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AMERICHE - page 7

Patricia Gualinga Montalvo incontra il municipio VIII di Roma: Serayaku contro lo sfruttamento petrolifero nei territori indigeni

AMERICHE/CRONACA di

Il 4 luglio Patricia Gualinga Montalvo ha incontrato Roma, organizzazioni sociali italiane e il presidente del Municipio di Garbatella Amedeo Ciaccheri, che ha aperto le porte all’esperienza e alla storia del popolo Quechua di Sarayaku per un gemellaggio tra le due comunità all’insegna delle forme di iniziativa dal basso.

     Patricia Gualinga Montalvo parla la lingua Quechua ed è la rappresentante del popolo di Serayaku che consiste in una minoranza rispetto al territorio. La comunità conta di 1350 abitanti e occupa solo il 5% di un territorio che conta 135 mila ettari. Il villaggio è raggiungibile solo con due metodi: per via Fluviale, impossibile se in secca, o con 25 minuti per via aerea, in questo caso sono frequenti gli incidenti aerei. La comunità di Serayaku è la dimostrazione che anche un piccolo e disperso popolo può lottare e vincere se ha delle convinzioni forti nella tutela dei diritti umani e dei diritti ambientali. La comunità non ha ristoranti o alberghi e vive di pesca, caccia, coltivazioni di iuca e platano verde, hanno case con tetti di foglie e pavimenti in terra per mantenere il fresco. I Serayaku sono conosciuti come un popolo ribelle che agli inizi del 2000 ha iniziato il combattimento contro l’entrata arbitraria di un’azienda argentina e che ha portato avanti una causa di giustizia internazionale. La causa è durata 10 anni passati tra l’opinione pubblica e le fatiche nel sostenere e portare le prove ma alla fine ha visto la vittoria del popolo di Serayaku. Questa vittoria è importante e di ispirazione per tutte le altre comunità del continente è consiste nella sentenza della Corte interamericana dei diritti umani. In quell’occasione, armonia, libertà e pace vennero messe a rischio dal governo, che non aveva consultato la comunità prima di autorizzare la compagnia petrolifera argentina CGC a fare prospezioni sul territorio per valutare l’ampiezza dei giacimenti sotterranei. La compagnia petrolifera offrì 15 dollari a persona per togliere il disturbo. Secondo gli standard internazionali, i progetti di sviluppo, le leggi e le politiche che hanno un impatto sullo stile di vita delle comunità native devono ottenere il consenso preventivo, libero e informato degli interessati. Questo avviene attraverso la messa a disposizione di informazioni oggettive, in una modalità loro accessibile e un coinvolgimento, sin dall’inizio, nella fase decisionale. L’obiettivo di questa lunga lotta era chiamare le autorità ecuadoriane a rispondere della mancata consultazione e ottenere garanzie di non ripetizione di una decisione presa senza il loro consenso. Coi loro legali i Sarayaku hanno portato il caso fino a San José, Costa Rica, sede della Corte interamericana dei diritti umani. La sentenza gli ha dato ragione.

     Il governo dell’Ecuador ha spostato tutta la sua attenzione economica nel petrolio e chiama tutti gli investitori esteri per lo sfruttamento e la comunità Serayaku ha chiesto il rispetto della sentenza della corte interamericana dei diritti umani e di rimanere nei propri territori. Il tema dell’incontro è stata la crescente tensione in Ecuador tra le comunità indigene ed ENI. Nel 2010 il governo ha rinegoziato il contratto con ENI – Agip per lo sfruttamento petrolifero del Blocco 10 nella foresta amazzonica, senza applicare il diritto di consultazione previa, libera e informata dei popoli, delle comunità e delle nazionalità indigene. Tale diritto è espressamente riconosciuto e tutelato dalla Costituzione ecuadoriana (art.57) – oltre che dalla Convenzione n.169 dell’ILO – e riguarda tutti i processi decisionali relativi all’implementazione di piani e programmi di prospezione, sfruttamento e commercializzazione di risorse non rinnovabili presenti nei territori indigeni e che possano avere impatto dal punto di vista ambientale o culturale sulle comunità. La situazione vede però altri importanti blocchi come il 75 e l’85 ad altra presenza Cinese, il blocco 28 sfruttato dall’Ecuador, dalla Bielorussia e dalla Thailandia e anche la presenza del Cile che sfrutta le zone petrolifere e le risorse minerarie. La denuncia da parte di Patricia Gualinga Montalvo consiste nel fatto che ENI ha perseguito lo sfruttamento della zona per 20 anni in silenzio ed estromettendo la comunità dai processi di informazione e contrattazione, cercando di ampliarsi man mano che si esaurivano le riserve di petrolio e coinvolgendo delle zone che includevano ben 5 popolazioni indigene e pozzi di petrolio molto grandi. Dopo le minacce del 5 gennaio da parte di sconosciuti, le donne di Serayaku si sono messe in marcia con le “Mujeres Amazonas” e hanno denunciato le azioni degli ultimi 20 anni. Il risultato è consistito in un’udienza dal presidente dell’Ecuador. Ciò ha segnato un forte impatto mediatico, delle forti tensioni tra le donne e l’ENI ma anche all’interno della stessa comunità. Quest’ultimo accade perché alla consegna di ogni blocco lo stato non fornisce i servizi di base ma di questi se ne occupano le aziende private tramite la contrattazione. In questo momento le donne possono essere considerate le colpevoli per una possibile sospensione dell’erogazione dei servizi base da parte di ENI. Al momento, in generale, le varie comunità si stanno esprimendo per uno stop totale allo sfruttamento della zona e queste problematiche investono molte comunità di tutto il continente dell’America Latina. La stessa comunità però si è fatta promotrice di proposte poiché, a detta di Patricia Gualinga, vengono trattati come se fossero i responsabili del consumo di petrolio. Come comunità, i Serayaku hanno visto i fallimenti dei progetti di conservazione naturale e, tramite una risoluzione, propongono la “KAWSAK SACHA-SELVA VIVIENTE”. Questa è una categoria di conservazione dal punto di vista indigeno e gestito dal punto di vista indigeno, estromettendo tutto ciò che è esterno. Porta avanti la Cosmovisione indigena che vede da difesa degli spazi ambientali in quanto casa degli esseri viventi che reggono e abitano lo stesso ambiente contro i processi delle problematiche ambientali. Questi sono gli esseri della natura che detengono il ruolo di mantenitori dell’equilibrio. Questa è l’essenza della lotta indigena che vede la sua particolarità in quanto può essere compresa solo da chi ha vissuto e vive a stretto contatto con la natura. Tutto ciò serve per ripensare il rapporto con la natura.

