GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Medio oriente – Africa - page 14

Siria: Amnesty International denuncia l’utilizzo dei barili-bomba

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Il report di maggio pubblicato dalla Omg accusa il presidente al Assad di mettere sotto bersaglio la popolazione di Aleppo, costretta a rifugiarsi sotto terra.

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“Terrore allo stato puro e sofferenze insopportabili costringono molti abitanti di Aleppo a vivere sotto terra per sfuggire agli incessanti bombardamenti aerei delle forze governative contro i quartieri occupati dall’opposizione”. Questo descrive il rapporto di maggio sulla Siria pubblicato da Amnesty International dal titolo “Morte ovunque: crimini di guerra e altre violazioni dei diritti umani ad Aleppo”.

Il report si sofferma in particolare sull’utilizzo dei barili-bomba da parte delle forze governative nei confronti dei civili, come spiegato da Philip Luther, Direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. : “Le atrocità dilaganti, soprattutto raid aerei feroci e disumani su zone residenziali da parte delle forze governative, hanno reso sempre più insopportabile la vita per la popolazione di Aleppo. Questi attacchi continui e riprovevoli sulle aree civili fanno parte di una strategia politica che intende colpire di proposito e senza sosta i civili con attacchi che costituiscono crimini di guerra e contro l’umanità”.

Nonostante l’utilizzo dei barili-bomba contro la popolazione sia stato negato dal presidente siriano Bashar al Assad a febbraio 2015, nel corso di un’intervista rilasciata alla Bbc, i numeri dell’inchiesta condotta da Amnesty International parlano chiaro: Gli attacchi coi barili-bomba – barili di petrolio, taniche di benzina, o bombole del gas imbottiti di esplosivo, olio combustibile e frammenti metallici gettati da elicotteri – hanno ucciso più di 3000 civili nel governatorato di Aleppo l’anno scorso e più di 11.000 persone in tutta la Siria dal 2012”.

E ancora: “Nell’aprile 2015 sono stati registrati non meno di 85 attacchi che hanno causato la morte di almeno 110 civili. Il governo, tuttavia, non ha ammesso neanche una vittima civile e, in un’intervista del febbraio 2015, il presidente Bashar al-Assad ha negato categoricamente che le sue forze abbiano mai usato i barili-bomba”, segnala Amnesty International.

Giacomo Pratali

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Kobane: da simbolo di resistenza a simbolo di rinascita

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Ora che i riflettori mediatici su Kobane si sono spenti, mentre altre zone intorno alla città vengono lentamente liberate dall’assedio di ISIS, è ancora più importante monitorare la situazione, per capire quali interventi è possibile mettere in campo per sostenere concretamente la ricostruzione della città e la ripresa della vita, che è comunque già cominciata.

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Più di 200.000 persone, durante l’assedio della città, si sono riversate oltre il confine turco-siriano, dislocandosi fra i campi approntati dalle municipalità locali, soprattutto a Suruç, e i campi ufficiali del governo turco. Questi ultimi, dopo aver constatato come venivano gestiti, ossia in maniera autoritaria e vietando perfino l’istruzione in curdo ai bambini, imponendo la lingua turca a persone che conoscevano solo il curdo e l’arabo, si sono spesso allontanati per l’impossibilità di vivere in quelle condizioni, riversandosi nei campi gestiti e sostenuti dalle municipalità a maggioranza curda.

I campi “autogovernati” non hanno però potuto contare sul sostegno internazionale, a causa dell’embargo de facto contro l’intero cantone causato soprattutto dall’opposizione del governo turco; ma hanno rappresentato e tutt’ora rappresentano una risposta concreta ed efficace alla domanda dei profughi, che già all’indomani della liberazione della città hanno cominciato a voler rientrare a Kobane, dapprima in piccoli gruppi, via via sempre più consistenti. Se ne contano attualmente circa 85.000.

kobane2Numerosi problemi li hanno attesi al loro rientro: dalle mine inesplose che i miliziani di ISIS ha lasciato dietro di sè, per ostacolare la ripresa della vita in città, alla totale distruzione lasciata sul terreno da quattro mesi di scontri violentissimi e di bombardamenti effettuati dalla coalizione. Numerosi civili hanno trovato così la morte dopo la liberazione della città, a causa delle mine o per l’impraticabilità di alcune zone; inoltre sono presenti ancora numerosi corpi non sepolti di miliziani di ISIS sotto le macerie, fatto che rischia – con l’aumento delle temperature dovuto all’arrivo della primavera – di provocare pericolose epidemie.

