GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

Monthly archive

Maggio 2018 - page 2

Caex 2018, l’Aviazione dell’Esercito si addestra per operazioni di Personel Recovery

SICUREZZA di

Viterbo, inizia oggi una delle più importanti esercitazioni dell’Esercito Italiano sul territorio nazionale. L’Aviazione dell’Esercito da oggi per due settimane scende in campo con l’Esercitazione CAEX I 2018 (Complex Aviation Exercise). Dopo una prima fase di pianificazione da parte dei Comandanti (Esercitazione Quadri) svoltasi a Viterbo dal 9 al 15 aprile scorso, i reparti della Specialità sono pronti a iniziare questa seconda fase pragmatica di addestramento.

Scopo dell’esercitazione approntare e validare gli assetti dell’Aviazione dell’Esercito da impiegare nei Teatri Operativi al fine di verificare e affinare le capacità di condotta delle operazioni nella terza dimensione; nonché condurre un processo decisionale di pianificazione per amalgamare il personale delle unità e sviluppare in condotta la capacità di gestire situazioni di crisi.

Ente pilota di questa esercitazione il Comando Aviazione dell’Esercito, sotto la guida del Generale di Brigata Paolo Riccò, ma diversi sono i reparti interessati: Comando di Sostegno Aviazione dell’Esercito, Comando Brigata Aeromobile “Friuli”, Comando Brigata RISTA/EW, Policlinico militare “Celio”, Centro Militare Veterinario, 1° Reggimento Aviazione dell’Esercito “Antares”, 2° Reggimento Aviazione dell’Esercito “Sirio”, 3° Reggimento Elicotteri per Operazioni Speciali “Aldebaran”, 4° Reggimento Aviazione dell’Esercito “Altair”, 5° Reggimento Aviazione dell’Esercito “Rigel”, 7° Reggimento Aviazione dell’Esercito “Vega”, 66° Reggimento Fanteria Aeromobile “Trieste”, 17° Reggimento Artiglieria Controaerei “Sforzesca”, 186° Reggimento Paracadutisti “Folgore”, 41° Reggimento “Cordenons”, 7° Reggimento Difesa NBC e 11° Reggimento Trasmissioni.

Attraverso attività di pianificazione, organizzazione e condotta di operazioni militari ovviamente sfruttando la terza dimensione, i reparti esercitati dovranno affrontare due settimane di intenso addestramento. La prima settimana, volta al raggiungimento del giusto livello di integrazione dei vari elementi, ha il fine di combinare al meglio le capacità specifiche di ogni reparto. Nella seconda, di vero e proprio addestramento real life, gli assetti esercitati dovranno rispondere in maniera tempestiva ed efficace alle attivazioni che “a tamburo” verranno loro lanciate.

L’area addestrativa abbraccerà complessivamente 3 regioni, Lazio, Umbria e Toscana. La base operativa avrà invece sede a Viterbo, presso l’Eliporto “Chelotti” e l’Aeroporto “Fabbri”.

Alluvioni in Somalia: quasi mezzo milione di persone colpite, aumenta il rischio di malnutrizione ed epidemie

AFRICA di

Save the Children denuncia il peggioramento di una situazione umanitaria già fragile. Le persone colpite dall’alluvione in Somalia sono 427.000 e di queste 175.000, già sfollate l’anno scorso a causa della siccità e della fame, sono state costrette a spostarsi nuovamente. Tra le famiglie colpite dall’alluvione sono già alti i tassi di malnutrizione a causa di una siccità di due anni, che ha devastato le colture e ucciso il bestiame. Inoltre, circa 2.000 contadini lungo il fiume Juba hanno perso campi, sistemi di irrigazione e attrezzatura agricola: le comunità già afflitte da una grave insicurezza alimentare ora affrontano una accresciuta difficoltà nell’accesso al cibo, aumentando i rischi di malnutrizione e di malattie quali diarrea acuta e colera. Sono 5.4 milioni le persone che, in Somalia, sono in condizioni di bisogno; di queste 2.7 milioni richiedono assistenza salva-vita urgente e Save the Children sta dando tutto il proprio aiuto. A causare le alluvioni è lo straripamento dei due maggiori fiumi della Somalia e le piogge che, a una settimana dal loro inizio, non accennano a diminuire. Con le piogge pesanti negli altopiani etiopi che, secondo le previsioni, proseguiranno, il fiume Shebelle potrebbe continuare a causare caos. Molti dei luoghi maggiormente colpiti dalla recente siccità nel Corno d’Africa stanno vivendo gli allagamenti, incluso il Kenya, dove oltre 100 persone sono rimaste ferite. Save the children è presente in Somaliland da più di una decina di anni e collabora con il personale locale e fornisce assistenza, training, finanziamenti e l’equipaggiamento necessario. L’assistenza consiste nel sostegno alle strutture sanitare e la creazione di progetti di sviluppo. Inoltre, hanno unità sanitarie mobili con cui raggiungono i luoghi più remoti. Arrivano con l’ambulanza e si occupano dei casi più gravi trasportandoli in ospedale. Per conoscere meglio la situazione, la redazione di European Affairs Megazine ha intervistato il Dottor Filippo Ungaro.

