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Ripartire dalle persone per tutelare i diritti umani

EUROPA di

Il 18 giugno il Centro studio Roma 3000 ha tenuto il convegno “La tutela dei diritti Umani nelle Aree di Crisi” ed è stata l’occasione per riflettere con ospiti importanti su ciò che succede e su cosa occorrerebbe fare. Le aree di crisi sono ovunque e di molti tipi. Possiamo pensare ai conflitti armati che si svolgono nel mondo, agli scenari dovuti all’economia e alle crisi economiche o a ciò che succede dopo i disastri ambientali. Il filo conduttore vede disagi, necessità di assistenza, diritti negati che hanno bisogno di tutela per uomini, donne e bambini.

     Alessandro Forlani (esperto di diritti umani e affari internazionali), ha sottolineato che ormai nella nostra società è sempre più importante e inevitabile porre l’attenzione alle relazioni internazionali e ai fenomeni collegati. A ciò si collega la necessità di coinvolgere e rendere partecipe l’opinione pubblica poiché certi fenomeni, come i conflitti che cadono in larga misura nel nord africa e nel Medioriente, assumono carattere di cronicità. Nella maggior parte dei casi vi sono attori che hanno interesse a mantenere il caos in casi come quelli del conflitto arabo-israeliano, quello siriano e quello libico. In questi contesti, come ha evidenziato Rosario Valastro (vicepresidente Croce Rossa Italiana), si aggiungono questioni come la pericolosità per gli operatori umanitari. A riguardo abbiamo scambiato qualche rapida domanda:

EA: ultimamente viene messo in risalto la sicurezza degli operatori sanitari, cosa sta accadendo?

Rosario Valastro: ci troviamo in un periodo in cui veramente sembra che le norme del vivere civile abbiano avuto un’involuzione clamorosa di oltre un secolo e mezzo. Abbiamo delle problematiche di pericolo di tutela degli operatori sanitari dove esistono dei conflitti in questo momento. La Siria è quella che purtroppo va alla ribalta per la quantità dei numeri, abbiamo circa 90 tra volontari e operatori che hanno perso la vita in questi anni. Anni in cui anche l’ONU ha perso il conto di quanti civili sono stati uccisi durante la guerra. Ma quello della Siria, ripeto, è alla ribalta per l’enormità dei numeri ma questo accade anche in Yemen, accade anche altrove e pone un serio problema circa la reale volontà delle parti di tutelare la popolazione civile. Noi sappiamo che la tutela degli operati sanitari, delle strutture sanitarie e del materiale sanitario è funzionale alla cura della popolazione civile e alla cura dei soldati feriti. Per questo le strutture sanitarie di per sé sono riconosciute come neutrali, non sono riconosciute come parti del conflitto e vanno tutelate. Se viene a mancare, come sta venendo a mancare, con gli esempi che ho fatto e con altri che si possono fare, allora anche la guerra diventa qualcosa di non più governabile nei confronti delle popolazioni inermi.

EA: può dirci a cosa può essere legata questa escalation?

Rosario Valastro: certamente c’è una mancanza di rispetto per quelle che sono le convenzioni internazionali che hanno fondato il vivere civile delle nazioni. Cioè la guerra, chiunque parli della guerra, ha nel suo immaginario qualcosa che non ha delle regole. In realtà, la guerra ha delle regole che sono state costruite nel corso di questo secolo e mezzo dalle convenzioni di Ginevra in poi. Se questo non è più considerato prioritario, se il rispetto della vita umana viene in secondo luogo rispetto a tutto il resto, e quindi comunque l’obiettivo è vincere a discapito dei morti che riesco a fare, allora queste escalation producono un ulteriore disumanizzazione della guerra, un ulteriore aumento non solo di vittime, quindi morti, ma anche di persone che perdono le case e di persone le cui famiglie vengono separate a forza. Un aumento esponenziale di vulnerabilità che ben poco ha a che vedere con la guerra. La guerra è, come noi sappiamo, colpisci le zone strategiche del nemico, colpisci i depositi di armamenti, colpisci quartier generali. Non colpisci la popolazione civile che non partecipa alle operazioni di guerra. Se tu lo fai, come è stato anche fatto durante alcuni conflitti in Europa negli anni ’90, lo fai con delle idee di genocidio, di pulizia etnica, che sono fuori dall’orbita umanitaria.

