un accordo tra i governi e le fazioni contrapposte a beneficio dell’unità nazionale libica sembra scontrarsi con la realtà.

Una realtà che parla di guerra civile. Una realtà che coinvolge anche i bambini. Dopo i 3 morti di qualche giorno fa, altri 7 innocenti sono stati uccisi poche ore fa da un colpo di mortaio nella città di Bengasi. Secondo Associated Press, il fatto sarebbe attribuibile allo Stato Islamico e Ansar al Sharia e riguarderebbe in tutto 8 vittime, tutte appartenenti alla stessa famiglia.

 

Giacomo Pratali

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Immigrazione: attesa per la riunione Onu del 18 maggio

Per l’Ue sarà decisivo il parere del Consiglio di Sicurezza sulle misure militari da adottare per arginare il fenomeno migratorio. Prodi bolla questa possibilità come “inappropriata e dannosa”. Intanto, si continuano a contare i morti nel Canale di Sicilia.

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I 1500 migranti morti dall’inizio del 2015 e i continui sbarchi sulle coste italiane e maltesi delle ultime ore hanno portato le Nazioni Unite a convocare un Consiglio di Sicurezza straordinario previsto per lunedì 18 maggio. Dopo il Consiglio Europeo del 23 aprile, in cui sono stati triplicati i fondi per “Triton”, l’Unione Europea attende questa riunione per mettere sul tavolo nuove misure militari per combattere alla radice questa ondata migratoria direttamente collegata al caos politico, istituzionale e sociale della Libia. Il vertice sarà aperto da Federica Mogherini, Alto Rappresentante per gli Affari Esteri dell’Ue.

A confermare la necessità di una incombente discussione a livello internazionale sulla questione migratoria, ci sono i fatti. Nelle ultime 24 ore, Malta e Messina hanno accolto 98 e 300 migranti a testa dopo essere stati soccorsi dalle marine militari. Non solo. La Procura di Catania sta indagando sulla presunta strage, raccontata dai sopravvissuti e denunciata da Save The Children, di circa 40 persone annegate a largo delle coste siciliane nella notte tra il 4 e il 5 maggio, poco tempo prima che le autorità italiane prestassero i soccorsi.

A rigettare, però, la soluzione militare nei confronti della Libia per arginare il flusso migratorio previsto per i prossimi mesi, è l’ex presidente del Consiglio e della Commissione Europea Romano Prodi: “L’azione bellica – ha affermato nel corso dell’audizione presso la Commissione Esteri del Senato nella giornata di martedì – è inappropriata e dannosa, oltre che irrealistica. Adesso, la vera priorità è ripristinare la statualità in Libia”.

Intanto, l’Italia si sta muovendo in primis per cercare di arginare la situazione. Nell’incontro tra Antonello Cracolici, Presidente della Commissione Affari Istituzionali, ed Ezzedine al Awani, Ambasciatore libico in rappresentanza del governo di Tobruk, è stata prospettata una collaborazione tra il Paese nordafricano e la Sicilia in materia di sviluppo economico, immigrazione e protezione delle marinerie.

Giacomo Pratali

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Ripensare l’Islam attraverso l’economia

L’emergere di un vecchio modo di pensare la finanza, in accordo con la legge del Profeta, rimodella l’homo economicus affiancando il suo operato ai precetti del Corano. Nonostante i dubbi sull’effettiva corrispondenza tra teoria e pratica, la guida dei principi religiosi e una combinazione di volontà politica (e favorevoli condizioni economiche) sembrano aver fatto breccia nel capitalismo occidentale.

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[level-european-affairs]L’esplosione delle economie islamiche sembra solo apparentemente legata al sapiente uso che i governi fanno delle indispensabili risorse minerarie che giacciono nel sottosuolo, senza le quali (questo è quasi certo) nessuno avrebbe sentito la necessità di considerare tanto e tanto approfonditamente gli avvenimenti politici ed economici mediorientali. Un altro fattore, sicuramente più nascosto ma altrettanto importante, ha segnato i passi, da qualche decennio, della cavalcata delle economie degli emiri. Si tratta di un sistema di gestione del denaro in primis e dei flussi di capitali poi che fa combaciare etica ed economia e che, stando ai dati attuali sembra aver dato i suoi frutti. Sebbene, occorre precisarlo, non vi sia dietro nessuna teoria economica ma solo una rigorosa gestione ed interpretazione dell’uso e del significato del denaro e sebbene i tempi siano troppo poco maturi per poter tirare le somme, non si può non riconoscere che l’attenzione prestata a questo modello finanziario da privati ed istituzioni (vedi la BCE) sia importante e meritevole di attenzioni.