E’ necessario dunque agire con urgenza per mettere in sicurezza la città e consentirne la ricostruzione e il ripopolamento: ecco perchè è tutt’ora fondamentale l’apertura di un corridoio umanitario al confine, a cui la Turchia continua ad opporsi, che permetta il passaggio di materiali per la ricostruzione, di equipaggiamento sanitario, di personale medico e tecnico che contribuisca alla soluzione di questi problemi, di vestiti, medicinali, e tutto quanto serva. Occorre disinnescare le mine, ripristinare una fornitura regolare di energia elettrica e di acqua, ricostruire le case e le altre infrastrutture (l’80% della città è stato distrutto).

Un appello urgente è stato lanciato dal Comitato per la ricostruzione di Kobane, rapporto che contiene nel dettaglio la stima dei danni e delle necessità urgenti per permettere il rientro dei profughi, e che individua tra l’altro tra le priorità la costruzione di un campo profughi temporaneo di almeno mille tende, con servizi igienici, quattro scuole e due punti di assistenza sanitaria (http://helpkobane.com/it/wp-content/uploads/sites/6/2015/04/IT-Kobane-Report.pdf). Tutto questo per consentire l’avvio di tutte quelle azioni che possano ricostruire il tessuto sociale ed economico della città, dall’agricoltura all’allevamento al commercio, dalla costruzione delle fogne al ripristino delle fonti energetiche (http://helpkobane.com/it/wp-content/uploads/sites/6/2015/04/IT-Kobane-Report-II.pdf).

kobane (3)E’ il minimo che si possa fare per riconoscere la resistenza del popolo di Kobane che è costata più di mille morti in quattro mesi, e che è stata ed è una lotta per l’umanità. Diversi gruppi di attivisti e di semplici cittadini in vari paesi, tra cui l’Italia, stanno dando il loro contributo, organizzandosi per raccogliere fondi e materiali e realizzando progetti di cooperazione dal basso per rispondere ad alcune di queste esigenze (http://www.helpkobane.com/ o http://www.mezzalunarossakurdistan.org ): ma la “comunità internazionale” non sembra darsi da fare con lo stesso impegno.

Nonostante le analisi e le prese di posizione di organismi internazionali come l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera e la sicurezza sulla Siria, il Consiglio d’Europa a marzo, il Parlamento Europeo ad aprile, così come dopo le missioni sul campo di Organizzazioni non governative che si occupano di messa al bando delle mine, di ricostruzione e di salute, nulla ancora sembra muoversi.

Inoltre, l’avvicinarsi delle elezioni legislative in Turchia il prossimo 7 giugno, strategiche per il progetto di presidenzialismo perseguito da Erdogan e dal suo partito, sta acuendo la tensione e mostrando di nuovo il vero volto dell’AKP, il partito di governo, che invece di occuparsi dei problemi dei curdi, è impegnato piuttosto ad alzare il livello della tensione continuando a negare l’apertura di un corridoio umanitario e organizzando provocazioni per avvantaggiarsi dei voti nazionalisti.

Il forte entusiasmo che sta suscitando il nuovo partito HDP (Partito democratico dei Popoli), che propone una politica nuova rispettosa dei diritti di tutte le minoranze (dunque non solo dei kurdi), dei giovani, delle donne, ispirata a principi ecologici, sembra indicare che esso riuscirà a superare l’odiosa e antidemocratica soglia di sbarramento del 10% per entrare in parlamento: se questo accadrà, il gruppo di parlamentari dell’HDP potrà lavorare con più forza alla democratizzazione della Turchia, ma anche all’apertura del corridoio umanitario e alla ricostruzione di Kobane, nonché alla risoluzione democratica della questione kurda e dunque a una stabilizzazione della regione, che potrà avere effetti positivi su tutta l’area mediorientale ancora così piegata da guerre e dittature.