     Secondo il rapporto di Amnesty international, in Ecuador, leader di comunità native, difensori dei diritti umani e personale delle ONG hanno subìto procedimenti giudiziari e vessazioni, in un contesto di continue restrizioni ai diritti alla libertà d’espressione e d’associazione. Alle popolazioni native non è stato garantito il diritto a esprime un consenso libero, anticipato e informato. Il progetto di legge per la prevenzione e l’eliminazione della violenza contro le donne è rimasto in attesa della revisione dell’assemblea nazionale. A maggio, la situazione dei diritti umani dell’Ecuador è stata analizzata secondo l’Upr delle Nazioni Unite. L’Ecuador ha accettato le raccomandazioni riguardanti l’adozione di un piano d’azione nazionale su attività produttive e diritti umani, la creazione di un meccanismo efficace di consultazione per le popolazioni native, l’allineamento della legislazione nazionale con gli standard internazionali in materia di libertà d’espressione e d’associazione, la garanzia di misure di protezione per i giornalisti e i difensori dei diritti umani e provvedimenti che avrebbero garantito la tutela dalla discriminazione per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere. L’Ecuador si è impegnato a farsi carico della creazione di uno strumento giuridicamente vincolante a livello internazionale sul tema dei diritti umani e delle società multinazionali. Delle 182 raccomandazioni espresse durante l’Upr, l’Ecuador ne ha accettate 159, ha preso atto di altre 19 e si è riservato di riesaminarne quattro. A luglio, si sono svolte davanti alla Commissione interamericana dei diritti umani (Inter-American Commis­sion on Human Rights – Iachr) le audizioni riguardanti la violenza e le vessazioni nei confronti dei difensori dei diritti umani e relative alle industrie estrattive e al diritto all’identità culturale delle popolazioni native dell’Ecuador. La Iachr ha espresso preoccupazione per l’assenza di rappresentanti dello stato a entrambe le audizioni.

Eruzione vulcano Fuego: La visita del presidente della Croce Rossa Internazionale in Guatemala

AMERICHE di

L’eruzione del Volcan de Fuego, con nubi di gas, rocce e cenere a temperature che superavano i 700 gradi, ha causato la morte di 99 persone e si contano 197 dispersi. Il vulcano si trova a 40 chilometri sud-ovest dalla capitale Guatemala City e secondo i vulcanologi, l’eruzione è la più grande registrata nel paese negli ultimi 40 anni. Il vulcano raggiunge un’altitudine di 3.763 metri ed è costantemente attivo, sebbene con eruzioni molto più piccole e contenute di quella di questi giorni. L’attuale eruzione fa parte di un periodo di maggiore attività vulcanica iniziato intorno al 2002. Tutto è avvenuto molto velocemente e la gente non ha avuto il tempo di andarsene, anche perché le persone qui sono abituate all’attività del vulcano e non pensavano di venire travolte.

La lava ha iniziato a scorrere dal vulcano e ha ricoperto tutti i villaggi che c’erano sotto e non c’è certezza sul numero dei morti, poiché molti sono stati letteralmente ricoperti e “pietrificati” dalla lava. Gli eventi del Guatemala si macchiano di un’evacuazione avvenuta preventivamente solo nell’Hotel a 5 stelle presente nella zona ma non nei paesi limitrofi. Questo è un indice di grave diseguaglianza. Una seconda eruzione ha poi ostacolato i lavori di soccorso che ha colto di sorpresa autorità e vulcanologi, visto che l’Istituto Nazionale di Sismologia guatemalteco aveva previsto che non ce ne sarebbero state altre dopo la prima. Circa 3mila persone sono state evacuate per l’eruzione, e in tutto 1,7 milioni ne hanno subito le conseguenze. In immagini scattate dal satellite si osserva a occhio nudo la dimensione del disastro che ha colpito alcune zone intorno al Vulcano.

Il Presidente della Federazione Internazionale di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, Francesco Rocca, è stato in Guatemala il 6 e il 7 giugno dove ha incontrato i volontari della Croce Rossa del Guatemala, in prima linea nella risposta all’emergenze e nel supporto alla comunità locale. Al termine della sua visita ha dichiarato: “Non dovremmo sottovalutare le dimensioni di questo disastro. Si tratta di una situazione critica, un’emergenza con necessità ancora enormi e le comunità coinvolte avranno bisogno di sostegno e supporto a lungo termine. Per le famiglie più colpite, riteniamo che il processo di ripresa richiederà almeno un anno. Queste persone hanno perso tutto: case, mezzi di sostentamento e, tragicamente, i loro cari. Tali famiglie sono la nostra priorità, ma le eruzioni hanno avuto un impatto molto più vasto. Le ceneri sottili sono ricadute su più della metà della Nazione, coprendo aree in cui l’agricoltura è un’attività chiave. L’impatto economico non è ancora chiaro. Ci auguriamo che non ci troveremo a dover affrontare un disastro secondario. Sono rimasto profondamente colpito dalla risposta massiccia e coraggiosa della Croce Rossa Guatemalteca. Le operazioni dei nostri volontari sono iniziate domenica. Sono esausti, ma la loro determinazione è incrollabile. La Federazione Internazionale garantisce tutto il suo supporto alla Croce Rossa del Guatemala e chiedo alla nostra rete globale, composta dalle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, e ai nostri partner in tutto il mondo, di sostenerla“.