EA: Benvenuto dottor ungaro dobbiamo parlare ancora una volta di emergenza, parliamo dell’emergenza alluvioni in Somalia. Più di 427 mila sono le persone colpite, che cosa sta succedendo laggiù?

FU: Si purtroppo quasi mezzo milione di persone sono state costrette da allagamenti terribili, catastrofici, a spostarsi. Sono state colpite, appunto, da queste piogge torrenziali che hanno colpito la Somalia. Oltretutto la Somalia è un paese molto povero, viene definito uno stato fallito perché è uno stato molto fragile e con fragilità enormi dove paradossalmente tantissime persone soffrono, continuano a soffrire e soffrivano per una siccità dovuta ai cambiamenti climatici micidiali. Siamo di fronte a una situazione terribile. I nostri operatori dal campo ci riferiscono di famiglie che si sono lamentate per tutto il corso della notte chiedendo aiuto, si sono bloccate dentro le proprie case con bambini sopra gli armadi per cercare di ripararsi dall’alluvione, dall’allagamento. In alcuni casi l’acqua ha invaso completamente le case arrivando a mezzo metro, un metro di altezza.

EA: Tra l’altro bisogna descrivere quella che è la situazione idrogeologica del territorio, il terreno in Somalia è molto secco e poco permeabile. Per cui queste piogge creano immediatamente dei grandi fiumi velocissimi che scorrono distruggendo tutto quello che incontrano. Abbiamo testimonianze che ci sono giunte nei giorni scorsi sia dal nord, dove appunto 450 mila persone circa sono state sfollate e di cui anche voi avete riscontrato che 420 mila erano già sfollate delle alluvioni precedenti, ma anche dal sud la situazione non è migliore dato che sono state riscontrate 130 mila sfollati. Che cosa è necessario chiedere, qual è l’appello di Save the Children all’opinione pubblica internazionale?

FU: C’è senz’altro bisogno di maggiore supporto, la risposta alla crisi umanitaria in Somalia è finanziata soltanto per il 18%. È una quota del tutto insufficiente naturalmente. Save the Children, come altre organizzazioni umanitarie, sta cercando di fare il massimo. Noi come Save the Children abbiamo distribuito decine di migliaia di sacchi di sabbia, stiamo fornendo acqua potabile, stiamo cercando di intervenire in qualche modo anche sul sistema fognario ma tutto questo ovviamente non basta. Parliamo di un paese dove oltre 5 milioni di persone sono in condizione di estremo bisogno, dove c’è un livello di malnutrizione altissimo, soprattutto infantile, e quando un bambino è malnutrito è molto debole, quindi è soggetto a ogni tipo di malattia o epidemia. Chiaramente con l’alluvione, l’allagamento, il sistema fognario viene ancor più messo a rischio e a repentaglio. Il diffondersi di malattie e il rischio del diffondersi di malattie è molto alto. Quindi c’è bisogno sicuramente di maggior supporto e, come diceva lei prima, io sono stato in Somaliland, che fa parte della Somalia anche se si è dichiarata indipendente l’anno scorso, parliamo veramente di un terreno assolutamente arido e secco dove la vegetazione non esiste o quasi e quindi è assolutamente insufficiente per mantenere il terreno, per riuscire ad assorbire l’acqua che ancora una volta, anche in questo caso, viene causato dai cambiamenti climatici. Tutti questi fenomeni sono causati dai cambiamenti climatici. Quindi nel breve periodo c’è bisogno rispondere alla crisi umanitaria con un maggiore finanziamento nel lungo periodo bisogna pensare a uno sviluppo sostenibile. Appunto a uno sviluppo sostenibile adeguato.

