GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

Category archive

ESTERI - page 11

Crosetto in Israele “Giorni di tregua non siano solo quattro”

ESTERI di

TEL AVIV (ISRAELE) (ITALPRESS) – Il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto ha incontrato a Tel Aviv il suo omologo israeliano, Yoav Gallant.
“Per l’Italia, per il nostro Governo e per me come Ministro, come cittadino e come uomo, è importante dimostrare amicizia e vicinanza ad Israele con la presenza, trasmettendo le nostre idee, le nostre preoccupazioni, le nostra visione – ha detto Crosetto al termine dell’incontro -. E, ancora di più, dico questo perchè mi succede di potere essere qui in un giorno come quello di oggi. Un giorno finalmente bello e non cupo, in cui cominceranno a rientrare i bambini israeliani che sono stati prigionieri fino adesso nelle mani di Hamas. Un giorno che ci ha visti protagonisti, come Italia, a fianco di altri Paesi, grazie all’impegno in primis del Presidente Meloni e di tutti noi. Mi auguro che i giorni di tregua non siano solo quattro, ma diventino sei, dieci, venti e cioè fino a quando tutti i 240 ostaggi israeliani non saranno rientrati nelle loro case e dalle loro famiglie”.
“L’Italia è da sempre una Nazione solidale e amica d’Israele e continua ad esserlo in questo periodo di difficoltà, di crisi, nelle ore più buie. Oggi ho manifestato anche le mie preoccupazioni e l’invito chiaro a rispettare il diritto alla vita della popolazione civile palestinese, comprendendo che la lotta ad Hamas finirà quando sarà resa innocua militarmente – ha aggiunto -. L’Italia si sta prodigando attivamente e ha già inviato aiuti umanitari e una nave ospedale della Marina Militare, nave Vulcano, con personale di tutte le Forze Armate, attrezzature e mezzi a bordo in grado di fornire un aiuto concreto alla popolazione civile. Un altro ospedale da campo è pronto e può arrivare in poco tempo. I nostri velivoli sono impegnati in voli di trasporto sanitario urgente di persone in imminente pericolo di vita e ammalati gravi”.
“Ma proprio come gli accordi tra Stati, che sono già in corso, ci potrebbero permettere di installare un ospedale da campo nella Striscia di Gaza, per aiutare la popolazione civile palestinese, così voglio riaffermare qui, non solo con le parole, la mia vicinanza e amicizia a Israele – ha concluso il ministro Crosetto -. E allo stesso tempo rimarcare il nostro pieno appoggio e sostegno per ogni esigenza o problema di tipo umanitario, diplomatico, politico e materiale anche alla popolazione palestinese. Insieme dobbiamo lavorare per costruire un futuro di convivenza e pace”.
Il ministro della Difesa Israeliano, Yoav Gallant, ha voluto ringraziare il ministro Crosetto per quanto sta facendo l’Italia e per la sua visita in Israele, “una presenza che rappresenta un segno concreto di amicizia e solidarietà in un momento cruciale”.

– Foto ufficio stampa ministero della Difesa –

(ITALPRESS).

Medio Oriente, slitta la tregua fra Israele e Hamas

ESTERI di

TEL AVIV (ITALPRESS) – I negoziati per l’accordo sugli ostaggi “proseguono positivamente” e nelle prossime ore ci sarà l’annuncio della tregua. Lo ha assicurato il portavoce del ministero degli Esteri del QATAR, Majed al-Ansari. Una fonte diplomatica ha detto alla CNN che la tregua inizierà probabilmente venerdì. In precedenza si prevedeva che le prime liberazioni e la pausa nei combattimenti sarebbero avvenute già oggi.
-foto Agenzia Fotogramma-
(ITALPRESS)

Medio Oriente, tregua Israele-Hamas per il rilascio degli ostaggi

ESTERI di

ROMA (ITALPRESS) – Una tregua di quattro giorni nei combattimenti per consentire il rilascio degli ostaggi che Hamas tiene a Gaza dopo l’attacco dello scorso 7 ottobre. L’accordo tra Israele e Hamas è stato votato dal governo di Netanyahu nel corso della notte e prevede il rilascio di 50 ostaggi israeliani in cambio di 150 palestinesi che attualmente si trovano nelle carceri di Tel Aviv. Il premier Benjamin Netanyahu ha parlato di “una decisione difficile ma giusta”; mentre il presidente statunitense Joe Biden ha accolto con grande soddisfazione il raggiungimento dell’accordo sulla tregua nei combattimenti nella Striscia di Gaza.

Foto: Agenzia Fotogramma

(ITALPRESS).