Il presidente Rocca ha poi ricordato come è sempre più importante cominciare a parlare in ottica di prevenzione e di preparazione alla risposta a questi eventi. Questi argomenti dovrebbero interessare anche il nostro paese: un esempio è il Vesuvio e l’area di Napoli. Il Vesuvio è un vulcano molto più esplosivo di quello del Guatemala e ad oggi molte persone vivono ancora sulle pendici.

Venezuela, una crisi senza fine, la denuncia di Amnesty International

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Negli ultimi cinque anni il Venezuela ha vissuto una profonda crisi sociale, politica ed economica che ha fatto sì che generi di prima necessità diventassero introvabili all’interno del Paese. Stando alle cifre di Datanalisis, una società che si occupa di sondaggi d’opinione, la carenza di cibo e medicine ammonta attorno all’80%.

Moltissime persone decidono quindi di emigrare nella vicina Colombia, sperando di migliorare la propria situazione. “Le persone fuggono da una situazione agonizzante che ha trasformato patologie trattabili in questioni di vita o di morte. I servizi sanitari di base sono al collasso e trovare farmaci essenziali è una lotta costante: a migliaia di persone non resta che cercare cure mediche all’estero”, ha dichiarato Erika Guevara-Rosas, direttrice di Amnesty International per le Americhe.

Le storie di questo tipo sono moltissime, iniziando da chi soffre di malattie croniche per finire con chi aspetta un bambino: i dati riferiscono che nel 2016 in Venezuela il numero dei neonati morti è aumentato del 30% rispetto all’anno precedente, mentre il numero delle madri che muoiono a breve tempo dal parto è salito del 65%. “Ci sono dei bravissimi dottori nel mio Paese, ma a causa della situazione devono lavorare quasi a mani nude.” Afferma Karen, una donna incinta di nove mesi intervistata da Amnesty International nell’ospedale Erasmo Meoz di Cúcuta, in Colombia, dove si è trasferita sette mesi fa.

Alberto invece, affetto da una malattia cronica, racconta ad Amnesty che “Non c’erano medicine di alcun tipo. Quando andai in ospedale in Venezuela, mi dissero che era solo influenza, un virus che girava. Così decisi di stabilirmi qui in Colombia.”

Le autorità della Colombia stimano che nel 2017 il numero dei venezuelani presenti nel paese sia salito a 550.000. Lo scorso anno, secondo il ministero della Salute, i servizi sanitari colombiani hanno fornito cure mediche urgenti a oltre 24.000 venezuelani. Quelli situati nelle città di confine di Maicao e Cúcuta hanno curato un numero di pazienti due o tre volte superiore rispetto al 2016. Tuttavia, in Colombia gli ospedali provvedono a curare i cittadini stranieri solamente in condizioni di emergenza.

Il governo del Venezuela, nonostante abbia avuto una parte fondamentale nell’aggravare la crisi, razionando i beni di prima necessità e impiegando le proprie forze dell’ordine per reprimere il malcontento piuttosto che per servire i cittadini, nega che vi sia una crisi. Inoltre, sono stati rifiutati gli aiuti umanitari provenienti dall’estero.

Amnesty International ha creato la piattaforma “Uscita d’emergenza” in modo da aumentare la consapevolezza riguardo la situazione del Paese: qui verranno condivise le storie di chi dal Venezuela è fuggito in Colombia per cercare una vita dignitosa e potersi curare.

L’organizzazione inoltre chiede che si collabori con altri Paesi: “La comunità internazionale e lo stato venezuelano devono iniziare immediatamente a collaborare per mitigare questa crisi esplosiva” afferma Guevara-Rosas nel suo appello.

 

La cooperazione UE-NATO: alcuni concetti chiave

AMERICHE/EUROPA/SICUREZZA di

La relazione tra UE e NATO costituisce l’ossatura strategica della sicurezza e della difesa europea e la letteratura specializzata ha tentato di elaborare alcuni concetti chiave per comprenderla. Qui si cercherà di riassumerne i principali.

La cooperazione UE (Comunità Europea e, solo dopo, UE) NATO affonda le sue radici nella necessità europea di difesa e sicurezza dal pericoloso vicino sovietico e nella visione strategica americana del contenimento dell’URSS e ha garantito, sotto l’ombrello della deterrenza, la pace e la sicurezza nel Vecchio Continente per 43 anni. Il crollo dell’Unione Sovietica e del bipolarismo ha fatto emergere però alcune novità: una serie di nuove sfide alla sicurezza sempre più complesse e le nuove ambizioni europee in materia di sicurezza e, poi, difesa (PESC e PESD) secondo visioni ed obiettivi propri.

L’UE si è così inserita nel dibattito post-bipolare sulla sicurezza e la pace globale con alcune innovazioni: la teorizzazione del “comprehensive approach”, la politica di allargamento, il lancio delle Politiche Europee di Vicinato, il fortissimo coinvolgimento europeo nella cooperazione allo sviluppo, gli accordi di partenariato, tutte testimonianze della volontà di Bruxelles di trasformare il tradizionale approccio alla sicurezza e al crisis management verso un’ottica unitaria e value-oriented. Molti scettici, in particolare dalle file della teoria realista e neo-realista delle RI, sostengono che l’actorness europea in campo di sicurezza e difesa sia un miraggio, strutturalmente impossibile da raggiungere e intrappolata in un “capability-expectations gap” (teorizzato da Christopher Hill), in sostanza uno scarto tra aspettative e reali capacità delle politiche comunitarie.