E’ importante che anche in questa occasione osservatori internazionali si rechino in Turchia per monitorare il processo elettorale: potrebbero verificarsi brogli come in passato, perchè le forze che si oppongono al cambiamento e alla pace hanno sempre cercato di impedire alla popolazione di esprimersi liberamente, sfruttando tutti i mezzi per impedire ai kurdi di superare la soglia del 10% (http://www.uikionlus.com/apello-per-elezioni-7-giugno-in-turchia/).

In conclusione: la strada è ancora lunga, ma forse davvero la città di Kobane, dopo essere diventata simbolo di resistenza per il mondo intero, può diventare simbolo di rinascita e di pace anche grazie al sostegno e all’attenzione internazionale.

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di Suveyda Mahmud

Libia, quasi fatta per l’accordo. Ue, svolta sull’immigrazione?

EUROPA/Medio oriente – Africa di

Dopo la strage dei migranti, l’aumento degli sbarchi in Sicilia e la vicenda del peschereccio Airone, sale il livello di tensione in Italia e in Europa. Dal Marocco, Leon fa sapere che un accordo tra le fazioni libiche sembra prossimo. Mentre l’Europa potrebbe avere mosso i primi passi per una politica davvero comunitaria nel Mediterraneo.

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Un accordo tra le fazioni rivali sembra possibile. Questo quanto emerso dagli ultimi giorni di trattative a Skhirat (Marocco) tra il mediatore Onu Bernardino Leon e i rappresentanti dei governi di Tobruk e Tripoli e dei clan della Libia: “Posso dirvi che siamo in possesso di una bozza che è molto vicina all’accordo finale. L’ottanta per cento di questa bozza è un testo su cui le parti in causa possono concordare”, ha riferito ai media il rappresentante delle Nazioni Unite. Una notizia che apre uno spiraglio di luce, dopo che lo stesso negoziatore aveva minacciato di lasciare il tavolo delle trattative se i combattimenti nella capitale non fossero cessati.

Tuttavia, la questione dell’unità nazionale libica, necessaria per fronteggiare l’avanzata dello Stato Islamico, già si sta confondendo con la questione migratoria. Tra l’indignazione di fronte alle continue stragi avvenute nel Canale di Sicilia e la crescente tensione dovuta ai possibili attacchi terroristici di “lupi solitari” o gruppi organizzati, la macchina dell’Unione Europea potrebbe avere compiuto il primo passo nella direzione di una vera politica comunitaria sull’immigrazione.

Accolto con favore dal premier Matteo Renzi, il vertice congiunto dei Ministri degli Interni e degli Esteri, tenutosi a Lussemburgo il 20 aprile, ha varato un decalogo per affrontare la questione migratoria.

Più risorse finanziarie saranno destinate alle operazioni Triton e Poseidon. Ci sarà “uno sforzo sistematico per catturare e distruggere le imbarcazioni usate dai trafficanti” e una maggiore attenzione e l’impiego di forze operative in Italia e Grecia per questioni come il diritto d’asilo e il traffico di esseri umani. Il rilevamento delle impronte digitali a tutti gli immigrati e l’accelerazione delle pratiche di respingimento per coloro che risultino irregolari. L’impegno diretto della Commissione e del Servizio di Azione Esterna dell’Unione Europea nei Paesi confinanti con la Libia.

Infine, sul tema della sicurezza, venerdì 17 aprile, la Commissione delle Libertà Civili, Giustizia e Affari Interni del Parlamento Europeo si è espressa così : “I terroristi approfitteranno sempre della mancanza di coordinamento tra gli Stati membri – afferma la rappresentante francese del Ppe Rachida Dati -. Noi abbiamo bisogno di una chiara e vincolante azione comune per una migliore cooperazione tra le agenzie di intelligence europee ed assieme ai Paesi del Terzo Mondo, le altre vittime del terrorismo e dello jihadismo”, conclude.
Giacomo Pratali

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Libia: ambasciate di Marocco e Corea del Sud nel mirino dei jihadisti

Nelle ultime ore, colpiti i due edifici. L’azione segue gli attentati delle scorse settimane contro i corpi diplomatici egiziani e algerini.