JFK 60 anni dopo, con la verità del Gattopardo americano

ESTERI di

di Stefano Vaccara
NEW YORK (STATI UNITI) (ITALPRESS) – E tu dov’eri il 22 novembre del 1963? Questa frase che milioni di americani per 60 anni si sono scambiati a vicenda, non ha più lo stesso peso, dato che la maggior parte dei cittadini USA sono nati dopo quel famigerato mezzogiorno di fuoco in Texas, quando a Dallas fu massacrato il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy. Fino a quando la maggior parte degli americani poteva ricordare il proprio shock, come l’ascolto della diretta del più famoso anchor dell’epoca, Walter Cronkite, che con voce tremante, si toglie gli occhiali e sussurra dai microfoni della CBS, “President Kennedy is dead”, è morto, restava granitico il movente di chi crede sia un dovere coprire ancora la verità e che quel giorno resti avvolto nel mistero. Perché che quello di JFK sia rimasto un omicidio senza veri colpevoli, ne sono convinti da almeno mezzo secolo la maggior parte dei cittadini americani i quali – secondo i sondaggi registrati già nel 1966 – non si bevvero la spiegazione della cosiddetta Warren Commission.
Questa commissione speciale d’inchiesta istituita e nominata in tempi record dal vice di JFK diventato quello stesso giorno presidente, il texano Lyndon Johnson, e presieduta dal giudice presidente della corte Suprema Earl Warren, era composta da altri autorevoli uomini di stato – tra cui l’allora congressman del Texas, informatore dell’FBI e futuro presidente “mai eletto alla Casa Bianca” Gerald Ford e – che coincidenza! – anche da Allen Dulles, l’ex capo-fondatore della CIA licenziato malamente proprio da JFK.
Infatti la maggioranza degli americani, soprattutto dopo che nei primi anni settanta gli fu mostrato finalmente in tv il filmato realizzato dal turista Abraham Zapruder – consegnato da lui stesso subito all’ FBI ma (perché?) tenuto nascosto all’opinione pubblica per oltre dieci anni – resterà convinto che quel giorno a Dallas ci fu una “conspiracy”. Come poteva infatti essere stato Lee Harvey Oswald da solo a sparare a JFK, quel “patsy” ex marine in una base di spionaggio USA in Giappone, poi “fuoriuscito” in Unione Sovietica e d’incanto riapparso nel 1962 in patria con la moglie russa, che dopo uno strano passaggio nella sua città natale, New Orleans, era andato in Texas per trovare d’incanto, a poche settimane dal 22 novembre, il lavoro giusto nel palazzo giusto di Dealey Plaza a Dallas?
Come avrebbe avuto il tempo di sparare tutti quei colpi e con quel fucile italiano carcano della prima guerra mondiale? Come “a scoppio ritardato” si vedrà chiaramente dal filmato Zapruder (che tutti potete oggi vedere su YouTube), il colpo che farà esplodere la testa di Kennedy, con la first lady Jacqueline terrorizzata che cerca di afferrare pezzi di cranio dal cofano della Lincoln, arriva da una diversa angolazione. Altro che “proiettile magico…”
Il mantra degli anti-cospirazionisti, i fedeli per sempre alla Warren, è questo: c’è un guazzabuglio di “piste” messe a bollire nella pentola delle inchieste giornalistiche, come delle migliaia di saggi usciti da oltre mezzo secolo, e tra tutte queste troppe “verità” si finisce per non capirci più nulla. Quindi, meglio “case closed”, chiudere il caso: solo un uomo uccise il presidente, bisogna accettare questa “verità” comodissima. Già, ma il movente? Oswald era picchiatello, un po’ marxista-castrista…Ma quanti matti giravano con la pistola, come fu definito anche il gangster Jack Ruby, un manager di spogliarelliste a Dallas a libro paga della mafia (prima quella di Chicago, poi di New Orleans), che uccise Oswald dentro quella stazione di polizia in cui il sospettato più importante della storia d’America veniva “protetto”.
Come del resto era matto da prigione per sempre, anche il palestinese Sihran Sihran, anche lui appena ventenne, che sparerà nel 1968 a Los Angeles Robert F. Kennedy, fratello di JFK e già ministro della giustizia antimafia, quindi senatore di New York, ormai troppo lanciato verso la nomination democratica per quella Casa Bianca strappata con il sangue a suo fratello… Come matti da legare dovevano essere chi uccise, nei turbolenti anni Sessanta, Martin Luther King e Malcom X…
Anche l’attuale inquilino della Casa Bianca, con la decisione di mantenere – nonostante la legge – ancora “top secret” oltre tremila documenti scottanti soprattutto della CIA, ha voluto, come un Gattopardo americano, conservare tutto com’è nonostante ci sia stata negli anni una rivoluzione su tutte le fantasie raccontate dalla Warren. Già una Commissione del Congresso nel 1979 fece scricchiolare il castello di frottole messo in piedi dalla Warren “sorvegliata” da Johnson.
Così anche per Joe Biden, bisogna indicare ai cittadini USA che è ancora presto, la verità può attendere. Nonostante le tesi della Warren Commission, come la già ridicola “Magic bullett”, non stessero più in piedi da tempo, bisogna comunque che se nonostante tutto sia cambiato, tutto dovrà restare com’è: che il racconto “ufficiale”sulla morte del presidente Kennedy resti congelato a quello narrato nel 1964.
Nonostante Biden, come tutti i “commander-in-chief” che lo hanno preceduto, – l’unico con un approccio diverso è stato Trump ma solo per aver tentato l’arma del ricatto – ormai la verità si avvicina portata dalla inesorabile logica: ma perché si deve essere obbligati a dover scegliere tra la pista della CIA, o quella della mafia, o dei cubani anti-castristi, o del “military industrial complex” + i petrolieri texani entrambi molto amici di Johnson, che le rendono tutte queste piste come se si dovessero annullare a vicenda? Come accade invece spesso con certi “cadaveri eccellenti” di mafia – di Cosa Nostra vera, come del resto era la potente famiglia del boss Carlos Marcello di New Orleans, nemico giurato di RFK – al delitto “imperfetto” devono partecipare in tanti, anzi più establishment possibile è coinvolto, e più il “cover-up” dura.
Almeno fino a quando tutti quelli che ascoltarono in lacrime Walter Cronkite dire, “President Kennedy is dead”, non ci saranno più in giro, ogni 22 novembre, a ripetere, e tu che facevi quel giorno in cui uccisero JFK?

