De André canta De André “Storia di un impiegato”

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Applausi ed un affetto immediato e totale accolgono Cristiano De André non appena questi appare sul palcoscenico della Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. <<Dovrò trasferirmi a Roma>> dice visibilmente colpito, riferendosi apertamente al calore che il pubblico capitolino da sempre gli riserva.

“De André canta De André” è una formula dal successo ormai collaudato. Lo spettacolo, che prima consisteva sostanzialmente nella riproposizione delle canzoni di Fabrizio De André (spesso riviste negli arrangiamenti), è ora portato ad un livello superiore. Il tentativo è quello di esplorare, studiare, approfondire in modo organico e, in fine, riproporre nell’attualità l’opera del padre, per il suo valore non solo letterario ma sociologico e politico.

L’opera scelta è “Storia di un impiegato”, concept album dedicato al “maggio francese”, disco scritto e composto da Fabrizio De André assieme a Giuseppe Bentivoglio e Nicola Piovani.

Fabrizio non cavalcò mai l’onda di quel periodo, anzi, ne prese costantemente le distanze tant’è che negli anni del ’68 si occupò di vangeli apocrifi (La buona novella) e degli epitaffi di Lee Masters (Non al denaro, non all’amore nè al cielo), allo stesso modo nel 1973, nel cuore degli anni di piombo, tornò invece con un’opera sul “maggio francese”, sul ’68 appunto. L’album non va, a mio avviso, assolutamente visto come una celebrazione (anche se a tratti gustosissima). Fabrizio parla di questo impiegato che diventa bombarolo con scientifico distacco però, secondo me, è innegabile che traspaia una certa nostalgia per quei ragazzi che “lottavano così come si gioca”, in anni dove non si gioca più, anni bui di attentati, gambizzazioni, eversione, terrorismo, strategia della tensione.

I contributi video, che scorrono sincronizzati con luci (bellissime) e musica su dei pannelli posti sul fondo del palcoscenico, costituiscono parte integrante dello spettacolo, sono anzi l’elemento che più contribuisce a contemporaneizzare i contenuti con la visualizzazione di scene tratte dalla più corrente attualità (i gillet gialli) o icone di questa nostra epoca (Trump, Putin, Kim Jong-un).

Una menzione particolare merita “Canzone del padre” che, nella specifica situazione e per la storia stessa di Cristiano, assume significati ulteriori ed emozionanti fino ai brividi, mentre sullo sfondo giganteggia l’immagine di Fabrizio che stringe la mano a Cristiano.

“Nella mia ora di libertà” viene cantata un po’ da tutti con visibile commozione, una canzone il cui significato è stato ultimamente molto “piegato”, a livello politico, dirompe invece con la sua essenziale profonda umanità: solitaria, pessimista ed esistenzialista.

E’ dunque lasciato totalmente a musica, video e luci il compito di costruire il “fil rouge” che guida gli ascoltatori fin dentro al racconto di “Storia di un impiegato”.

La viva voce di Cristiano arriverà invece soltanto alla fine della prima parte, sia a chiarire quanto abbondantemente caratterizzato durante lo spettacolo, sia ad annunciare che nella seconda parte si parlerà sempre di potere (o di poteri) ma nel mondo attuale dove il potere spesso è celato o addirittura evocato dalle masse prone verso mode, feticci o semplice passiva abitudine.

 

Seconda parte dove però il racconto appare meno efficace, meno lucido. Viene il sospetto che senza il preambolo fatto da Cristiano sarebbe stato impossibile intuire quali fossero le sue intenzioni comunicative, mentre, nella prima parte, immagini e musica urlavano chiaramente dicendo più di quanto le parole potrebbero mai fare.

D’altronde “Storia di un impiegato” era un concept album, ovvero un disco pensato, ragionato e scritto per portare avanti in modo nitido delle idee, dei concetti per l’appunto. Non era dunque facile procedere a quel livello anche in questa seconda parte oppure, e mi piace pensare questo, dovremo attendere un’evoluzione futura dello spettacolo dove mi piacerebbe che fosse inserita anche qualche canzone dal bellissimo repertorio di Cristiano De André. “Natale occidentale” sarebbe stata perfetta, seppure capisco che avrebbe potuto prestarsi agli atteggiamenti da tifoseria che accompagnano spesso l’attuale opposizione politica. L’omaggio a Genova con “Creuza de mä” e “khorakhanè” sono due dei momenti più intensi di questo secondo atto. “Il pescatore” in versione rock e “Don Raffaè” riescono ad essere la consueta grande festa collettiva che suggella il volgere al termine di questa stupenda <<messa laica>> celebrata da Cristiano De André ad omaggiare e ringraziare Fabrizio, vera e propria <<Tachipirina per l’anima>>.

 

Bravissima la band dove brilla, come sempre, il fedele e bravissimo Osvaldo Di Dio alle chitarre. Forse il suono della batteria era un po’ troppo compresso, sacrificato nelle sfumature a vantaggio dell’impatto, della fisicità del suono. Tecnici ed ingegneri di palco e di sala pressoché impeccabili. Sacrificato anche il ruolo del violino, imbracciato solo un paio di volte e mai per parti di primissimo piano.

Il concerto è finito, il pubblico si è già in parte alzato dalle poltrone ma Cristiano torna sul palcoscenico per un ultimo bis (assolutamente fuori programma) regalandoci una promessa che vogliamo mantenere con “Canzone dell’amore perduto”: non ci lasceremo mai…

 

ROMA 11 febbraio 2019 Auditorium Parco della Musica, sala Santa Cecilia.

Recensione di Luis “Redwood” Almasi

Foto di Claudio Enea

Bookreporter Settembre

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