Solo apparentemente qualcosa di lontano dall’economia capitalista, si rivela al contrario un diverso e probabilmente più accorto modello di gestione finanziaria. L’attenzione al benessere della comunità propria del Corano e alla percezione comunitaria dei fedeli da cui deriva l’utilizzo consapevole del denaro, sembra essere la guida fondante e l’elemento pregnante della finanza islamica, tanto che i precetti religiosi del Profeta devono esserne continuo richiamo e regola. La sua natura è legata sostanzialmente alla stretta osservanza di poche ma ferme regole: dettami religiosi provenienti direttamente dal Corano o dalla Sunna, disposizioni legali che si sono rese necessarie vanno a colmare le ovvie lacune presenti nel testo sacro e principi giurisprudenziali interpretativi legati alle scuole di pensiero. Unico dubbio, ma non per questo di poco conto, è come possano coesistere tanti diversi livelli di interpretazione in una così sensibile materia.
Chiarire un equivoco di fondo è d’obbligo: si crede che abolire gli interessi sui prestiti di denaro sia la premessa base per chiunque voglia adottare il sistema della finanza islamica. In poche parole, basandosi su principi di carità e cooperazione, spesso si è portati ad identificare questo genere di attività economiche come totalmente mancanti dell’obiettivo della ricerca di utili, perché in accordo con la legge del profeta. In realtà, questo modo di intender la finanza islamica è errato, in quanto non rappresenta la differenza tra attività caritatevoli e commerciali: d’accordo con la Shari’ah l’applicazione del tasso d’interesse è da ritenersi esclusa su operazioni di carattere caritatevole, ma assolutamente il contrario avviene riguardo le transazioni commerciali. Le operazioni finanziarie, proprio in ragione della loro diversa natura, sono libere da questo vincolo: “”The principle is that the person extending money to another person must decide whether he wishes to help the opposite party or he wants to share his profits. If he wants to help the borrower, he must rescind from any claim to any additional amount. His principal will be secured and guaranteed, but no return over and above the principal amount is legitimate. But if he is advancing money to share the profits earned by the other party, he can claim a stipulated proportion of profit actually earned by him, and must share his loss also, if he suffers a loss.” (Mufti Muhammad Taqui Usmani, An introduction to Islamic Finance). L’errore potrebbe essere chiarito in questi termini: la dipendenza dell’economia capitalistica da una mancanza di regole rispetto all’arricchimento giudicato eccessivo e dannoso a volte per la comunità che l’investitore o l’operatore trae, viene ad essere limitato nella finanza islamica da una serie di principi religiosi (la pervasività della religione si dimostra anche in questi particolari, nulla di cui meravigliarsi).

A “ripensare” l’economia hanno dimostrato di essere in tanti. In effetti a giudicare da un primo approccio sembra che questo genere di teoria d’impiego del denaro sia sotto una sorveglianza religiosa speciale, in qualche modo simile a quella che noi definiremmo “responsabilità sociale d’impresa”, con le dovute differenze. Il numero di banche che operano attraverso i principi della Finanza Islamica e che ne hanno introdotto gli strumenti finanziari sono cresciute molto negli ultimi anni, così come è cresciuta l’ importanza dei fondi di investimento sovrani. A differenza dell’economia “capitalistica” nella finanza islamica il denaro non possiede un valore intrinseco: eccetto in determinati casi, esso è legato al bene oggetto della transazione, o al profitto generato attraverso lo scambio di divise con differente valore relativo. Stando alla teoria, ogni transazione è consentita solamente nel caso in cui questa generi o abbia come partenza risorse o beni. A giudicare dalle crisi che si sono susseguite ed alla sempre maggiore dipendenza dalle monete cosiddette elettroniche, oltre che da flussi di denaro che generano profitti pur essendo inesistenti, forse potremmo imparare molto dalla Finanza Islamica.

Francesco Danzi

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Francesco Danzi
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