– foto: Agenzia Fotogramma –
(ITALPRESS).

Kennedy, 60 anni dopo l’assassinio di JFK occhi sul nipote

ESTERI di

NEW YORK (STATI UNITI) (ITALPRESS) – Sono passati sessant’anni da quando a Dallas fu ucciso John Fitzgerald Kennedy, il 22 novembre del 1963. Gli Stati Uniti si preparano a commemorarlo – fra fiumi d’inchiostro versato su teorie complottiste, revisionismi, trasformazioni del mondo – e gli Archivi di Stato stanno rilasciando migliaia di documenti sull’assassinio; nelle immagini della Biblioteca presidenziale John F. Kennedy, si vede la folla che lo attende all’aeroporto di San Antonio, il giorno prima della sua morte; l’arrivo del presidente con la moglie Jacqueline, elegantissima in bianco, con guanti abbinati; alcune tappe della visita e il discorso. E ancora, Kennedy e la first lady che scendono dall’aereo a Dallas il 22 novembre, lei in tailleur rosa con cappellino e mazzo di rose in mano, la folla che attende il presidente, il convoglio con la sua auto, l’annuncio alla radio che sono stati uditi degli spari e che il presidente è stato ferito.
Ma in questo 2023, con un anno di campagna elettorale presidenziale davanti, c’è una nuova generazione della dinastia pronta a scendere in campo, e a rendere le cose più frizzanti ci sono due Kennedy l’un contro l’altro armati.
La famiglia – storicamente legata al partito Democratico – non ha mai smesso di essere coinvolta in politica, anche dopo l’assassinio di Robert, fratello minore di John, nel 1968 quando era in corsa per la Casa Bianca. Ted Kennedy, terzo fratello, è stato senatore fino alla morte. Caroline Kennedy, figlia di JFK, è ambasciatrice in Australia – anche se non è mai stata eletta in Parlamento. Patrick Kennedy, figlio di Ted, è stato eletto nel Parlamento del Rhode Island dal 1995 al 2011. Nessuno però ha mai più avuto ambizioni presidenziali, e come criticarli?
Fino a pochi mesi fa, quando Robert Kennedy Jr – avvocato e scrittore, fervente cattolico, terzogenito di Robert, aveva 14 anni quando il padre fu ucciso – ha annunciato di voler correre per la Casa Bianca come democratico, sfidando il presidente in carica Joe Biden. Decisione irrituale, peggiorata dal fatto che questo Kennedy ha già sollevato polemiche per le sue posizioni eccentriche -sostenitore della correlazione fra vaccini e autismo, e peggio, negazionista del Covid-19, una epidemia che sarebbe stata “programmata etnicamente” per risparmiare gli ebrei. Insomma quel tipo di parente che la famiglia preferisce incontrare solo a Natale, e certo non desidera vedere su un palcoscenico troppo pubblico.
Non è finita qui: il figlio di Bob ha finito per ritirarsi dalle primarie democratiche… ma si è candidato come indipendente alla presidenza; viene in mente irresistibilmente Connor, il figlio maggiore del magnate Loy Rogan nella serie tv Succession.
Siccome però la realtà è sempre più inventiva della fiction, ecco arrivare sulla scena un altro Kennedy. Questo si chiama Schlossberg, Jack Kennedy Schlossberg. È figlio di Caroline (figlia di JFK) e del marito Edwin Schlossberg, dunque in linea diretta è l’unico erede del presidente ucciso sessanta anni fa. Classe 1993, dunque trent’anni: John Bouvier Kennedy “Jack” Schlossberg – un nome un destino – è avvocato, laureato a Yale e Harvard.
Ha già dichiarato di avere interesse per la politica, sostiene apertamente Joe Biden – da bravo democratico ortodosso, ed ha pubblicamente criticato il cugino della madre: in giugno, in un post su Instagram in cui si schierava per il presidente in carica (“il miglior presidente progressista che abbiamo mai avuto), ha definito “fonte d’imbarazzo” la candidatura di Robert. Opinione poi ribadita in varie interviste. L’eredità del nonno? “È molto più di un cumulo di teorie complottiste, è un lascito di coraggio e servizio pubblico”. Vorrà inoltrarsi prima o poi su quella via?