 

Nel corso dell’intervento ha poi sottolineato che il diritto internazionale umanitario è nato per garantire l’incolumità di operatori umanitari, civili e feriti di guerra ma ad oggi sembra essere ritornati a quei tempi in cui tutto ciò non era garantito. È messo tutto in discussione e stiamo registrando l’imbarbarimento delle condizioni di vita dei civili nelle zone di guerra. Dobbiamo ricordarci che senza gli operatori umanitari si indeboliscono i civili poiché viene meno il rispetto della vita umana, ovvero la condizione principe per il rispetto del diritto dell’uomo.

Grazie all’intervento di padre Mussie Zerai (direttore agenzia di stampa Habeshia) è stato possibile approfondire la questione e affrontare il tema delle migrazioni di cui noi assistiamo solo il fenomeno più visibile, quello degli sbarchi. Il tema degli sbarchi è un tema divisivo della politica e dei rapporti tra stati e all’interno degli stati. È un tema che richiama la necessità di adeguate misure di accoglienza per persone che altrimenti rimangono senza futuro, senza storia e senza la possibilità di dare un futuro ai propri figli. A questo proposito abbiamo potuto chiedere un commento sui recenti fatti dell’Aquarius:

EA: può dirci, secondo lei, cosa può significare quello che è successo con la nave Aquarius?

Padre Mussie Zerai: La settimana appena trascorsa, il fatto che l’Aquarius con tutto il suo carico umano è stata respinta, non è un segnale positivo. Non era il modo di gestire o di fare un braccio di ferro con l’unione europea o con malta per arrivare a una soluzione perché usare persone già provate dal viaggio, persone in cerca di protezione e di sicurezza, usate come “armi di ricatto” verso l’Europa non è il modo di fare politica, non è il modo gestire le cose umanamente e civilmente. Io spero che sia una forma provocatoria e isolata che però al tavolo dell’unione europea alla fine mese, in cui i vari paesi o ministri che si incontreranno, troveranno una soluzione complessiva e basata soprattutto sulla solidarietà e non sulle chiusure ed esternalizzazione delle frontiere o su tentativi di scaricare il peso su paesi già fragili sia economicamente che politicamente. Perché scaricare tutto sui paesi del nord africa o dell’africa subsahariana, pesa in tutti i sensi perché quei paesi sono già democraticamente fragili e alcuni addirittura non garantiscono il minimo standard del rispetto dei diritti umani. Vuol dire consegnare queste persone nelle mani di chi violerà questi diritti. Abbiamo visto anche gli accordi fatti con la Libia e i Lager che ci sono nella Libia, sono la chiara testimonianza.

EA: Tramite questa criminalizzazione delle ong e con questo gioco di forza su associazioni che non rappresentano un governo, viene messo in dubbio quel principio di sussidiarietà del privato, ovvero viene messa in discussione anche la nostra capacità di portare il nostro contributo li dove lo stato non riesce o non aiuta dove mette in difficoltà le stesse associazioni?

