I tristi risultati dei test invalsi, davvero e’ colpa della dad?

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Cercare una scusa, un capro espiatorio, un responsabile che non sia il diretto interessato è uno degli sport sicuramente più praticati al mondo e noi italiani forse non siamo secondi a nessuno. L’ultimo episodio quello di cercare di incolpare la famigerata didattica a distanza dei disastrosi esiti dei test invalsi da parte di studenti che hanno superato l’esame di maturità e hanno rivelato una preparazione da terza media. Senza tema di smentita possiamo dire che viene confermato un trend da anni costante al quale DAD e pandemia hanno quasi certamente contribuito, ma che non può trovare in queste ultime la sua unica ragione.

Una premessa: stiamo parlando di diciottenni, vale a dire quella categoria di nuovi elettori a cui stiamo per dare il diritto di voto anche al senato per “allargare la rappresentatività” e riconoscere la loro partecipazione alla vita sociale. La democrazia ha alla sua base il principio che ogni testa rappresenta un voto, ma è lecito porsi qualche dubbio. In letteratura lo fece addirittura Peppone, il sindaco comunista amico e rivale di Don Camillo che non riusciva a capacitarsi di come il voto di un analfabeta sempre ubriaco potesse avere lo stesso valore del suo, capo della sezione comunista e, ancorché non istruito, almeno in grado di leggere e scrivere. Letteratura a parte il problema dell’educazione dei giovani deve essere affrontato specialmente adesso che non esisteranno più pandemie e DAD (così almeno dichiara il Ministro dell’Istruzione) per essere sbandierate come scuse.

Dopo che nel 2020 i test non si erano svolti causa pandemia, quest’anno il confronto è stato fatto con il 2018 e ha evidenziato un calo nell’apprendimento dell’italiano dove la quota degli studenti che non ha raggiunto il livello minimo è passata da 34% del 2018 al 39% e i dati parlano di una crescita maggiore tra gli studenti che provengono da famiglie economicamente svantaggiate. Il peggioramento è stato addirittura più evidente in matematica: la quota degli studenti che non ha raggiunto il livello minimo è passata dal 40% del 2018 al 44% con Toscana, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna addirittura sotto la media nazionale del 2018.

 Leggere questi dati è sconsolante e analizzarli insieme ad alcune “interviste” che circolano online in cui vengono esibiti casi estremi di giovani che non sanno coniugare verbi, che attribuiscono a Verga e Foscolo I Promessi Sposi, sono convinti che la Costituzione Repubblicana sia del 1980 e la Seconda Guerra Mondiale terminata nel 1960. Voglio credere che gli intervistatori, in cerca di sensazionalismo, esibiscano solo i casi più patetici, ma il dubbio rimane specialmente quando si scopre che molti diplomati non conoscono nomi come Melville o Giulio Verne e che in alcuni casi i programmi di storia svolti, causa la loro vastità, si fermino alla Prima guerra mondiale.

Educazione, come viene fatto acutamente notare da Ernesto Galli Della Loggia, viene dalla radice latina e-ducere, tirar fuori ciò che sta dentro; altra etimologia, ma che lascia invariato il significato profondo sarebbe il verbo educare, come trarre fuori, allevare. Oggi educare in italiano è più utilizzato per le buone maniere, che siano a tavola o in rete, ma non nel senso più corretto con cui viene usato in lingua inglese di istruzione che viene intesa non certo come un sapere generico, ma come preparazione concreta al mondo del lavoro. To invest in instruction è qualcosa che all’estero accade mentre noi siamo legati ancora al vecchio concetto di “prendere un pezzo di carta”. Una mentalità dura da cambiare.

I nostri giovani i più impreparati d’Europa?  In attesa di tutti i risultati per i tristi paragoni riflettiamo ciò che venne puntualizzato su Il Sole 24Ore dopo i test del 2019, quando si pose in evidenza che esisteva un profondo divario tra nord e sud, anche oggi confermato; che le insufficienze iniziano dalla seconda primaria e aumentano negli anni successivi (medie e superiori), invece che ridursi e, ultimo punto, sempre triste realtà, che uno studente su tre non ha competenze adeguate e oltre a non comprendere testi e numeri, non ha capacità logica di assimilare concetti. Si chiama analfabetismo funzionale; un’altra materia in cui il nostro paese è ai vertici europei.

Chissà se l’origine di tutto ciò può essere fatta risalire a quando gli SMS hanno fatto nascere la moda di scrivere “x” invece di “per” e, di conseguenza invece di “perché” si crede sia corretto scrivere “Xkè”; o forse le radici siano il lassismo post sessantotto che porta ancora avanti la sua onda lunga. Si potrebbe, forse più correttamente, trovare la radice del problema nella scellerata abolizione degli esami di seconda elementare e poi quelli di quinta, magari da qualcuno giustificata dalla necessità di evitare traumi ai poveri fanciulli.

In ogni caso, invece di cercare le ragioni per cui siamo giunti a tutto ciò, è necessario porre immediato rimedio. I nuovi contesti digitali non facilitano di certo l’opera di chi deve intervenire; è fantasia quella di immaginare che qualche diplomato e laureato abbia svolto tutto il suo percorso scolastico tra Wikipedia e Google solo con il copia incolla? E magari con una tesi di laurea realizzata da “centri di assistenza” e, giusto per esagerare (forse), aggiungiamo qualche anno di bocciature recuperato con scuole private e tre anni in uno.

La strada da percorrere sembra lunga e dura.

Bookreporter Settembre

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