– foto Agenzia Fotogramma –
(ITALPRESS).

Ministro Esteri Ungheria “Evitare rischio terza guerra mondiale”

ESTERI di

NEW YORK (STATI UNITI) (ITALPRESS/LA VOCE DI NEW YORK) – “Sappiamo tutti chi ha attaccato chi. Sappiamo tutti chi è l’aggressore. Ecco perché condanniamo questa guerra. Ma nel frattempo crediamo che ci sia anche una responsabilità per la pace. E sappiamo tutti che gli Stati Uniti dovrebbero avviare un dialogo con la Russia per garantire la pace in Ucraina”. Lo afferma il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjártó, in un’intervista a La Voce di New York e all’Italpress.

Ministro Peter Szijjártó, lei ha affermato che la comunità internazionale ha una responsabilità fondamentale nel prevenire un’escalation del conflitto, poiché le conseguenze di una guerra tra stati in Medio Oriente sarebbero del tutto imprevedibili. Ha detto che ‘il mondo potrebbe essere sull’orlo di una terza guerra mondiale’. Il premier Orban ha detto lo stesso sulla situazione in Ucraina… Chi lei ritiene che abbia la maggiore responsabilità di questa situazione? Se l’Ungheria potesse dare dei voti al comportamento delle maggiori potenze, agli Stati Uniti dareste un voto positivo o verrebbero bocciati? E alla Russia? E alla Cina? E che dire dell’Ue?

“Sono circa 30 i Paesi nel mondo che in questo momento sono testimoni di scontri, guerre, conflitti armati sul proprio territorio. Trenta. Rappresenta circa un sesto dei Paesi del mondo. Un numero e una proporzione enorme. Ecco perché abbiamo la preoccupazione che, nel caso in cui la comunità internazionale non sia in grado di superare questi conflitti, non sia in grado di risolverli, alcuni potranno sovrapporsi l’uno sopra all’altro e in questo caso il rischio di una Terza Guerra Mondiale potrebbe essere molto più vicino di quanto sembri. Questo è qualcosa che dobbiamo evitare. Ora per quanto riguarda la guerra contro l’Ucraina, sappiamo tutti chi ha attaccato chi. Sappiamo tutti chi è l’aggressore. Ecco perché condanniamo questa guerra. Ma nel frattempo crediamo che ci sia anche una responsabilità per la pace. E sappiamo tutti che gli Stati Uniti dovrebbero avviare un dialogo con la Russia per garantire la pace in Ucraina. Poiché gli Stati Uniti sono stati coinvolti nello sforzo di pacificazione o nello sforzo di risoluzione della crisi in Medio Oriente, l’Ungheria ritiene che questo dovrebbe accadere anche nello sforzo di pace riguardo all’Ucraina. E sono d’accordo con coloro che hanno affermato che se americani e russi potessero sedersi allo stesso tavolo per discutere la possibilità di una possibile pace in Ucraina, ciò sarebbe di grande aiuto. Per quanto riguardo all’Unione Europea: crediamo che consegnando le armi non si possa fare la pace, perché consegnando più armi si può solo prolungare la guerra. Più una guerra si prolunga e più persone muoiono, più distruzioni avvengono e meno possibilità di pace ci saranno. Quindi non sono d’accordo con quei politici, e so di essere in minoranza in Europa, che dicono che lo sviluppo sul campo di battaglia aiuterà la pace a venire. Non ci credo. Semmai credo che più lasciamo che gli sviluppi avvengano sul campo di battaglia, più avremo meno speranze di pace. Perché con ogni giorno che lasciamo in più alla guerra, le possibilità di un’opportunità per la pace diminuiscono, perché più persone muoiono, maggiore sarà la distruzione, più odio arriverà e con più odio meno possibilità di pace…”.

Sembra che stia dando la maggiore responsabilità di ‘imporre’ la pace agli Stati Uniti. Il presidente americano Joe Biden, in un editoriale pubblicato domenica sul Washington Post, ha ribadito che gli Stati Uniti sono “la nazione essenziale”. Madeleine Albright l’ha definita la “nazione indispensabile”, Biden ora chiama gli Stati Uniti la “nazione essenziale”. E’ d’accordo? Tocca ancora agli Stati Uniti essere l’unica potenza in grado di mettere ordine nel mondo?