Padre Mussie Zerai: questo è il tentativo di scaricare le proprie responsabilità perché le ong sono intervenute li dove gli stati hanno lasciato un vuoto. Dopo la chiusura di mare nostrum, si è creato un vuoto da colmare perché la gente continuava a morire. Ecco, la società civile, anche con la presenza delle ong, è venuta in soccorso. Anche tramite l’aiuto delle ong che hanno soccorso, l’Italia, oltre che ha potuto continuare a salvare le vite umane, ha anche risparmiato un miliardo di euro che altrimenti avrebbe dovuto spendere per sforzarsi a salvare vite umane se non si vuole lasciar morire queste persone. Quindi sia sull’aspetto morale etico e civile ma anche sull’aspetto economico, la presenza delle ong per l’Italia e l’Europa è stato di grande aiuto. Criminalizzarli vuol dire scaricare su di loro le proprie responsabilità. Bisognerebbe chiedere agli stati perché hanno lasciato quel vuoto, perché nessun altro programma simile al mare nostrum è subentrato a fare quel lavoro che mare nostrum faceva. Ricordiamo che mare nostrum è nato dopo due grandi tragedie successe a distanza di una settimana nel 2013, il 3 ottobre e successivamente l’11 di ottobre. Che cosa si doveva continuare a vedere? Si voleva continuare a raccogliere cadaveri? Non è quello status che l’Unione Europea, la sua fondazione e i suoi valori  gridati corrispondevano a quella realtà che stavamo assistendo per cui il mediterraneo è diventato un cimitero a cielo aperto e quindi le ong hanno salvato la faccia e l’onore di tutta l’Europa. Criminalizzarli significa essere responsabili.

Padre Mussie Zerai ha poi sottolineato che il diritto dei deboli è di fatto un diritto debole perché non viene rispettato tanto che oggi parliamo di dover tutelare le leggi e le convenzioni. 27 anni fa padre Mussie è arrivato come minore non accompagnato e venne affidato al comune di Roma ma ricevette aiuti non previsti dalla legge. Ad oggi molti minori scappano dai centri perché si sentono in gabbia e non vedono una prospettiva per il proprio futuro, in molti spariscono e non si sa che fine fanno. È quello che succede a chi arriva per mare nei casi di respingimento, soprattutto nei casi di respingimento in Libia dove non sono assicurati i diritti umano e dove le persone (soprattutto chi migra) possono essere soggette a trattamenti inumani e degradanti. A ciò si aggiunge che la corte internazionale dovrebbe pronunciarsi dato che l’ONU ha recentemente condannato uno di quei comandanti con cui ci si sono fatti accordi per contenere i flussi migratori. È una di quelle persone che di giorno indossano la divisa e di notte lavorano con e come trafficanti. È un fenomeno che per poter essere risolto ha bisogno di prevenzione e lavoro costante nel lungo termine. L’Eritrea è l’esempio che anche la dittatura crea dei rifugiati. Una dittatura che usa la presenza di un vicino scomodo come giustificazione per costringere i giovani a una leva obbligatoria indeterminata che non dà futuro. In Eritrea non vi è una costituzione che tutela i cittadini, non vi è una stampa libera, non vi è libertà di movimento o libertà religiosa. Tutto questo produce una fuga di massa verso il paese più vicino ma spesso trovano condizioni peggiori e, non potendo tornare a casa, proseguono il viaggio. Una delle poche soluzioni perseguibili è quello di risolvere, certamente nel lungo termine, i conflitti ma spesso vi è un’immobilità politica. Per esempio, l’Etiopia ha comunicato di voler fare pace con l’Eritrea ma l’Italia, che è tra i garanti per la pace di Algeri, non ha fatto alcuna mossa. Se si facesse questa pace cadrebbe ogni alibi del regime e finirebbe l’esodo di giovani e giovanissimi che scappano prima che scatti l’obbligo della leva. Ultimamente si parla di istituire degli Hotspot dell’Unione Europea in Africa, campi di identificazione, ma non si tiene conto che ci sono tanti campi rifugiati che hanno un problema di sicurezza. Anzi, gli stessi campi sono il centro del traffico degli esseri umani come accade tra il Sudan e il Sinai: il campo era sotto gestione dell’UNHCR ma i militari sudanesi, addetti alla sicurezza, erano pagati dai trafficanti. I militari la notte facevano entrare i trafficanti che sceglievano le persone da vendere o a cui togliere gli organi per il traffico di organi. Le prove si hanno grazie al lavoro di BBC e CNN che ha documentato il ritrovamento dei corpi abbandonati nel deserto e che, dopo un’attenta autopsia, riportavano l’estrazione di organi.