La relazione odierna tra UE e NATO si fonda sugli Accordi “Berlin-Plus” firmati nel 2002 che forniscono un “framework completo per le relazioni permanenti” tra i due soggetti. Ad oggi, fatta eccezione per le missioni Concordia e Althea nella ex-Jugoslavia, l’accesso UE alle capacità di pianificazione strategica e alle risorse e alle capacità NATO non è mai stato utilizzato. Storicamente, gli accordi giungono in un momento particolare della storia delle due istituzioni: la NATO, infatti, era alle prese con il proprio passaggio da alleanza militare regionale a provider di sicurezza internazionale, l’UE da potenza economica ad attore stabilizzatore e pacificatore (almeno nel suo vicinato) tramite l’introduzione della PESC e della PESD (poi PSDC). In questa relazione, la NATO ha rappresentato il provider di “hard security”, militare e globale, mentre l’UE l’attore di “soft security”, il “normative power” (Manners, 2002), il “civilian power” (Bull, 1982).

Ad inficiare il rapporto è, però, intervenuto il c.d. “problema della partecipazione” (Simon J. Smith e Carmen Gebhard) causato dalla membership NATO ma non UE della Turchia e dalla membership UE ma non NATO di Cipro. Infatti la Turchia, dopo la firma di Berlin Plus, ha cercato di assicurarsi che nessun futuro membro dell’UE (chiaro riferimento a Cipro) potesse interagire direttamente con la NATO (in quanto membro UE) senza un precedente accordo di sicurezza con essa. L’obiettivo è quello di evitare che Cipro possa accedere a capacità e risorse strategiche che potrebbero compromettere le rivendicazioni (e la presenza) turche nell’isola. Dall’altra parte Cipro ha fatto ricorso a tutte le sue risorse per ostacolare l’ingresso (e in generale qualsiasi forma di integrazione o cooperazione) della Turchia nell’UE.

La realtà dei fatti dimostra un quadro complesso e frammentato: la relazione strategica odierna tra UE e NATO esiste ma al di fuori del framework di Berlin Plus e, quindi, in maniera meno efficiente e unitaria, improntata secondo Simon J. Smith e Carmen Gebhard ad una prevenzione consapevole dei contrasti (“informed deconfliction”). Tale approccio opera costantemente in sub-ottimalità e non è sostenibile nel lungo periodo per gestire la complessità del contesto di sicurezza e difesa in Europa e America.

Per quanto l’UE e la NATO abbiano, quindi, sperimentato una divaricazione tra potenzialità e effettività della loro relazione, il contesto strategico di attività li spinge verso una convergenza, essendo condizionato da simili fattori e simili sfide, tre in particolare: il deterioramento delle relazioni occidentali con la Russia, gli interessi di sicurezza nel Medio Oriente, la minaccia terroristica. Al contrario spinte di allontanamento possono derivare da tre fattori: la presidenza Trump che coaguli internamente l’UE ma isoli esternamente gli USA, la Brexit che scarichi l’UE della presenza ostativa del Regno Unito ma spezzi l’anello di congiunzione tra UE e USA costituito dalla “relazione speciale” anglo-americana, il deterioramento delle relazioni UE-Turchia (membro della NATO e storico pilastro strategico americano).

Lorenzo Termine

La missione di Trump nel continente asiatico

AMERICHE di

Ad un anno dalla sua elezione il presidente americano affronta un viaggio cruciale per la politica estera statunitense.

Il 3 novembre scorso ha avuto inizio la visita ufficiale del presidente Trump nel continente asiatico. Secondo la nota rilasciata dalla Casa Bianca il giorno della partenza, questa visita: «sottolineerà il suo impegno nelle partnership e nelle alleanze di lunga durata degli Stati uniti, ribadendo la leadership degli Stati uniti nel promuovere una regione dell’Indo-Pacifico libera e aperta». La numerosa delegazione partita dagli Stati Uniti, ricca di investitori interessati al mercato asiatico, ha fatto tappa in Giappone, per poi spostarsi in Corea del Sud, in Cina, in Vietnam e infine visiterà le Filippine del tanto discusso presidente Duterte.

Il primo a ricevere Trump è stato il presidente Shinzo Abe, forte della sua recente riconferma a capo del governo giapponese. In primo piano naturalmente la questione Corea del Nord. Il presidente americano ha rinnovato il sostegno militare al paese alleato, d’accordo con le perentorie affermazioni di Shinzo Abe che vorrebbe una linea più dura e decisa contro la dittatura di Kim Jong un. “ È finito il tempo della pazienza strategica” ha affermato Trump, e ancora “Alcuni dicono che il mio linguaggio è forte ma guardate cos’è successo col linguaggio debole degli ultimi 25 anni. Guardate dove siamo ora”. I due presidenti hanno concordato l’invio in territorio nipponico di nuove forniture militari, principalmente scudi anti missili ma anche nuovi F- 35. La visita a Tokyo è stata anche l’occasione per siglare nuovi accordi commerciali, sui quali il presidente Trump ha voluto insistere visto il grosso attivo commerciale che il Giappone vanta sugli Usa.

Seul è stata la seconda tappa del viaggio. Anche in questo caso, una visita di due giorni per garantire sostegno e partecipazione all’alleato sudcoreano. Negli incontri con il presidente Moon Jae in, Donald Trump ha usato toni più pacati, dichiarando che gli Stati Uniti non hanno alcuna voglia di usare la forza per risolvere la questione Corea del Nord, e richiedendo, ancora una volta, un concreto intervento della Cina, ma anche della Russia, per fermare i piani nucleari di Kim Jong un. La visita Seoul è stata preceduta da numerose manifestazioni pro e contro il governo statunitense. I sostenitori chiedono maggiore fermezza e un intervento militare deciso contro la temuta Corea del Nord, i contestatori invece, chiedono che sia mantenuta la pace nel continente e che sia raggiunto un accordo attraverso la diplomazia.