“Credo che stiamo attraversando la formulazione di un nuovo ordine mondiale, ed è decisamente un mondo multipolare. Penso che l’ordine mondiale uni polare sia finito. Ci sono importanti portatori di interessi, grandi partiti nella politica globale e nell’economia globale, gli Stati Uniti sono sicuramente uno dei maggiori – per la loro grande potenza militare, per il potere economico, per l’enorme leva politica – ma ci sono altri portatori di interessi. Bisogna pensare alla Cina, alla Russia, all’India. Vorrei dire anche di pensare all’Europa, ma purtroppo l’Unione Europea sta perdendo molta forza a causa di alcune sue politiche irrazionali. Il mondo sta andando verso il multipolarismo, e pertanto credo che i maggiori stakeholder, i maggiori poteri dell’intero sistema politico mondiale abbiano la responsabilità di non lasciare che il mondo si trasformi in blocchi. Noi ungheresi non vogliamo che il mondo venga nuovamente diviso in blocchi, ne abbiamo sperimentato l’impatto negativo sulla nostra storia, ci ha fatto perdere 40 anni della nostra vita. Vogliamo che il mondo sia interconnesso. Vogliamo che il mondo sia coinvolto nella connettività e nella cooperazione globale, ma una cooperazione globale rispettosa”.

Il primo ministro Viktor Orban ha appena affermato che l’Ucraina resta “anni luce” distante dall’essere invitata a far parte dell’Unione Europea. Perché l’Ungheria, membro della NATO, ha un’opinione così diversa sull’Ucraina rispetto alla maggior parte degli altri suoi paesi alleati? C’è qualcosa che Budapest sa e che gli Stati Uniti e l’Europa non dicono ai propri cittadini?

“Innanzitutto credo che sarebbe assurdo essere spinti a fare una valutazione reale di come l’Ucraina si sta comportando in termini di stato di diritto, magistratura, diritti politici – non ci sono elezioni – riguardo alla libertà di parola, quando c’è la censura durante la guerra. È impossibile dare un giudizio su tali questioni, così come si sviluppano in un paese in guerra. Questo è il primo motivo. In secondo luogo, l’Unione Europea dovrebbe esportare la pace e non importare la guerra. Temiamo che l’inclusione dell’Ucraina significhi anche l’inclusione della guerra e non lo vogliamo. Oltre a ciò c’è anche una questione molto importante per noi ungheresi. C’è una grande comunità ungherese, composta da 150mila persone, che vive in Ucraina, e i diritti di questa importante comunità sono stati attaccati negli ultimi 8 anni. Negli ultimi anni i diritti della comunità etnica ungherese sono stati tremendamente violati dall’Ucraina. Anche dopo che all’Ucraina è stato concesso lo status di paese candidato all’UE, questi diritti sono stati ulteriormente violati. Ma sapete, il rispetto dei diritti delle minoranze nazionali è tra le regole più importanti dell’UE. Quindi i paesi che si comportano così male non dovrebbero aspettarsi una decisione unanime a loro favore nell’Unione Europea”.

Il primo ministro Orban ha anche affermato recentemente che l’Ungheria deve dire no all’attuale modello europeo costruito a Bruxelles, aggiungendo che deve rimanere nell’Unione europea, ma l’UE dovrà essere cambiata. Come lo fareste? Qual è il modello che proponete? E se non riuscirete a cambiare l’UE, Budapest la lascerebbe? È per questo che state già invitando il popolo ungherese a partecipare ad un referendum sull’Europa?

“No, ovviamente non lasceremo mai l’Unione Europea. Facciamo parte dell’Unione Europea e rimarremo come Stato membro dell’Unione Europea. Vogliamo che l’UE sia forte. Vogliamo che l’UE sia molto più forte di quanto lo sia attualmente. Vediamo molti sviluppi che stanno indebolendo l’Unione Europea. Ad esempio, non vogliamo che l’UE sia gli Stati Uniti d’Europa. Non vogliamo che l’UE sia un superstato federale. Vogliamo che l’Unione Europea sia composta da Stati membri forti e dotati di una forte integrazione. Cosa significa Stati membri forti? Gli Stati restano fedeli al loro patrimonio, alla loro cultura, alla loro storia, alle loro specificità nazionali. Ma se le specificità nazionali vengono uccise, gli Stati membri vengono indeboliti e, se gli Stati membri sono più deboli, tutta l’integrazione sarà più debole. Quindi vogliamo un’Unione Europea più forte, ma dobbiamo capire che l’UE potrà essere forte solo nel caso in cui gli stessi Stati membri lo sono”.