L’Africa non ha bisogno di aiuto in denaro, è ricco di risorse già di suo, ma serve aiuto per trasformare la ricchezza in democrazia e diritti. L’Africa perde 190 miliardi in risorse naturali e umane ogni anno e ne riceve 30 dai donatori. Il vero peso delle migrazioni è quindi nei paesi di partenza poiché il costo del viaggio può essere sostenuto solo da pochi. Per esempio, in Etiopia un visto per l’Italia costa 10.000 dollari, un visto Schengen costa 15.000 dollari, mentre la tratta che fanno milioni di persone per arrivare da noi costa 5.000 dollari. Occorre che quei 190 miliardi siano trasformati in dignità, diritti e futuro. Occorre, poi, ricordare che la guerra in Libia non è stata una guerra libica ma una guerra tra stati dell’Europa, i libici sono stati sotto Gheddafi per 42 anni. Lo stesso vale per la guerra in Sud Sudan in cui combatte chi ha investito nelle pipeline per portarle nel Mar Rosso o nel Mar Indiano. Ciò che va sottolineato è che nessuno paese africano produce armi e che queste vengono comprate da paesi come la Russia, la Germania, la Cina, gli Stati Uniti e dalla stessa Italia (solo per citarne alcuni) e che andrebbe vietata la vendita di armi in queste zone.

     Yehven Perelygin (ambasciatore della Repubblica di Ucraina in Italia) ha portato sul piatto della discussione anche i conflitti che sono ancora aperti nella nostra Europa e di cui si parla troppo poco come quello in Ucraina e nella regione del Donbass (a riguardo il Centro Studi Roma 3000 ha tenuto un convegno a novembre). L’ambasciatore spera che quella che viene chiamata “guerra silenziosa” non diventi la “guerra dimenticata” poiché sono state riscontrate gravi violazioni di diritti umani nella penisola della Crimea dove avvengono sistematiche restrizioni alle libertà di espressione, di credo, di riunione e di partecipazione. In questo senso vi è un’impossibilità di avere un’educazione o una formazione nella propria lingua (tataro o ucraino), vi è la chiusura dei mezzi di informazione e vi sono 64 cittadini prigionieri politici tra tatari e registi e scrittori ucraini che dal 2014 sono in condizioni paragonabili ai Gulag sovietici. Oltre a questo vi è il reclutamento di giovani ucraini da parte dei russi. Il 14 giugno il parlamento europeo ha votato una risoluzione per cui chiede il rispetto dei principi democratici e la libertà per Oleg Sentsov e tutti gli altri cittadini ucraini detenuti illegalmente in Russia.

In tutti queste problematiche vi sono anche i bambini, come l’intervento di Daniela Fatarella (vicedirettore generale “Save the Children”) ha sottolineato. Un miliardo e 500 mila bambini ad oggi non hanno una protezione, cioè più della metà dei bambini al mondo, e 357 milioni di bambini vivono in aree di conflitto (1 bambino su 6), ciò rappresenta un aumento del 75% dagli anni Novanta. Queste guerre lunghe e croniche colpiscono i bambini e spesso vengono colpiti volontariamente per tattica. Colpire loro vuol dire colpire l’infanzia, le famiglie, la comunità e il futuro. Le guerre vedono concentrare i propri obiettivi sulle scuole e gli ospedali, quelli che una volta erano i luoghi sacri di protezione e assistenza a civili e ai feriti. La relatrice recentemente è stata nel campo profughi di “Zaatari” dove si sono rifugiati i bambini o dove sono nati. Solo in questo campo nascono 80 bambini a settimana e la permanenza media è di 15 anni. Le persone che vi ci sono rifugiate all’inizio pensavano di tornare in Siria in breve tempo, poi sono state prese dallo sconforto e infine hanno sviluppato la resilienza. I genitori intervistati nei campi pensano che dare un’educazione ai bambini è un’arma per poter tornare a casa, in Siria, dove il sistema scolastico e quello sanitario è collassato completamente. In questo senso è importante lavorare anche dopo la guerra dato che deve essere stimolata e assistita la resilienza delle persone in modo da poter avere un futuro e una prospettiva.

