I rischi operativi di una no-fly zone sui cieli ucraini per contrastare gli attacchi aerei russi

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Ormai, da giorni che le autorità di Kiev chiedono in maniera forte alla NATO di mettere in moto una zona d’interdizione al volo (c.d. no-fly zone) nello spazio aereo ucraino per contrastare l’aggressione russa sul territorio dell’Ucraina, alleviare le sofferenze umanitarie e proteggere i civili ucraini che tentano di scappare dai continui bombardamenti.

Kiev ha chiesto, in maniera martellante, la creazione di una zona che impedisca il volo di velivoli militari russi sul proprio spazio aereo. Certamente, non va non ritenuto che l’applicazione della no-fly zone comporta l’impego della forza militare e, nel caso ucraino, ciò sta ad indicare probabilmente affrontare le truppe russe vis-à-vis, non solo, ma un’interdizione dello spazio aereo ucraino da parte della NATO costituirebbe un rischio da evitare, tanto da preoccupare gli Stati membri del Patto atlantico. Ciò porterebbe ad aprire il vaso di pandora a conseguenze ardue e in un vortice senza via d’uscita,anche se la no-fly zone potrebbe essere di grande utilità per proteggere i corridoi umanitari, attraverso l’impegno militare dell’Alleanza atlantica con la Russia.

L’istituzione di un divieto del volo, nello spazio aereo dell’Ucraina considerato, che necessita di una massiccia presenza di forze belliche, ha già ottenuto la risposta del Cremlino,dichiarando che coloro che prendessero parte a tale interdizione aerea, con riferimento ai Paesi occidentali e ai membri della NATO, verranno considerati parti al conflitto bellico. Una no-flyzone sta ad indicare, dunque, il divieto di volo per tutti i velivoli non autorizzati nello spazio aereo, che si trova sopra una porzione definita di territorio, dello spazio da cui alcuni velivoli sono esclusi con l’azione coercitiva, spesso come misura per proteggere la popolazione civile che vive al di sotto, cioè a dire di quello spazio entro cui la navigazione aerea è interdetta e gli aerei belligeranti si avventurano a loro rischio e pericolo. 

Affinché venga imposta una no-fly zone, la superiorità aerea militare viene considerata un parametro fondamentale per tutelare i piloti di velivoli militari dell’Alleanza atlantica. Per fare ciò è necessario la distruzione di qualsiasi sistema difensivo aerea terrestre e di combattimento aereo, nel caso in cui i caccia dell’organizzazione militare atlantica dovessero affrontarsi con quelli battenti bandiera russa. 

A prescindere della necessità di determinare la superiorità aerea militare nell’attaccare postazioni di truppe russe sul territorio ucraino, il modus operandi della no-fly zone richiederebbe un impegno continuativo dei velivoli militari battenti bandiera degli Stati membri dell’Alleanza atlantica. Impegno che include non solo aerei da combattimento degli alleati che vi partecipano, ma vi è dietro un’ampia logistica come l’impiego di velivoli con sistemi di allerta e di controllo aviotrasportato e velivoli con commando integrato e gestione della battaglia di controllo, così come di aerei cisterna per rifornire in aria di carburante i caccia in volo. Inoltre, una zona d’interdizione al volo comporterebbe l’istituzione di una Joint Forces Air Component Command (JFACC), una struttura di commando e controllo che viene attivata durante una crisi, utile per pianificare, sviluppare, assegnare e condurre missioni aeree.

Il Cremlino ha già dichiarato, nel caso in cui venga a costituirsi una no-fly zone nello spazio aereo ucraino da parte dei velivoli militari del Patto atlantico, che tale interdizione di volo equivarrà all’entrata in guerra della NATO. Dunque, la messa in atto di una no-fly zone costituirebbe un’estensione dell’escalation, tanto da poter comportare un allargamento del conflitto bellico oltre le frontiere ucraine. 