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Duplice attentato nelle ultime ore a Tripoli. All’ingresso dell’edificio dell’ambasciata del Marocco, in disuso da alcuni mesi, è stato fatto esplodere un ordigno che, però, non ha provocato nessuna vittima. In precedenza, era stata colpita anche la residenza della Corea del Sud. Alcuni uomini armati hanno aperto il fuoco contro i rappresentanti di Seul: le vittime sarebbero due guardie. Questo tipo di azioni non sono una novità. Già nel recente passato, i corpi diplomatici egiziani e algerini sono finiti nel mirino dei jihadisti.

Anche se non vi è stata ancora alcuna rivendicazione, appare chiaro, tuttavia, che l’attentato contro la sede del Marocco, Paese ospitante dei negoziati Onu tra i due governi libici, miri a destabilizzare i già difficili tentativi di un accordo istituzionale tra Tobruk e Tripoli. Trattative che riprendono ad Algeri nella giornata di lunedì 13 aprile.

Giacomo Pratali

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Nigeria, storia di un orrore messo nero su bianco

Medio oriente – Africa di

La crudeltà delle stragi di Boko Haram visto attraverso gli occhi dei bambini. L’appello dell’Unhcr affinché i rifugiati abbiano la necessaria assistenza. L’avanzata di Boko Haram sta mettendo in ginocchio un intero Paese.

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Un’emergenza umanitaria senza fine. È quella raccontata, attraverso i disegni, dai bambini del villaggio di Baga Sola dopo che l’Unicef ha chiesto loro di rappresentare il dramma vissuto negli ultimi mesi. Essi, assieme alle loro famiglie, sono stati testimoni diretti delle ripetute stragi di cui si sono resi protagonisti i miliziani di Boko Haram nell’agosto 2014. Ed è un nero su bianco che certifica ancora di più i numeri drammatici causati dalle ripetute stragi islamiste nel Borno in Nigeria.

L’Unhcr, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati, ha lanciato il Regional Refugee Response Plan, ovvero un piano che consenta di trovare i circa 175 milioni di dollari per l’assistenza ai 192mila nigeriani che hanno lasciato il Paese. Camerun, Ciad e Niger hanno accolto migliaia di persone che necessitano di assistenza materiale e psicologica, nonché dell’educazione scolastica per quanto riguarda i bambini. Lo stesso tipo di assistenza di cui hanno bisogno gli sfollati rimasti nel nord-est della stessa Nigeria.

Intanto, dopo le elezioni che hanno portato il musulmano Buhari al trionfo, gli scontri proseguono all’interno dello Stato africano. All’indomani della tornata elettorale, gli eserciti ciadiani e nigerini hanno sconfitto le truppe di Boko Haram al confine tra Nigeria e Niger: i miliziani morti sarebbero circa 300. Di contro, un paio di giorni dopo, alcuni jihadisti, travestiti da predicatori, hanno ucciso quasi 30 persone nel villaggio di Kwajafa, sempre nello Stato di Borno.

Giacomo Pratali

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Yarmouck: oltre 1000 giorni di terrore

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Il campo profughi siriano, dal 2012 obiettivo di violenze

Erano 12 i campi profughi palestinesi allestiti in Siria e distribuiti fra Damasco, Aleppo e Homs. Quello di Yarmouk, l’enorme buco nero a 8 km dalla capitale che tutto inghiotte e ben poco restituisce, era il più grande. 160.000 i profughi accatastati in quel groviglio di costruzioni, finestre e stradine larghe appena per far transitare un uomo. Dal 2011 quei campi profughi sono un obiettivo.

