Ora che i riflettori mediatici su Kobane si sono spenti, mentre altre zone intorno alla città vengono lentamente liberate dall’assedio di ISIS, è ancora più importante monitorare la situazione, per capire quali interventi è possibile mettere in campo per sostenere concretamente la ricostruzione della città e la ripresa della vita, che è comunque già cominciata.
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Più di 200.000 persone, durante l’assedio della città, si sono riversate oltre il confine turco-siriano, dislocandosi fra i campi approntati dalle municipalità locali, soprattutto a Suruç, e i campi ufficiali del governo turco. Questi ultimi, dopo aver constatato come venivano gestiti, ossia in maniera autoritaria e vietando perfino l’istruzione in curdo ai bambini, imponendo la lingua turca a persone che conoscevano solo il curdo e l’arabo, si sono spesso allontanati per l’impossibilità di vivere in quelle condizioni, riversandosi nei campi gestiti e sostenuti dalle municipalità a maggioranza curda.
I campi “autogovernati” non hanno però potuto contare sul sostegno internazionale, a causa dell’embargo de facto contro l’intero cantone causato soprattutto dall’opposizione del governo turco; ma hanno rappresentato e tutt’ora rappresentano una risposta concreta ed efficace alla domanda dei profughi, che già all’indomani della liberazione della città hanno cominciato a voler rientrare a Kobane, dapprima in piccoli gruppi, via via sempre più consistenti. Se ne contano attualmente circa 85.000.
Numerosi problemi li hanno attesi al loro rientro: dalle mine inesplose che i miliziani di ISIS ha lasciato dietro di sè, per ostacolare la ripresa della vita in città, alla totale distruzione lasciata sul terreno da quattro mesi di scontri violentissimi e di bombardamenti effettuati dalla coalizione. Numerosi civili hanno trovato così la morte dopo la liberazione della città, a causa delle mine o per l’impraticabilità di alcune zone; inoltre sono presenti ancora numerosi corpi non sepolti di miliziani di ISIS sotto le macerie, fatto che rischia – con l’aumento delle temperature dovuto all’arrivo della primavera – di provocare pericolose epidemie.
E’ necessario dunque agire con urgenza per mettere in sicurezza la città e consentirne la ricostruzione e il ripopolamento: ecco perchè è tutt’ora fondamentale l’apertura di un corridoio umanitario al confine, a cui la Turchia continua ad opporsi, che permetta il passaggio di materiali per la ricostruzione, di equipaggiamento sanitario, di personale medico e tecnico che contribuisca alla soluzione di questi problemi, di vestiti, medicinali, e tutto quanto serva. Occorre disinnescare le mine, ripristinare una fornitura regolare di energia elettrica e di acqua, ricostruire le case e le altre infrastrutture (l’80% della città è stato distrutto).
Un appello urgente è stato lanciato dal Comitato per la ricostruzione di Kobane, rapporto che contiene nel dettaglio la stima dei danni e delle necessità urgenti per permettere il rientro dei profughi, e che individua tra l’altro tra le priorità la costruzione di un campo profughi temporaneo di almeno mille tende, con servizi igienici, quattro scuole e due punti di assistenza sanitaria (http://helpkobane.com/it/wp-content/uploads/sites/6/2015/04/IT-Kobane-Report.pdf). Tutto questo per consentire l’avvio di tutte quelle azioni che possano ricostruire il tessuto sociale ed economico della città, dall’agricoltura all’allevamento al commercio, dalla costruzione delle fogne al ripristino delle fonti energetiche (http://helpkobane.com/it/wp-content/uploads/sites/6/2015/04/IT-Kobane-Report-II.pdf).
E’ il minimo che si possa fare per riconoscere la resistenza del popolo di Kobane che è costata più di mille morti in quattro mesi, e che è stata ed è una lotta per l’umanità. Diversi gruppi di attivisti e di semplici cittadini in vari paesi, tra cui l’Italia, stanno dando il loro contributo, organizzandosi per raccogliere fondi e materiali e realizzando progetti di cooperazione dal basso per rispondere ad alcune di queste esigenze (http://www.helpkobane.com/ o http://www.mezzalunarossakurdistan.org ): ma la “comunità internazionale” non sembra darsi da fare con lo stesso impegno.
Nonostante le analisi e le prese di posizione di organismi internazionali come l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera e la sicurezza sulla Siria, il Consiglio d’Europa a marzo, il Parlamento Europeo ad aprile, così come dopo le missioni sul campo di Organizzazioni non governative che si occupano di messa al bando delle mine, di ricostruzione e di salute, nulla ancora sembra muoversi.
Inoltre, l’avvicinarsi delle elezioni legislative in Turchia il prossimo 7 giugno, strategiche per il progetto di presidenzialismo perseguito da Erdogan e dal suo partito, sta acuendo la tensione e mostrando di nuovo il vero volto dell’AKP, il partito di governo, che invece di occuparsi dei problemi dei curdi, è impegnato piuttosto ad alzare il livello della tensione continuando a negare l’apertura di un corridoio umanitario e organizzando provocazioni per avvantaggiarsi dei voti nazionalisti.
Il forte entusiasmo che sta suscitando il nuovo partito HDP (Partito democratico dei Popoli), che propone una politica nuova rispettosa dei diritti di tutte le minoranze (dunque non solo dei kurdi), dei giovani, delle donne, ispirata a principi ecologici, sembra indicare che esso riuscirà a superare l’odiosa e antidemocratica soglia di sbarramento del 10% per entrare in parlamento: se questo accadrà, il gruppo di parlamentari dell’HDP potrà lavorare con più forza alla democratizzazione della Turchia, ma anche all’apertura del corridoio umanitario e alla ricostruzione di Kobane, nonché alla risoluzione democratica della questione kurda e dunque a una stabilizzazione della regione, che potrà avere effetti positivi su tutta l’area mediorientale ancora così piegata da guerre e dittature.
E’ importante che anche in questa occasione osservatori internazionali si rechino in Turchia per monitorare il processo elettorale: potrebbero verificarsi brogli come in passato, perchè le forze che si oppongono al cambiamento e alla pace hanno sempre cercato di impedire alla popolazione di esprimersi liberamente, sfruttando tutti i mezzi per impedire ai kurdi di superare la soglia del 10% (http://www.uikionlus.com/apello-per-elezioni-7-giugno-in-turchia/).
In conclusione: la strada è ancora lunga, ma forse davvero la città di Kobane, dopo essere diventata simbolo di resistenza per il mondo intero, può diventare simbolo di rinascita e di pace anche grazie al sostegno e all’attenzione internazionale.
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di Suveyda Mahmud