EA: riprendendo anche quello che abbiamo detto prima, non solo l’emergenza immediata per la tragedia dei villaggi spazzati via, delle famiglie bloccate, dei feriti ma siccome queste alluvioni hanno colpito anche le colture che erano pronte per essere vendute, ci sarà anche nel medio termine il pericolo di una crisi economica e soprattutto alimentare o no?

FU: Assolutamente, assolutamente. Questo pericolo già c’era prima con la siccità per cui le colture erano messe in pericolo e anche l’allevamento. Perché l’economia della Somalia è basata intanto su un’economia di sussistenza che si regge soprattutto sull’allevamento del bestiame. Quindi le persone, le famiglie, già avevano perso a causa della siccità moltissimi capi di bestiame. Questa alluvione non fa altro che peggiorare le cose. La conta degli animali persi a seguito di questa alluvione ancora non è cominciata ma siamo certi che sarà drammatica. Inoltre, si unisce al fatto della perdita dei raccolti. Questo porterà a dei livelli di crisi economica e a livelli di necessità e di bisogno di assistenza umanitaria da parte della popolazione in Somalia molto ma molto alta, direi drammatica.

Vi sono altre testimonianze come quella di Jalafay Isak, membro del team di risposta all’emergenza di Save the Children operativo a Belet Weyne (la città più colpita), che racconta: “Durante la notte si sentiva il pianto ininterrotto delle famiglie che chiedevano aiuto: bloccate dentro alle case, coi bambini sopra agli armadi o sulle più alte superfici disponibili, avevano la paura costante di essere spazzate via dal fiume. Hanno provato a scappare, ma questo richiedeva di guadare l’acqua lì dove arrivava fino al petto ed era troppo pericoloso”. Questo è il racconto di chi ha assistito alle terrificanti scene di cui sono protagoniste famiglie intente a cercare la salvezza poiché il fiume Shebelle è esondato. L’esondazione ha colpito anche l’ufficio di Save the Children e lo staff è stato personalmente colpito dalla crisi, però continuano a rispondere ai bisogni della comunità. Gli agricoltori hanno perso le colture destinate al commercio, quasi pronte per essere raccolte, mentre le rudimentali rete fognarie sono state spazzate via. Alcune scuole sono state allagate e chiuse e il rischio di epidemie di colera è alto. A questo proposito Save the Children ha condotto di recente una campagna di vaccinazione per prevenire il colera in alcune delle aree più difficilmente raggiungibili della Somalia meridionale, già colpite dalla siccità e che, di conseguenza, pativano la mancanza di condizioni igienico-sanitarie adeguate. L’organizzazione inoltre ha distribuito 12.000 sacchi di sabbia questa settimana e sta fornendo acqua potabile sicura a 7.000 nuclei familiari. Poi sta preparando 90 latrine d’emergenza per far fronte alla mancanza di servizi sanitari e prevenire lo scoppio di epidemie nell’area. Poiché gli allagamenti potrebbero impiegare settimane a ritirarsi sono necessarie barche a motore per raggiungere le persone che si trovano in luoghi isolati. Il presidente somalo ha chiesto supporto urgente all’Unione Africana, la quale ha risposto schierando membri dell’esercito, tuttavia molte aree restano tagliate fuori.