Com’è lo stato dei rapporti dell’Ungheria con l’Italia e cosa pensa dell’accordo che il Primo Ministro Giorgia Meloni e il Primo Ministro albanese Edi Rama hanno recentemente siglato sulla questione migranti? Alcuni paesi in Europa pensano che sia una cattiva idea…

“Per prima cosa vorrei dirvi che rispettiamo molto Giorgia Meloni, rispettiamo molto il governo italiano, rispettiamo molto la decisione del popolo italiano. Siamo molto felici di lavorarci insieme e personalmente stimo molto il mio collega ministro Tajani e anche il ministro Salvini. Per quanto riguarda la migrazione abbiamo il nostro approccio e la nostra posizione. La nostra posizione è che solo le persone che hanno il diritto di venire in Europa dovrebbero poter venire. Tutti i paesi dovrebbero essere in grado di prendere la loro decisione sovrana. Chi avrebbero lasciato venire e chi no. Con chi vivrebbero insieme e con chi no. E questa non è una decisione che può essere presa a Bruxelles, a New York, a Washington o altrove. Tutti i paesi devono essere in grado di proteggersi, per garantire che chi si trova alle frontiere dell’Unione europea sia protetto e che le persone che entrano abbiano il diritto legale di entrare. Crediamo che l’immigrazione clandestina sia un crimine. Violare il confine di un paese è un crimine. Non si tratta di questione di diritti umani, ma di un crimine. Ci sono regole su come attraversare il confine di un paese. Ci sono regole su come entrare nel territorio di un paese. Se infrangi quelle regole, se le violi, commetti un crimine. Siamo molto aperti e onesti al riguardo, non ha nulla a che fare con i diritti umani”.

Sulla riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: quanto è urgente? Qual è la posizione dell’Ungheria?

“Crediamo che l’efficacia delle Nazioni Unite dovrebbe essere migliorata, senza dubbio, ma non vedo davvero l’interesse dei grandi paesi a conformarsi a tale scopo. Penso che oggigiorno resti importante il Consiglio di Sicurezza: i paesi che hanno rapporti ostili tra loro devono potersi incontrare. L’ONU e il Consiglio di Sicurezza continuano ad offrire una piattaforma per il dialogo, per la discussione tra questi paesi. Spero che le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza sopravvivano a questo periodo molto turbolento”.

Torniamo alla situazione di Gaza: l’Ungheria ha qualche informazione sui bambini israelo-ungheresi tenuti in ostaggio da Hamas nella Striscia?

“Purtroppo ci sono cinque cittadini ungheresi tenuti in ostaggio da Hamas. Tra loro ci sono due bambini. Siamo in contatto quotidiano con la task force del governo israeliano che si occupa di questo problema e sono in contatto regolare con la mia controparte del Qatar che ci sta aiutando con Hamas, per liberare gli ostaggi, ma questo è tutto ciò che sappiamo Purtroppo”.

È ottimista?

“Devo esserlo”.

Stefano Vaccara

(ITALPRESS).

Medio Oriente, Hamas “Vicino l’accordo sulla tregua”

ESTERI di

TEL AVIV (ISRAELE) (ITALPRESS) – Possibile svolta in arrivo in Medio Oriente. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha annunciato che è vicino un accordo sulla tregua con Israele. I negoziati tra le due parti si svolgono in Qatar, che funge da mediatore. L’annuncio potrebbe arrivare “a ore”. Secondo quanto emerge, l’accordo consisterebbe in una tregua di cinque giorni che includerebbe un cessate il fuoco nei combattimenti di terra e limiti alle operazioni aeree israeliane nel sud di Gaza. I gruppi militanti palestinesi libererebbero 50-100 ostaggi, civili israeliani o di altre nazionalità, ma non soldati. In cambio, 300 palestinesi, tra cui donne e bambini, sarebbero rilasciati dalle carceri israeliane.

– foto: Agenzia Fotogramma –
(ITALPRESS).

Medio Oriente, 26 morti dopo bombardamento a Sud di Gaza

ESTERI di

ROMA (ITALPRESS) – Sono almeno 26 i morti dopo un bombardamento aereo israeliano nel sud della Striscia di Gaza. E’ quanto rende noto la stampa locale. La città colpita è Khan Younis. Tra le vittime ci sarebbero anche diversi bambini. Colpita anche l’area intorno all’ospedale di Beit Lahiya, nel nord di Gaza. ventitre le persone rimaste ferite. Intanto lòesercito israeliano ha reso noto di avere attaccato postazioni e obiettivi di Hezbollah nel sud del Libano, dopo il lancio di razzi dal territorio libanese verso Israele nelle ultime 24 ore.

– foto: Agenzia Fotogramma –

(ITALPRESS).