La visita in Cina (denominata “state visit plus” per i grandi onori riservati agli ospiti americani) era la più attesa, certamente la più ricca di spunti politici. Il primo incontro tra Trump e Xi Jinping è avvenuto nella “Città Proibita”, lo storico palazzo degli imperatori, nel quale il presidente cinese, mai cosi saldamente al potere, ha fatto da anfitrione. Si è parlato di Corea del Nord ma anche di scambi commerciali. Per quanto riguarda la minaccia nucleare, Trump ha tentato di strappare alla Cina un impegno concreto per fermare le ambizioni nordcoreane. È chiaro che su questa questione gli Stati Uniti si giocano tutto in termini di credibilità di fronte agli alleati asiatici.

Per quanto riguarda invece gli scambi commerciali, il presidente americano ha ribadito con insistenza la necessità di diminuire il deficit nei confronti della Cina. Sono stati annunciati accordi per circa 250 miliardi di dollari, soprattutto nel settore energetico e in quello tecnologico. Novità anche nel settore degli investimenti finanziari sui quali, specialmente Goldman Sachs, puntava molto. Al termine della visita, nel suo discorso finale, Trump ha riservato parole di stima per il presidente Xi Jimping definendolo “un uomo veramente speciale” ringraziandolo della grande accoglienza riservatagli. Parole concilianti anche sugli scambi commerciali, per cancellare le precedenti accuse alla Cina di agire in modo scorretto sul mercato: “Questa situazione sbilanciata? Colpa di chi mi ha preceduto, non di Pechino”.

Due giorni fa, il presidente degli Stati Uniti ha raggiunto il Vietnam per la quarta tappa del suo viaggio asiatico. Trump ha preso parte al vertice  Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation), insieme agli altri leader regionali, tra cui anche il cinese Xi Jinping e il russo Putin.

Proprio l’accordo di libero scambio firmato dai paesi Apec ( il cosiddetto Trans Pacific Partnership) è lo stesso dal quale Trump ha dichiarato di voler svincolare gli Stati Uniti, poco dopo il suo insediamento. Il TPP andrà avanti con la leadership del Giappone, ma il summit tenutosi a Da Nang, è stato per Trump, l’occasione di ribadire la partecipazione attiva degli Stati Uniti alle vicende del continente asiatico, usando una nuova retorica capace al tempo stesso di far risuonare il suo slogan più conosciuto “America First”e di evitare che la scena venisse completamente rubata dal presidente Xi Jinping che proponeva in alternativa al protezionismo americano, un globalismo a guida cinese in grado di portare prosperità e pace, e soprattutto di assicurare alla Cina una posizione di potenza preminente dell’intero continente.

Come riportava la nota pubblicata dalla Casa Bianca, lo scopo del viaggio era quello di promuovere la libera e aperta regione dell’ Indo Pacifico”. Questo concetto, ribadito molte volte nei discorsi di Trump, è al centro della retorica americana che tenta di rassicurare i paesi asiatici tradizionalmente vicini agli Usa. Il continente viene appunto definito come “Indo Pacifico” per sottolineare l’asse strategico che gli Stati Uniti hanno in mente di fortificare con l’ausilio dell’India, primo concorrente della Cina in termini di crescita economica, e del Giappone da sempre stretto alleato militare. Questo asse strategico che potrebbe facilmente coinvolgere paesi come la Corea del Sud, le Filippine e l’Australia, dovrebbe rallentare l’ascesa cinese sia da un punto di vista economico commerciale che da un punto di vista politico militare. Ad esempio, va letto in questa ottica, il sostegno all’India in seguito alle tensioni sul confine indo – cinese.

Dunque, alleati più forti economicamente e militarmente, in modo da poter fronteggiare questioni come la Corea del Nord e i grandi piani commerciali cinesi, il Belt and Road su tutti. Sarà interessante capire quanta fiducia i paesi asiatici riserveranno a Trump, viste anche le beghe interne (calo dei consensi, “Russiagate) e quelle di politica estera che il governo deve affrontare.

Per concludere, il tanto atteso incontro tra Putin e Trump si è trasformato in una breve chiacchierata in cui i due presidenti hanno firmato una nota congiunta sulla Siria. Il documento concordato afferma la necessità di continuare la lotta contro l’Isis e la necessità di una soluzione diplomatica per la Siria attraverso i negoziati di Ginevra, in modo da incentivare la fine degli scontri militari. Inoltre è di poche ore fa, la notizia che tre portaerei nucleari americane hanno iniziato nuove esercitazioni al largo delle coste del Giappone.

 

 

Sull’Iran USA e UE sono destinati alla rottura?

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Il dossier iraniano dividerà il fronte trans-atlantico. Le dichiarazioni dei leader europei e dell’Alto Rappresentante seguite alla decisione del Presidente americano Donald Trump di interrompere la certificazione presso il Congresso del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), dimostrano una divaricazione con Washington già in atto ma che rischia di consumarsi più aspramente quando (verosimilmente) il Congresso boccerà definitivamente l’accordo. Le posizioni emerse sembrano ispirarsi, a monte, a concezioni di sicurezza e stabilità divenute quasi antitetiche oltre che ad interessi nazionali e collettivi diversi.

La posizione di Donald Trump (e del Gabinetto?) sembra improntata ad una visione circoscritta della sicurezza e della stabilità del Medio Oriente, come assenza di minacce e rischi per gli interessi di Washington e dei (pochi) alleati regionali. Una concezione “negativa” della sicurezza, un “non facere”.

La conferenza stampa del Presidente Donald Trump sul cambio di strategia in Iran:

 

La posizione di Federica Mogherini e, in sfumature diverse, dei leader europei confermerebbe l’adesione ad una visione integrata (integrated approach) interessata alla promozione di stabilità, sicurezza, prosperità economica, salvaguardia dei diritti umani, in cui ruolo fondamentale è rivestito dalla negoziazione multilaterale. Una concezione “positiva” della sicurezza.