Nei contesti di crisi, come evidenziato da Cristina Nasini (componente del direttivo di “Vivere Impresa”) nel suo intervento, può essere importante l’apporto delle aziende. In questo senso è importante l’aspetto privatistico che emerge nel rapporto “datore di lavoro – lavoratore”: i datori di lavoro, ancora prima del rapporto stesso, non devono avere una condotta discriminatoria verso le persone per etnia, religione o orientamento sessuale. Tutto ciò rientra anche a livello internazionale tramite l’impegno dell’ILO nel dettare linee guida per le aziende come quella che riguarda la tutela e la libertà di associazione e sindacati in quanto necessari per tutelare i propri diritti. Nelle linee guida vengono prese in considerazioni tematiche quali il lavoro minorile e le categorie vulnerabili come migranti, donne incinte o donne di ritorno dalla maternità. Inoltre, è importante l’aspetto pubblicistico rappresentato dal rapporto “Azienda – Stato”. In questo senso deve esserci una responsabilità sociale delle imprese che da una parte, tramite l’esportazione di lavoro all’estero, hanno opportunità di business e dall’altra possono portare forme di sviluppo economico per quei paesi in via di sviluppo o in crisi. L’apporto di imprese rispettose dei diritti umani è importante per evitare quei fenomeni che vanno dal disastro del Rana Plaza ai campi di Rosarno, in cui lo sfruttamento e la violazione dei diritti umani viene fatta in nome del profitto. Oltre a questi aspetti le imprese che lavorano in aree di crisi, magari essendo imprese di ricostruzione edile o di ristorazione, possono apportare il proprio sostegno alle varie Ong.

In Afghanistan sono morti 10.000 civili, in Yemen 50.000, in Siria non ci sono dati ufficiali dell’ONU ma la Croce Rossa Italiana conta la morte di 70 operatori umanitari, nel 2017 Save the Children ha perso 4 persone in un attacco kamikaze nel centro operativo in Afghanistan, in Donbass negli ultimi 3 anni si contano più di 10.000 vittime e di 1 milione e 700 mila persone spostane nel proprio paese. A questi numeri si aggiungono quelli che vedono la nascita, solo quest’anno, di 18.000 bambini nei campi profughi e nelle pessime condizioni dei campi. Questi sono numeri ma i vari interventi hanno trovato un punto fondamentale di incontro, dietro a questi numeri ci sono le storie di persone, di uomini, di donne, di bambini e di famiglie. Dall’incontro esce la volontà di voler parlare innanzitutto delle persone e delle vite delle persone e si ricorda che l’assistenza ai più deboli è richiesta degli stessi pilastri dell’unione europea e della nostra cultura. Questi pilastri ci impongono di aiutare chi è in difficoltà, di mettere le persone al centro del dibattito, di mettere il singolo con la propria storia di fronte all’enormità del numero e di mettere al centro le persone e non il profitto. Parlare di persone nei vari casi dibattuti ci permette di lottare la disumanizzazione che spesso viene fatta anche involontariamente e di tutelare il diritto dei più deboli per renderlo il diritto più forte perché spesso si fa abuso della parola sicurezza ma sono i più vulnerabili ad averne bisogno. Occorre ripartire dalle persone per tutelare i diritti umani e rispettare la vita, perché tutte le vittime che abbiamo ricordato sono vittime della mancanza di rispetto alla vita.

 

Durante il convegno sono intervenuti: Alessandro Conte (presidente Centro Studi Roma 3000), Alessandro Forlani (esperto di diritti umani e affari internazionali), Rosario Valastro (vicepresidente Croce Rossa Italiana), Daniela Fatarella (vicedirettore generale “Save the Children”), Yehven Perelygin (ambasciatore della Repubblica di Ucraina in Italia), Mussie Zerai (direttore agenzia di stampa Habeshia), Cristina Nasini (componente del direttivo di “Vivere Impresa”).