Dalla Cina con “Filoli”, Xi rilancia Biden

ESTERI di

NEW YORK (STATI UNITI) (ITALPRESS) – Lascia perdere la guerra Joe, per farti rieleggere pensa all’economia! Il presidente cinese Xi Jinping nel vertice Apec di San Francisco, sembra suggerire al presidente degli USA Joe Biden lo slogan con cui uno sconosciuto governatore dell’Arkansas – Bill Clinton, “It’s the economy, stupid!”, 1992 – strappò la Casa Bianca al vincitore della prima guerra del Golfo George Bush. Non sarà un caso che per il primo incontro ravvicinato dove i due leader potevano sentire il fiato dell’altro senza paura del covid, sia stata scelta una villona chiamata Filoli, da un miliardario californiano, ex cercatore d’oro, che usò l’abbreviazione del suo motto: “FIght for a just cause. LOve your Fellow Man. LIve a Good Life”. (Combatti per una causa giusta. Ama il tuo prossimo. Vivi bene la vita).
Per almeno dieci anni ormai, gli esperti “falchi” di think tank e di università Ivy League hanno cercato di convincerci che la resa dei conti finale tra Cina e USA non si analizza sul se ma sul quando sarebbe avvenuta. Come se nelle relazioni internazionali, restare “Number One” costringesse ogni potenza al conflitto con l’attuale “numero due”. E se invece in questo mondo ci fosse posto per entrambi? Proprio così si è presentato Xi da Joe, perché nonostante i loro sistemi politici opposti, in passato le due economie hanno tirato la volata all’altro, allora perché non riprovarci?
Per gli ultimi trent’anni la crescita della Cina è stata trainata dai consumi e investimenti americani, mentre a sua volta Pechino ha “finanziato” gli USA e il suo stato di superpotenza mondiale comprando i suoi titoli di stato. Questo legame aveva funzionato a lungo, fino a quando si è imposta una “narrativa” strategica che invece di suggerire come i due giganti dovessero “correggere” certe storture che sbilanciano il rapporto – troppo a favore della Cina – ha raccontato che fosse giunta l’epoca della resa dei conti “manu militari”. Così Taiwan, l’isola tigre economica virtuosa iper tecnologica che finora aveva servito entrambe le economie delle due superpotenze, di colpo diventava la “casus belli” per una guerra che nessuno potrebbe mai vincere senza distruggere il mondo.
Invece Biden e Xi, nella città dove 78 anni fa furono create le Nazioni Unite, sono tornati a parlarsi di nuovo da benigni “competitor” più che da maligni “nemici”. Questo perché la crisi dell’economia cinese, che negli ultimi due anni continua a tirare il fiato dopo anni di crescita record, deve aver convinto il Partito Comunista cinese, da sempre tutore della stabilità sociale attraverso la crescita, che non sarà mai rafforzando il rapporto con l’arrugginita economia di guerra di Putin o le speranze di sostituire il dollaro con la valuta immaginaria dei BRICS, che si potrà continuare ad avere la fiducia di un miliardo e 200 milioni di cinesi che si affidano al partito creato da Mao e che con Xi è tornato a concentrare tutto il potere nel “timoniere”.
Per questo Xi, nelle prime parole dette a Biden, gli ha ricordato che è la mancanza del loro tradizionale collaborazione economica che ha reso le relazioni sino americane “stupide” e quindi il mondo “pericoloso”, e che alla stabilità globale non c’è alternativa al ritorno della piena intesa finanziaria -commerciale-tecnologica-sanitaria tra Washington e Pechino, come avveniva fino a pochi anni fa.
Dal vertice di San Francisco, anche Biden aveva un estremo bisogno dell’aiuto di Xi Jinping per la “bella figura”, perché l’ex presidente Donald Trump, il suo maggiore ostacolo per poter restare alla Casa Bianca, ripete nei comizi che solo con lui gli USA potrebbero evitare la guerra con la Cina (o con la Russia), perché tutti i leader del mondo temono lui e disprezzano “Sleepy Joe” (Joe l’addormentato). Invece Biden si è svegliato e ha raggiunto a San Francisco risultati importanti, come l’annuncio di aver ristabilito la comunicazione militare con la Cina (per evitare l’incidente già più volte sfiorato), che è stata raggiunta l’intesa per la collaborazione con i cinesi sul problema delle importazioni illegali di fentanyl e, come ai tempi della “linea rossa” tra Casa Bianca e il Cremlino, c’è stata da entrambi i leader la promessa che prima di peggiorare le relazioni tra le due superpotenze, i due avranno una comunicazione diretta e immediata per chiarirsi e abbassare i toni.
Basterà un vertice riuscito a “calmare” il mondo? Un primo segnale di nuova collaborazione sino-americana arriva dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che dopo 40 giorni di “blocco totale”, proprio mentre Biden accoglieva Xi, ha finalmente passato una risoluzione umanitaria su Gaza presentata da Malta. Si apre un nuovo ciclo nelle relazioni? “Trust but verify “ ha detto Biden come faceva Reagan con Gorbaciov, che poi nella “gaffe” di chiamare “dittatore” Xi alla fine della conferenza stampa fino a quel momento “staged”, ha forse tolto all’avversario Trump la possibilità di attaccarlo sull’essere troppo “accomodante” con il leader cinese.
Per il “dittatore” Xi, la tappa di San Francisco era fondamentale per cercare di riposizionare una strategia economica cinese che nella “rivalità a tutto campo” – più subita che voluta – con gli USA aveva finora stentato. Per Biden doveva soprattutto servire a stabilire che, se il vecchio presidente riuscirà a farsi confermare dal suo partito come candidato alla Casa Bianca (ad ogni apparizione pubblica appare più affaticato dei suoi 81 anni), la performance nell’economia della sua amministrazione, più che i processi giudiziari, potranno aiutarlo a tenere lontano Trump dalla Casa Bianca.