La conferenza stampa dell’Alto Rappresentante dell’UE Federica Mogherini sull’Iran Deal:

Oggi il punto di disaccordo è, sostanzialmente, questo: Donald Trump propone la rottamazione dell’accordo perchè lo considera non esaustivo e svantaggioso non annoverando misure di contro-proliferazione missilistica e di altri sistemi d’arma. Gli Europei, pur condividendone le preoccupazioni, non ritengono essenziale la dismissione del JCPOA che è ritenuto un valido punto di partenza per  più ampi negoziati multilaterali che affrontino i nodi irrisolti.

Dal canto suo, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA), deputata alla verifica del rispetto dell’accordo, ha certificato che Teheran ha onorato tutte le condizioni ed è pienamente in regola con il JCPOA.

Negli ultimi 2 anni, l’Unione Europea si è fatta promotrice, inoltre, tramite la “Iran Task Force” di una crescente cooperazione con Teheran su un vasto numero di materie. Le frizioni, , chiaramente rimangono preponderanti: il supporto iraniano delle milizie Houthi in Yemen e di Hezbollah in Libano, il massiccio programma missilistico di Teheran, le posizioni su Israele, le violazioni di diritti umani e civili, sono solo alcuni dei punti di contrasto. Non è un caso, infatti, che le sanzioni UE all’Iran per le violazioni dei diritti umani siano rimaste in vigore nonostante le proteste di Teheran.

Teheran è, paradossalmente, l’unica che potrebbe guadagnare qualcosa da questa frattura: i top officials iraniani, infatti, non hanno mai nascosto che un fronte atlantico fiaccato sarebbe un vantaggio per gli interessi regionali dell’Iran. In caso di uscita americana dall’accordo, l’Iran potrebbe continuare a supportare l’accordo avvicinando UE e Russia oppure dichiararne la fine per sopraggiunta violazione da parte degli USA che, verosimilmente, riapplicherebbero il set di sanzioni contro Teheran a cui avevano rinunciato con il JCPOA.

In entrambi i casi, l’Unione e gli Stati membri saranno obbligati a prendere decisioni fondamentali sull’Iran e sul rapporto con gli USA nel settore medio-orientale, che potrebbero segnare un punto di svolta della Politica Estera e di Sicurezza Comune. Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha in programma una visita a Washington nei primi giorni di novembre. Cercherà di ricucire la ferita? Quale sarà la risposta del Presidente americano?

Lorenzo Termine

Anti-terrorismo, Internet al fianco dei Governi

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Il G7 appena conclusosi ad Ischia e tenutosi sotto la presidenza italiana negli scorsi mesi in varie città del nostro paese ha preso importanti decisioni sulla lotta al terrorismo. Un interessante sviluppo si ha avuto in materia di contrasto alla proliferazione online di contenuti legati al jihadismo.

Il G7, infatti, rilevando che “Daesh e Al-Qaida continuano a sfruttare Internet per diffondere i propri messaggi propagandistici, reclutare operativi, incitare alla violenza e fomentare attacchi” e che, in particolare, lo Stato Islamico “mentre soffre una serie di sconfitte sul campo di battaglia, sta sfruttando la rete per istigare i simpatizzanti a condurre attacchi terroristici nei nostri paesi e in tutto il mondo” ha evidenziato la necessità di una fitta cooperazione tra le autorità nazionali di sicurezza e i Communication Service Providers e le compagnie di Social Media.

Tale cooperazione potrà fare affidamento oltre che sugli accordi bilaterali anche su organi già esistenti quali il Global Internet Forum to Counter Terrorism formato da Facebook, Twitter, Microsoft e Youtube, lo Shared Industry Hash Database, sistema di condivisione di hash, vere e proprie firme digitali per identificare gli autori di contenuti, l’EU Internet Forum e il Civil Society Empowerment Programme.

L’intesa si ispira al concetto di Partnership Pubblico-Privata (PPP) e si fonda sui seguenti pilastri:

  1. Prevenire la diffusione di contenuti di matrice terroristica sulla rete anche attraverso l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale
  2. Fare rapporto alle autorità di sicurezza in caso di necessità
  3. Creare un dialogo strutturato a cadenza regolare tra Stati e compagnie tech
  4. Coinvolgere altre compagnie tech nell’intesa per aumentare il raggio d’azione, in particolare per quanto riguarda il Database di Hash.

Sul tema è intervenuto anche il Ministro degli Interni Marco Minniti che ha dichiarato: “Oggi trasmettiamo un messaggio forte alle opinioni pubbliche del mondo: è possibile avere un principio di sicurezza che non pregiudichi la libertà grazie a delle innovazioni che i grandi provider hanno già messo in atto e che noi implementeremo”.

L’intesa raggiunta è la prima iniziativa internazionale multilaterale a coinvolgere le compagnie tech e rappresenta un primo passo per un approccio integrato pubblico-privato per il monitoraggio e il contrasto dei contenuti terroristici sul Web.

Lorenzo Termine

Trump e l’Europa, prove generali dello scontro?

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Rilevata l’importanza dell’asse Francia-Germania all’interno dell’Unione Europea (https://goo.gl/fU4azs) e quanto dipenderà soprattutto da esso lo sviluppo dell’integrazione in materia di Difesa e Sicurezza, è necessario sottolineare che la relazione tra l’UE e il partner transatlantico continua e continuerà ad influenzare i progressi comunitari in ambito di “hard policies” sia agendo che non agendo.

Lungi dal voler ridurre il rapporto tra NATO e Difesa UE ad una mera compensazione per cui se la NATO difetta, gli alleati europei danno nuovo impulso all’integrazione UE di Difesa e Sicurezza, e viceversa, è, però, da notare come negli ultimi mesi la retorica europea abbia evidenziato la necessità di maggiore integrazione UE proprio a causa di una sopraggiunta inaffidabilità del partner americano (in particolare si rimanda alla dichiarazione della Cancelliera Merkel “The times in which we could rely fully on others — they are somewhat over”, a margine del summit NATO a Bruxelles).