Comunque si chiami l’aggressore, il risultato è una sequela infinita di orrori, inflitti e provocati. Talal Naji, Presidente dell’Associazione Palestinese di Damasco, raccontava nel gennaio 2014 che Hamas, il movimento islamico palestinese, aveva intimato ai ribelli di uscire dal campo di Yarmouk. Quello che succede in quel campo, a distanza di oltre un anno, fa raccapricciare il mondo. I media stanno definendo questa recrudescenza “una nuova Srebrenica”, accorgendosi come sempre in ritardo, ma in tempismo perfetto per cavalcare l’audience, di quanto la sofferenza permei quelle mura. “A Homs i nostri profughi sono riusciti a proteggersi, armati di bastoni e sassi – raccontava un anno fa Talal Naji. A Daraa le cose erano andate in modo diverso. In quel campo, i 12.000 profughi, i primi ad essere colpiti nel 2011, sono stati costretti ad uscire mentre alle loro spalle i pochi averi accumulati venivano depredati e distrutti.

L’orda terrorista è avanzata ancora un pò verso nord, mietendo un altro campo da 6.500 profughi. E poi altri, fino a Yarmouck. “Abbiamo provato a proteggerlo nonostante i continui tentativi dei ribelli di entrare – raccontava. “Poi nel dicembre del 2012 la nostra resistenza è stata spazzata via. I ribelli sono entrati, hanno distrutto le case, rubato tutto quello che era possibile portare via. Hanno tolto le finestre, i fili elettrici, tutto, anche le piastrelle. Hanno ucciso. E violentato le donne. Per questo in tanti sono fuggiti. Dei 160.000 palestinesi che vi abitavano un tempo, ne sono rimasti 20.000”. I più fortunati sono riusciti a trovare rifugio nelle scuole trasformate in campi di accoglienza temporanei, altri sono andati in Libano, Egitto, Gaza, Giordania ed anche Europa.

Dopo vari tentativi di liberare il campo attraverso l’utilizzo di vie diplomatiche che hanno coinvolto anche Hamas, nell’agosto del 2013, è  stato deciso l’intervento della forza armata da parte del Movimento popolare di liberazione dei campi palestinese. “Siamo riusciti a far uscire un 30% di ribelli. Poi ci siamo fermati su richiesta dei profughi per evitare altri spargimenti di sangue. Alcuni gruppi di Abu Mazen ci hanno sostenuto mentre il governo siriano ha accettato di inviare alimenti all’interno del campo. Ma gli aiuti sono stati fermati dai ribelli”. Il termine ribelli all’epoca includeva una serie di identità, cellule di Al Qaeda, prime espressioni di Daesh-Isis, frange di eserciti liberi come i Leoni Siriani o i seguaci armati di Eben Taimia.

Nel frattempo i profughi hanno iniziato a morire anche per fame. Cinquanta fino al gennaio dello scorso anno. Lo strozzinaggio applicato sui beni alimentari ne moltiplicava il prezzo fino al 150%. Una confezione di pane costa 15 lire siriane. Dentro al campo ne poteva costare anche 2.500. Alle morti per stenti si aggiungevano quelle violente. Chi non era riuscito a fuggire era intrappolato e diviso dall’esterno da un muro invisibile ma più impenetrabile di qualsiasi barriera. Un punto di primo soccorso era allestito con tre letti e pochissimi medicinali, in fondo ad una scala che conduce ad uno scantinato. Insufficiente per rispondere anche a poche richieste di aiuto.

Emmammar è riuscita a scappare dalla sua casa di Yarmouck quando i ribelli sono entrati. “Abbiamo preso i vestiti e siamo fuggiti. Vivevamo lì da due generazioni. Non abbiamo visto chi erano e da dove arrivassero gli spari. Quando li abbiamo sentiti  siamo scesi subito in strada. I passaggi erano ancora aperti – continua. “Ci siamo lasciati tutto alle spalle. E’ impossibile tornare”.  Dopo Yarmouck, Emmammar aveva trovato rifiuto a Sumaja, campo di accoglienza allestito  a Ovest di Damasco nei locali di una ex scuola, dove nel gennaio 2014 vivevano 229 persone, 44 famiglie in tutto, in spazi angusti ma sufficienti in attesa di condizioni migliori. Ora Yarmouck vive nuove stragi, nuovi orrori, che non si sono interrotti da almeno tre anni a questa parte. Oltre 1.000 giorni di paura, ansia, terrore. Continuo e implacabile.