La prassi dell’istituto no-fly zone ha avuto degli esiti positivi in alcune interessanti operazioni militari come nell’Iraq con l’operazione southern watch e provide comfort/northern watch, in Bosnia con l’operazione Deny Flight e, infine, in Libia con le operazioni Odyssey Dawn e Unified Protector.   Circa le operazioni in Iraq di no-fly zone, i Paesi occidentali coalizzati con gli Stati Uniti ebbero modo di azionarsi contro il sorvolo di velivoli militari iracheni nello spazio aereo kuwaitiano, dopo la fine delle ostilità nel primo conflitto bellico del Golfo. Dopo l’espulsione delle truppe irachene dal territorio del Kuwait nel 1991, le popolazioni curde al nord e sciita al sud dell’Iraq si ribellarono contro il governo di Saddam Hussein, il quale rispose un attacco aereo ed elicottero sui curdi e sugli sciiti. Dinanzi a questa drammatica situazione, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite istituiva una “zona di sicurezza” nelle zone che furono sotto assedio dei velivoli iracheni per tutelare l’incolumità dei civili curdi al nord e degli sciiti a sud e impedire la repressione della popolazione civile irachena in molte parti dell’Iraq. Nel conflitto in Bosnia-Erzegovina, come ulteriore esempio, le atrocità sui civili spinsero l’Alleanza atlantica a imporre una no-fly zone, dopo che il Consiglio di Sicurezza adottò una risoluzione per interdire qualsiasi volo nello spazio aereo bosniaco-erzegovino a formazioni aeree delle parti coinvolte nel conflitto, autorizzando, pertanto, sia gli Stati, sia la NATO ad adottare tutte le misure necessarie per assicurare il rispetto del divieto di volo con l’operazione Deny Flight, che puntava a impedire qualunque operazione militare sui cieli della Bosnia-Erzegovina. Per quanto riguarda l’organizzazione militare internazionale, a carattere regionale, quest’ultima, per la prima volta, partecipava a un conflitto, al di là delle previsioni stabilite dal Trattato atlantico. Si potrebbe aggiungere un altro esempio come l’intervento militare NATO in Libia con le operazioni Odyssey Dawn e UnifiedProtector, compresa il divieto di sorvolo. L’organo politico onusiano autorizzava con l’adozione di una risoluzione l’uso della forza, inclusa la creazione di una no-fly zone per proteggere i civili e le zone abitate prese di mira dalle forze leali al governo in carica. La risoluzione, difatti, si rivolge(va) agli Stati chiedendo di intraprendere tutte le misure necessarie sia per proteggere i civili e le aree popolate sotto attacco, inclusa Bengasi, sia per garantire il rispetto della zona d’interdizione al volo.

La focalizzazione della prassi della no-fly zone, vista poc’anzi, ha dimostrato come la superiorità aerea abbia favorito l’incolumità delle popolazioni. Nel caso dell’Ucraina, la NATO, per stabilire una no-fly zone, deve costruire una salda e superiore struttura aerea militare per attaccare le postazioni difensive russe oppure posizionare i propri velivoli militari dell’alleanza per imporre l’interdizione di volo agli aerei militari russi, che in ogni caso esporrebbe gli aerei dell’Alleanza atlantica al micidiale fuoco delle Russia con le sue arme mobili S-400 che potrebbero operare dal suolo ucraino o da quello russo pronti per colpire i velivoli militari del Patto atlantico.

 Sul piano del diritto, mentre è in corso il conflitto russo-ucraino, le autorità di Kiev sono nella liceità di rivolgersi e chiedere agliStati terzi il supporto militare anche aereo per legittima difesa collettiva contro l’aggressione russa. La partecipazione di soggetti terzi nell’applicazione della no-fly zone nello spazio aereo ucraino riceverebbe, da parte di Mosca, una dura risposta, giacché tale operazione, come è stato già detto, viene equiparata all’entratanello scacchiere bellico della NATO. 

Qualcuno, sostenendo la necessità di istituire no-fly zone, non ha posto in chiaro quelli che devono essere i netti contorni di tale operazione militare, qualora limitasse ad escludere velivoli militari battenti bandiera russa dallo spazio aereo ucraino o comportasse anche attacchi contro le truppe di terra russe. Una interdizione di zona di volo richiederebbe con molta probabilità non solo la minaccia dell’azione coercitiva militare, ma anche attacchi da parte di Stati coalizzati inter sé contro le truppe militari della Russia, nel senso che l’applicazione della no-fly zoneda parte degli Stati Uniti e dei Paesi membri del Patto atlanticonecessiterebbe di un confronto armato diretto con la Russia, che verrebbe senza alcun dubbio considerato come un ingresso dell’Occidente in guerra.

Di Giuseppe Paccione

Bookreporter Settembre

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