Stefano Vaccara

– Foto profilo Instagram Casa Bianca –

(ITALPRESS).

Prove di disgelo tra Usa e Cina. Incontro tra Biden e Xi a San Francisco

ESTERI di

SAN FRANCISCO (ITALPRESS) – “Un pareggio, ma attenzione ai tempi supplementari” è la valutazione pressoché unanime dei media e degli analisti di strategie politiche e militari. I tempi supplementari misureranno il mantenimento dei pochi, ma significativi, impegni reciproci che Biden e Xi Jinping hanno concordato nelle quattro ore di colloqui a San Francisco. In più importante, dal punto di vista strategico, é la riattivazione del canale di comunicazione diretta fra la Casa Bianca e il Zhongnanhai, il quartier generale del leader cinese. Per “capirsi reciprocamente in modo chiaro” ha chiosato Biden. Un sorta telefono giallo, per distinguerlo da quello rosso con Mosca, da usare in caso di malaugurate emergenze o picchi di tensioni militari. Non meno importanti le reciproche garanzie su Taiwan: Xi ha assicurato che non sono previste azioni militari da parte della Cina, mentre Biden ha ribadito la politica americana che riconosce una sola Cina. Su Taiwan “i tempi supplementari” sono però iniziati subito: Washington ha chiesto che Pechino non interferisca sulle imminenti elezioni che si svolgeranno nell’Isola contesa e Xi ha replicato chiedendo a Biden di smettere armarla e di sostenere piuttosto la riunificazione pacifica con la Cina. Obiettivo da lui definito “inarrestabile”.
Smussato il confronto militare fra le due superpotenze e riportata entro l’ambito diplomatico la questione di Taiwan, il vertice ha avviato un concreto disgelo e, aspetto questo decisivo per la Cina, ha rilanciato le prospettive economiche. “Abbiamo fatto alcuni importanti progressi, i colloqui sono stati molto costruttivi e produttivi. ” ha confermato nella conferenza stampa il Presidente degli Stati Uniti, che a proposito della verifica dei tempi supplementari ha risposto ad una domanda affermando considerare ancora Xi un “dittatore”, per poi specificare: “in quanto comunista”. Un chiaro riferimento alla sistematica violazione dei diritti umani e alla spietata repressione del dissenso da parte dell’ultimo grande regime comunista del mondo. Visto dalla imperscrutabile parte cinese, l’esito del vertice si può definire double face. Xi Jinping ha affermato di considerare la partnership tra Stati Uniti e Cina “la relazione bilaterale più importante al mondo” e ha specificato che lui e Joe Biden “si assumono pesanti responsabilità per i due popoli, per il mondo e per la storia”. Biden ha condiviso e rilanciato, insistendo sull’importanza e sul grande valore che i due leader si siano parlati di persona, sottolineando che: “Non c’è alternativa alle discussioni faccia a faccia”. “Dobbiamo fare in modo che la competizione non sfoci in un conflitto”- ha aggiunto il Presidente americano – “e dobbiamo anche gestirla in modo responsabile…e lavorare insieme quando riteniamo che sia nel nostro interesse farlo”. A questo punto il Presidente cinese ha espresso un concetto che riassume tutto il senso propositivo del summit di San Francisco : “il Pianeta Terra é abbastanza grande” per entrambi i paesi, che sono in grado di “andare oltre le differenze”. Per due grandi nazioni come la Cina e gli Usa, “voltare le spalle l’uno all’altro non é un’opzione” ha affermato testualmente Xi Jinping. L’altra faccia dell’impatto cinese, che ancora non si scorge, riguarda il quanto e il come la ritrovata distensione con gli Stati Uniti potrà rilanciare l’economia e l’interscambio globale. Fattori vitali per Pechino. Aspetto collaterale ancora più importante di questa sorta di spirito di San Francisco é l’isolamento di fatto della Russia di Putin, che annaspa nelle sabbie mobili della fallita e disastrosa invasione dell’Ucraina.
Ma se per Mosca occorreranno ancora dei mesi perché sia evidente lo scostamento economico politico del baricentro delle relazioni cinesi, immediato é l’isolamento del terrorismo islamico internazionale che infiamma il Medio Oriente. Il rischio di deflagrazione del conflitto nell’area strategica del Mediterraneo allarma non poco la Cina che vedrebbe compromesse le rotte commerciali per il mercato Europeo. Se non è un miraggio, per la prima volta da anni si intravede un effetto domino di pace e non di guerra.
-foto Agenzia Fotogramma-
(ITALPRESS).

admin
0 £0.00
Vai a Inizio
×