 

Monia Savioli

Yemen: la coalizione saudita prende di mira i civili

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I morti dall’inizio dei bombardamenti sunniti sono in constante crescita. Nonostante questo, gli sciiti Houti tentano a tutti i costi di conquistare Aden. Un intervento della comunità internazionale, in special modo degli Usa, è necessario affinché questa strage, che sta prendendo di mira anche i campi profughi, cessi.

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Si fa sempre più cruento il conflitto nello Yemen. Da una parte, i ribelli Houti continuano la loro avanzata verso il centro di Aden. Dall’altra, la coalizione sunnita, guidata dall’Arabia Saudita e supportata dagli Stati Uniti, ha preso di mira Sanaa, roccaforte sciita.

I numeri sono impietosi. Oltre 200 morti (74 bambini) e almeno 1300 feriti dall’inizio del conflitto due settimane fa. Cifre di uno scontro recente tra ribelli locali ed aviazione saudita, cifre che diventano drammatiche se pensiamo che la guerra civile tra sciiti ed esercito regolare degli anni Duemila ha portato quasi 13mila persone a vivere nei campi profughi. Gli stessi campi profughi colpiti dai bombardamenti aerei dei sunniti.

Mentre sono in corso le consultazioni presso il Consiglio di Sicurezza Onu, è necessario una ricomposizione del conflitto a livello internazionale. Nel giorno di Pasqua, i dirigenti Houti si sono detti pronti a trattare la pace se la coalizione sunnita cesserà il forcing via terra e via mare. Di contro, il re saudita Salman ha aperto, a parole, al cessate il fuoco. Frasi subito smentite dai fatti.

Il ministro della Difesa del Pakistan Asif ha riferito, ai media internazionali, che l’Arabia Saudita ha fatto esplicita richiesta di aiuti militari. Mentre è Riyad stessa ad appoggiare l’esercito regolare yemenita nel tentativo di frenare l’avanzata sciita presso Aden.

Il ruolo decisivo è ancora una volta degli Stati Uniti. Lo Yemen è sì incontrollabile e simile al caso Afghanistan. Tuttavia, questa guerra, non più solo civile, potrebbe rilanciare le ambizioni sunnite su tutta l’area mediorientale e dare benzina all’offensiva dello Stato Islamico in Siria, Iraq, Libia e Nigeria. Infine, non è accettabile che questa palese “violazione dei diritti internazionali e delle leggi di guerra”, citando il rappresentante Ue Mogherini e il segretario generale Ban-Ki Moon, sia in atto con il rumoroso silenzio-consenso di Washington.

Giacomo Pratali

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Usa, tra l’accordo sul nucleare con l’Iran e i possibili retroscena

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Raggiunto l’accordo tra i Paesi “5+1” e l’Iran. Stabiliti i punti base. Le sanzioni contro Teheran saranno revocate. L’intesa con lo Stato sciita sembra, però, stonare con la contemporanea offensiva di alcuni Stati sunniti nello Yemen. Sembra perché questo quadro geopolitico caotico va a vantaggio degli Stati Uniti.

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Giovedì 2 aprile Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania hanno trovato l’intesa storica sul nucleare con l’Iran, il quale vede cessare l’embargo impostogli. I parametri di base sono da stabilire entro il 30 giugno, ma i punti dell’accordo sono chiari. L’attività di Teheran sarà tenuta sotto controllo per i prossimi dieci anni (prorogabili a 25), periodo entro il quale dovranno essere ridotte a 6 mila (75%) le centrifughe in azione. Le riserve di uranio già presenti saranno portate all’estero o diluite. Infine, il capitolo delle sanzioni finanziarie e petrolifere: Stati Uniti ed Europa le revocheranno dopo la verifica dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.

Se Obama parla di più sicurezza “per il nostro Paese e i nostri alleati”, dello stesso tenore sono le dichiarazione del rappresentante Ue Mogherini (“Questo accordo garantisce che l’Iran non svilupperà il nucleare”) e del ministro degli Esteri di Teheran (“Abbiamo trovato le soluzioni per i parametri chiave”).