 

La tutela dei Diritti umani in aree di Crisi: il convegno di Roma 3000

CRONACA di

Il 18 giugno il Centro studi Roma 3000 terrà il convegno dal titolo “La tutela dei diritti Umani nelle Aree di Crisi”. Il convegno sarà l’occasione per riflettere, dibattere e scambiare esperienze sul tema dei diritti umani che in tutto il mondo sono in costante rischio. Le continue escalation nelle aree di crisi però rappresentano i luoghi in cui è maggiormente difficile la protezione di tali diritti. All’incontro saranno presenti esponenti di importanti associazioni che ci daranno la possibilità di analizzare la questione da diverse prospettive: la protezione dei civili e degli operatori, i diritti dell’infanzia, la protezione dei più vulnerabili e la tutela nel rapporto di lavoro. Saranno presenti Croce Rossa, Save the Children, l’Agenzia Habeisha e Vivere Impresa. Il convegno sarà aperto da Alessandro Forlani, esperto di diritti umani e di relazioni internazionali che introdurrà i relatori ospiti del Centro Studi Roma 3000.

Croce Rossa è presente ovunque, dall’intervento a sostegno delle popolazioni nelle zone di guerra, alle emergenze dovute ai disastri naturali, fino all’aiuto nelle tante vulnerabilità quotidiane che non fanno notizia. È il simbolo di un’Italia che aiuta, che ascolta le richieste di aiuto, piccole o grandi, che sono ovunque. Nelle aree di crisi, chi va ad apportare il proprio aiuto o è lì a documentare, è costantemente a rischio. Negli ultimi 15 anni i giornalisti uccisi nell’esercizio del loro mestiere sono stati 1035, specialmente nei teatri di guerra. Allo stesso modo sono tanti gli operatori umanitari che diventano un “target” delle parti in conflitto. Ciò nonostante questi operatori sono sempre in prima linea per tamponare le gravi crisi umanitarie. Allo stesso modo l’intervento nei luoghi in cui avvengono le calamità naturali risulta un rischio per operatori e civili. Per la Croce Rossa interverrà Rosario Valastro con l’intervento dal titolo “La protezione dei civili e degli operatori sanitari nelle zone a rischio: l’esperienza della Croce Rossa“.

Uno degli aspetti più devastanti della guerra è l’effetto che ha sulle vite dei bambini. Questi subiscono l’impatto del trauma e della violenza, subiscono minacce alla loro salute e alla loro felicità. Inoltre, non hanno la possibilità di sperimentare l’infanzia. Nelle aree di conflitto intere generazioni di bambini potrebbero avere conseguenze permanenti devastanti. In recenti ricerche nelle aree di crisi, nei bambini si sono riscontrate depressione, iperattività, predilezione per la solitudine e aggressività. A ciò si aggiunge la minaccia della guerra, la paura delle bombe, la costante insicurezza causata dall’instabilità e fenomeni come incubi e la difficoltà a dormire. Tutto ciò mette a dura prova la salute mentale dei bambini e costituisce una grave minaccia per i loro fragili meccanismi di difesa. Questo li espone a un alto rischio di stress tossico, la più pericolosa forma di risposta allo stress, provocata da una forte o prolungata esposizione alle avversità. L’esposizione agli eventi traumatici può portare a un aumento dei disturbi a lungo termine della salute mentale come il disturbo depressivo maggiore (MDD), il disturbo d’ansia da separazione (SAD), il disturbo overanxious (OAD) e il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) dopo la fine del conflitto. In particolare, l’attivazione prolungata degli ormoni dello stress nella prima infanzia può effettivamente ridurre le connessioni neurali in aree del cervello dedicate all’apprendimento e al ragionamento, influenzando le abilità dei bambini a svolgere attività accademiche e successive nella loro vita. Le avversità estreme nella prima infanzia possono ostacolare lo sviluppo sano dei bambini e la loro capacità di funzionare pienamente, anche quando la violenza è cessata. I bambini, non solo vedono negati il diritto al gioco, alla salute e allo studio ma vedono precludersi il futuro da guerra in cui non hanno nessuna responsabilità. Per Save The Children Interverrà Daniela Fatarella con l’intervento dal titolo “Le gravi violazioni dei diritti dei minori in conflitto”.