Neanche dopo 5 mesi dal summit NATO di Bruxelles, il rapporto UE-NATO sembra essere messo alla prova su un dossier scottante, l’Iran. Durante la conferenza stampa del 13 ottobre, il Presidente americano Donald Trump ha annunciato una nuova strategia USA per l’Iran che si fonderà su:

  1. Un lavoro congiunto con gli alleati per lottare contro il ruolo destabilizzante di Teheran.
  2. Un nuovo regime di sanzioni contro il paese.
  3. Nuove azioni per contrastare non più solo la corsa al nucleare, ma la proliferazione missilistica e di armi che possano minacciare la regione, il commercio internazionale e la libertà di navigazione.
  4. Un rinnovato impegno contro ogni possibile percorso iraniano verso il nucleare.

Concludendo, il Presidente Trump ha annunciato che non certificherà più l’effettivo rispetto dell’accordo da parte iraniana presso il Congresso, de facto delegando ad esso la stesura di un nuovo set di requisiti per l’Iran che comprenda anche misure di contro-proliferazione missilistica. Nel caso in cui il Congresso non riuscisse nel suo intento, il Presidente si riserva di “terminare l’accordo”.

Quello che Trump sembra proporre più che una nuova strategia sembra un ritorno all’approccio pre-2015 e in maniera neanche troppo radicale. Le uniche due manovre dichiarate, nuove sanzioni contro le Guardie della Rivoluzione Islamica e la non-certificazione, non implicano l’uscita degli USA dall’accordo. Ci si chiede se, quindi, le discussioni in Congresso siano un pro-forma e il Partito Repubblicano, facendo fallire qualsiasi compromesso, voglia appoggiare il Presidente (che ha criticato aspramente l’Iran Deal) permettendogli, così, di tirare fuori gli Stati Uniti dall’accordo, oppure se, effettivamente, Trump abbia delegato al Congresso la gestione di un dossier così importante come quello dell’accordo iraniano.

Intanto, le reazioni dei leader europei non si sono fatte attendere. Emmanuel Macron, Theresa May e Angela Merkel hanno preso parola congiuntamente con un comunicato stampa che recita:

We stand committed to the JCPoA and its full implementation by all sides. Preserving the JCPoA is in our shared national security interest. […] Therefore, we encourage the US Administration and Congress to consider the implications to the security of the US and its allies before taking any steps that might undermine the JCPoA, such as re-imposing sanctions on Iran lifted under the agreement.”

Simili le parole di Paolo Gentiloni:

L’Italia […] si unisce alla preoccupazione espressa dai Capi di Stato e di Governo di Francia, Germania e Regno Unito per le possibili conseguenze. Preservare l’accordo, unanimemente fatto proprio dal Consiglio di Sicurezza nella Risoluzione 2231, corrisponde a interessi di sicurezza nazionali condivisi.”

Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, in maniera più dura ha dichiarato che:

We cannot afford as the international community to dismantle a nuclear agreement that is working. This deal is not a bilateral agreement […] The international community, and the European Union with it, has clearly indicated that the deal is, and will, continue to be in place.”

Stiamo osservando una cristallizzazione delle posizioni transatlantiche sull’Iran che porterà a risultati incerti per quanto riguarda la tenuta dell’accordo. Quello che è chiaro è che lo scontro sull’accordo iraniano è stato semplicemente ritardato e che, quando sorgerà, avrà delle conseguenze anche sul ruolo della NATO in Europa.

Guarda anche “Sull’Iran, tutti contro Trump – Infografica

Lorenzo Termine

Quando è stata creata e perché MOAB la madre di tutte le bombe

AMERICHE/Difesa di

Una crisi come quella che si sta verificando in questi giorni non si vedeva forse da decenni, due delle più grandi potenze militari si fronteggiano apertamente in medio oriente mentre un secondo fronte per gli americani si apre nel pacifico con la Corea del Nord.

In questo specifico momento il mondo viene a conoscenza della più potente delle bombe convenzionali, la madre di tutte le bombe, come viene definita dagli stessi americani che l’hanno lanciata in Afghanistan.

Questo ordigno fu sviluppato nel 2003 per poterla rendere disponibile durante l’operazione “Iraqi freedom” contro Saddam Hussein, per poterlo mettere sotto pressione e indurlo ad una resa.

L’ordigno è realizzato in alluminio, progettato per esplodere in superfice e non per penetrare in profondità è una “bomba intelligente” con munizioni guidate da GPS. Ha pinne stabilizzanti e giroscopi inerziali per il controllo del pitch and roll.

Pesa ben 10.000 kilogrammi! Il MOAB ha una testata di 8,482 Kg nota come BLU-120 / B, che è fatta di H6 – una miscela di ciclotrimetilene trinitramina, TNT e alluminio. È molto grossa, circa 30 metri di lunghezza con un diametro di 40,5 pollici.

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La reazione dei russi non si è fatta aspettare e secondo “globalsecurity.org” l’11 settembre del 2007, l’esercito russo ha annunciato di aver testato il “padre di tutte le bombe”, la più potente munizione a cielo aperto non nucleare del mondo. I russi hanno detto che è quattro volte più potente del MOAB, anche se ha tecnicamente meno esplosivi (7,8 tonnellate rispetto ai 8 tonnellate del MOAB). Il FOAB si dice che utilizzi esplosivi più efficienti, portando l’equivalente di 44 tonnellate di TNT con un raggio d’azione di 300 metri, pari a quello del MOAB.

 Il MOAB è stato usato nei giorni scorsi per colpire delle postazioni dell’ISIS in Afghanistan. L’operazione è stata diretta per una grotta e i complessi sistemi du tunnel dei terroristi nel distretto di Achin della provincia di Nangarhar.

La bomba è stata caricata su un Hercules C-130 e posizionata in una culla su una piattaforma “airdrop” fino a quando l’intera piattaforma è stata tirata fuori dal piano ad un’altitudine elevata da un paracadute drogue, utilizzato per rallentarlo. Una volta in aria, l’arma è stata liberata rapidamente dalla piattaforma per mantenere il suo slancio in avanti. Le alette della griglia si aprirono per stabilizzarla e guidarla al suo bersaglio.