Ma se l’accordo è senz’altro un cambio radicale dopo anni di rapporti freddi tra Stati Uniti e Iran, lo stesso non si può dire per altri Paesi. Il presidente israeliano Netanyahu attacca parlando di “errore storico” a favore di un Paese che sta commettendo “atroci azioni in Siria, Iraq, Libano e Yemen”.

Ed è proprio il caso Yemen a stonare con questa intesa. In queste ultime ore, infatti, la coalizione sunnita guidata dall’Arabia Saudita, con il consenso e il conseguente l’appoggio logistico degli Stati Uniti, sta sferrando una massiccia offensiva militare contro i ribelli sciiti Houti, sostenuti dallo stesso Iran.

Questo sembra andare nella direzione opposta rispetto all’accordo sul nucleare, così alla collaborazione nella lotta allo Stato Islamico in Siria e Iraq. Ma è solo apparenza. L’obiettivo degli Stati Uniti in Medio Oriente, come riportato nel rapporto della National Security americana di febbraio, è quello di non fare emergere nessun attore geopolitico di primo piano in quest’area. E, al tempo stesso, non prendere parte in maniera attiva alle azioni militari: vedi i casi già citati in Yemen, Iraq e Siria. Un obiettivo finora raggiunto.

Giacomo Pratali

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Strage Kenya: flop dell’intelligence, 147 morti

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I servizi segreti kenyoti concentrano le attenzioni sui college della capitale Nairobi. Ma a pochi chilometri dal confine somalo, è strage. Al Shabaab rivendica l’attacco

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L’intelligence sbaglia bersaglio. Ha aumentato i controlli presso le tre università presenti a Nairobi, lasciando blande le misure di sicurezza nel resto del Paese. Questo quanto emerso a seguito dell’attentato avvenuto giovedì 2 aprile nel campus universitario di Garissa, nel nord est del Kenya: 147 i morti accertati, mentre i feriti sono almeno 80. Le vittime sono quasi tutte studenti cristiani.

Iniziato all’alba, l’azione terroristica è stato rivendicato dal gruppo somalo di Al Shabaab (la Somalia dista solo 150 chilometri dal college), cellula affiliata ad Al Qaeda. Mentre il portavoce dell’organizzazione jihadista ha affermato che “sono stati rilasciati gli ostaggi di fede musulmana”, una sopravvissuta e scappata al raid ha affermato di avere visto diverse persone decapitate. Il conflitto con la polizia è durato almeno fino alla notte.

Le stesse forze di sicurezza del Kenya hanno istituito una taglia di 220 mila dollari su colui che è ritenuto essere il responsabile della strage, Mohammed Mohamud. L’uomo è ritenuto il capo di Al Shabaab in Somalia e sarebbe l’ideatore dei molteplici attentati avvenuti nel Paese dal 2013 ad oggi.

Giacomo Pratali

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Kuwait City, Italia: piano d’aiuti di 18 mln di euro per Siria

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Nel vertice organizzato dalle Nazioni Unite, 80 Paesi hanno promesso 3,8 miliardi di dollari in interventi a favore della popolazione siriana

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Martedì 31 marzo, presso Kuwait City, si è tenuta la “Conferenza Internazionale dei donatori per la crisi umanitaria in Siria”. All’evento, organizzato dall’Onu, hanno aderito 80 Paesi, i quali hanno deciso di donare 3,8 miliardi di dollari, di cui almeno un miliardo di euro da parte dell’Ue. Il piano di aiuti sarà diretto da Organizzazione delle Nazioni Unite e dalla Croce Rossa Internazionale.

18 milioni di euro è la cifra che verrà versata dall’Italia a favore dei settori alimentare, sanitario e dell’istruzione. Il piano di interventi, oltre alla Siria, riguarda anche Libano, Giordania, Turchia e Iraq e vede coinvolte anche alcune Ong italiane e partner locali. Questa cifra si va ad aggiungere ai circa 65 milioni di euro già stanziati dall’inizio del conflitto siriano.

Giacomo Pratali

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Giacomo Pratali
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