Padre Mussie è un attivista impegnato in azioni per salvare i migranti nel Mediterraneo, è il fondatore e il presidente dell’agenzia Habeshia e nel 2015 è stato nominato per il Nobel per la pace. Nato in Eritrea, ad Asmara, è espatriato fortunosamente in Italia nel 1992, appena diciassettenne, come rifugiato politico. Si è guadagnato l’appellativo “L’angelo dei profughi” in anni di attività in difesa dei diritti e della vita stessa dei richiedenti asilo e dei migranti in fuga dal Corno d’Africa e dai paesi dell’Africa sub sahariana verso l’Europa o verso Israele. Dopo aver preso i voti, in concomitanza con l’aggravarsi della vicenda dei profughi a causa di tutta una serie di situazioni di crisi esplose in Africa, è stato tra i primi, in quegli anni, a partire dalla tarda estate del 2010, a segnalare la tratta degli schiavi nel Sinai. Piaga tutt’ora aperta che vede centinaia di giovani catturati nel deserto, verso il confine di israele, da bande di predoni beduini collegate a organizzazioni criminali internazionali, che pretendono per ogni prigioniero pesanti riscatti, minacciano di consegnare chi non riesce a pagare al mercato degli organi per i trapianti clandestini. Le sue denunce, fatte attraverso l’agenzia di assistenza Habeshia, da lui stesso fondata, insieme a quelle di altre organizzazioni umanitarie, hanno destato sensazione in tutto il mondo, ma l’eco si è spenta in poche settimane, senza che la comunità internazionale si sia mai fatta davvero carico di quella che appare un’autentica emergenza umanitaria. Da allora è stata una escalation di orrore. Il traffico di schiavi nel Sinai non è mai cessato. Anzi la mafia dei trafficanti ha esteso e radicato il proprio operato lungo le vie di fuga dei migranti, sia nei paesi di transito verso l’Europa che in quelli di prima accoglienza: Etiopia, Sudan, Egitto, Libia. Mentre le crisi, le rivolte, le guerre, la carestia continuano a produrre fuggiaschi e richiedenti asilo e, dunque, “materiale umano” da sfruttare per i trafficanti. Padre Mussie è diventato un punto di riferimento per le vittime di tutto questo: prima a Roma, dove ha esercitato la prima fase del suo sacerdozio, ed ora in Svizzera, dove si è trasferito come responsabile nazionale per la pastorale degli Eritrei e degli Etiopi residenti nella Repubblica Elvetica. Il titolo del suo intervento sarà “il diritto dei deboli non è un diritto debole“.

L’avvocato Cristina Nasini è membro del direttivo dell’associazione “Vivere Impresa No-Profit” con delega agli Aspetti giuridici. Avvocato civilista, svolge la libera professione sia per attività giudiziale nell’ambito del diritto di famiglia, del lavoro, societario, fallimentare e contrattualistica, sia per attività di consulenza. Si è occupata di amministrazioni di sostegno e segue Fondazioni e Onlus che operano nel Terzo settore. Il titolo del suo intervento sarà “La tutela dei diritti umani nel rapporto di lavoro internazionale. L’impegno delle aziende”.

Il dibattito sarà moderato da Alessandro Conte, giornalista e presidente del Centro Studi Roma 3000

 

L’evento si terra presso la Camera dei Deputati, Palazzo San Macuto, Sala del refettorio il 18 giugno 2018 alle ore 17.00 in via del seminario 76 a Roma. Per partecipare e per motivi legati alle norme di sicurezza della Camera Dei Deputati è necessario confermare la presenza inviando una mail a registrazione@roma3000.it entro il 15 giugno 2018, ricordiamo che il regolamento della Camera dei Deputati prevede l’obbligo di giacca e cravatta per l’accesso alla sala del convegno.

Rainer Maria Baratti
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