Perché Shinzo Abe renderà omaggio alle vittime di Pearl Harbour

AMERICHE/Asia di

L’alleanza tra Usa e Giappone sembra destinata a rafforzarsi ulteriormente nel prossimo futuro. Il primo segnale era stato l’incontro “franco e cordiale” tra il presidente eletto Trump ed il premier nipponico Shinzo Abe dello scorso 17 novembre, primo meeting informale per l’amministrazione entrante con un capo di governo straniero. Il secondo passo, ben più significativo sul piano simbolico e politico, è l’annuncio della visita di Abe a Pearl Harbour, in concomitanza con le celebrazioni in memoria dell’attacco aereo giapponese sul porto statunitense delle Hawaii, che causò 2400 vittime e spinse gli Usa ad entrare in guerra 75 anni fa, il 7 dicembre del 1941.

La visita, programmata per la fine di Dicembre, si preannuncia come un gesto di portata storica che punta a rafforzare il legame tra i due paesi e ad inaugurare un nuova fase nelle relazioni bilaterali tra le sponde del pacifico. Gli aspetti più concreti e terreni riguardano la necessità giapponese di ridurre le incertezze riguardanti la futura politica statunitense nei confronti del Sol Levante, alimentate dalla sregolata campagna presidenziale di Trump che, tra le altre cose, aveva esortato Tokio a contribuire maggiormente alle spese per le basi militari americane sul suolo giapponese.

La visita culminerà con un incontro al vertice tra il premier nipponico ed il presidente uscente Obama, i prossimi 26 e 27 dicembre, recapitando un chiaro messaggio alla nuova amministrazione: l’alleanza funziona così com’è e non deve essere messa in discussione. Obama e Abe hanno infatti contribuito in modo convinto, in diverse occasioni, a cementare la cooperazione strategica tra i rispettivi paesi. Nel 2015 le linee guida di difesa comune sono state aggiornate e le Forze di Auto-Difesa giapponesi sono state autorizzate ad intervenire a fianco dell’esercito americano nell’ambito di un limitato numero di scenari.

Trump, invece, non è stato tenero con il Giappone durante la recente campagna presidenziale. Dopo aver chiesto più soldi per continuare a garantire la presenza delle basi militari americane nell’arcipelago, il candidato Trump aveva criticato Obama per aver fatto visita ad Hiroshima, nel ruolo di primo presidente americano a rendere omaggio alle vittime del bombardamento nucleare che pose fine alla guerra mondiale nel Pacifico. Secondo Trump, in quell’occasione Obama avrebbe dovuto ricordare anche le vittime dell’attacco giapponese a Pearl Harbour dove “migliaia di vite americane sono andate perdute”.

La prossima visita di Abe servirebbe dunque a compensare il gesto di apertura di Obama e a offrire alla nuova amministrazione l’immagine di un Giappone disposto a guardare al passato con occhi diversi. Secondo l’analista Kent Calder della John Hopkins University, la visita di Abe renderà l’alleanza col Giappone più digeribile per i sostenitori di Trump, facilitando le relazioni future.

Sul fronte nipponico, Abe è sempre sembrato disposto a mettere in discussione quella pagina della storia nazionale, riconoscendo almeno in parte le responsabilità del suo paese. Durante una sessione congiunta del Congresso, lo scorso anno, il primo ministro del Sol Levante ha fatto espresso riferimento, per la prima volta, all’attacco di Pearl Harbour, pur senza offrire scuse ufficiali. Anche in previsione della visita di fine dicembre, la questione delle scuse rimarrà sospesa. Abe intende portare “conforto” alle vittime dell’attacco giapponese di 75 anni fa e rendere omaggio alla loro memoria, ma non è lecito attendersi l’uso di un linguaggio diretto che possa essere letto in patria come la formulazione di scuse pubbliche nei confronti del nemico di allora.

Sul fronte americano, la visita di Abe potrebbe urtare i sentimenti dei reduci e dei parenti delle vittime, una preoccupazione cui l’amministrazione entrante è certamente molto sensibile. Anche Josh Earnest, l’attuale Press Secretary della Casa Bianca, non esclude che la visita giapponese possa amareggiare le vittime dell’attacco, anche a distanza di così tanto tempo. Earnest si dice però fiducioso che in molti metteranno da parte la propria dose di amarezza, riconoscendo la portata storica dell’evento.

La visita si prospetta dunque come un successo per Obama, che cerca di consolidare la propria legacy con una vittoria simbolica e diplomatica nel momento in cui le sue principali conquiste sul fronte internazionale, l’accordo sul nucleare iraniano e il riavvicinamento tra Washington e La Havana, rischiano di essere travolti dall’onda della nuova amministrazione Trump.

A raccoglierne i frutti migliori sarà però Shinzo Abe. La visita servirà al primo ministro per scrollarsi di dosso l’etichetta del revisionista storico, che lo accompagna dal momento della sua elezione e che ne offusca l’immagine in patria e sopratutto all’estero. Fumiaky Kubo, uno storico interpellato dal Japan Time, sostiene che Abe, nonostante la cattiva fama, abbia fatto “più progressi nel percorso di riconciliazione bellica di qualunque altro primo ministro. Questo potrebbe essere un modello di riconciliazione su cui entrambe le parti potrebbero basare i propri sforzi”.

Nel momento in cui il TPP (Partenariato Trans Pacifico) sembra destinato al fallimento e la disputa territoriale sulle isole tra Kamcatka e Hokkaido che contrappone il Giappone alla Russia è ferma su un binario morto, un rafforzamento della partnership con gli USA potrebbe essere quello di cui Abe ha bisogno per rilanciare la sua azione di governo sul teatro internazionale. Anche a costo di annacquare la verve nazionalistica che lo ha sempre caratterizzato.

Luca Marchesini
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