Tra siccità e alluvioni

Recentemente la Somalia ha dovuto affrontare il problema della siccità, questo ha resto il terreno ulteriormente secco e poco permeabile. La siccità in Africa Orientale ha messo in ginocchio paesi già colpiti da guerre, crisi politiche e scontri etnici, ciò ha generato crisi umanitarie profonde in paesi come il Sud Sudan, l’Etiopia, l’Eritrea, il Burundi, il Kenya e, appunto, la Somalia. Di conseguenza in questi paesi vi sono Insicurezza alimentare acuta (l’impossibilità di consumare cibo adeguato mette direttamente in pericolo le vite e i mezzi di sostentamento delle persone) e Fame Cronica (una situazione nella quale una persona non è in grado di consumare cibo sufficiente a mantenere uno stile di vita normale e attivo per un periodo prolungato) che rappresentano una piaga per milioni di persone nel mondo. A livello mondiale le situazioni di conflitto rimangono il fattore principale alla base della grave insicurezza alimentare in 18 paesi, 15 dei quali in Africa e Medio Oriente. Mentre I disastri climatici hanno provocato crisi alimentari in 23 paesi, due terzi dei quali in Africa. Conflitti, disastri climatici e altri fattori spesso contribuiscono a crisi complesse che hanno ripercussioni devastanti e durature sui mezzi di sostentamento delle persone. Per secoli, le popolazioni dell’Africa Orientale hanno dovuto affrontare fenomeni di questo tipo con una cadenza di cinque o sei anni. Recentemente, però, si è assistito a un’accelerazione di questa periodicità a causa del surriscaldamento globale. L’aumento delle temperature ha portato a un progressivo inaridimento delle fonti idriche con un conseguente calo della produzione agricola e un impoverimento dei pascoli. Il caldo e le eccessive distanze per procurarsi l’acqua mettono a repentaglio vite umane e bestiame. Bradfield Lyon, professore associato al Climate Change Institute della University of Maine, ha detto che, nella regione dell’Africa Orientale, l’insicurezza alimentare è cronica per cui anche i cambiamenti climatici possono avere impatti enormi. In Africa la frequenza delle siccità si sta intensificando fin dagli anni Novanta. Secondo gli studi di Lyon, ciò è dovuto in parte agli effetti del ciclo di El Niño e La Niña, i periodici fenomeni di riscaldamento e raffreddamento delle acque del Pacifico. I cambiamenti climatici esasperano questi effetti, spingendo verso l’alto le temperature e causando aridità. In più, la presenza delle milizie islamiste di al Shabaab non permette alle organizzazioni umanitarie di raggiungere le regioni più bisognose e operare al meglio contro la crisi. I fenomeni ambientali ormai hanno conseguenze anche sulle migrazioni. I grandi eventi meteorologici estremi in passato hanno portato a notevoli spostamenti di popolazione e i cambiamenti nell’incidenza amplificheranno le sfide umanitarie e i rischi di tali spostamenti. Questo perché molti gruppi vulnerabili non dispongono delle risorse per poter migrare e poter evitare gli impatti dei cambiamenti climatici ma anche perché gli stessi migranti possono essere vulnerabili agli impatti dei cambiamenti climatici nelle aree di destinazione, in particolare nei centri urbani dei paesi in via di sviluppo. Inoltre, alcuni dei fattori che aumentano il rischio di conflitti violenti all’interno degli Stati sono sensibili ai cambiamenti climatici (ad esempio bassi redditi pro-capite, contrazione economica e istituzioni statali incoerenti). Occorre pensare poi che le persone che vivono in luoghi colpiti da violenti conflitti sono particolarmente vulnerabili ai cambiamenti climatici. Ad esempio, il maggior afflusso di somali in Kenya (altro paese che oggi è profondamente colpito dai problemi delle alluvioni) nel 2012 e nel 2013 è stato motivato tanto dalla siccità e dalla carestia che hanno colpito la Somalia quanto dalle azioni di Al Shabaab e dei gruppi armati.

Per questi motivi è importante l’operato delle organizzazioni umanitarie che ogni giorno affrontano queste e altre problematiche ed è ancora più importante sostenerle. Ciò è legato al fatto che se non è presente una rete di assistenza che possa attivarsi per rispondere all’emergenza, il fenomeno si intensifica. Occorre ricordare che se non si affronta la crisi, si ha una tragedia. Tragedia che pagano donne, uomini e bambini.

I dannati della terra: il report sullo scandalo Italiano che coinvolge lavoratori e migranti

CRONACA/EUROPA di

Medici per i Diritti Umani (MEDU) ha avviato dal 2014 il progetto Terragiusta, una campagna contro lo sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura, realizzato con il sostegno di Fondazione con il Sud, Fondazione Charlemagne, Open Society Foundations e OIS (Osservatorio Internazionale per la Salute Onlus). L’associazione recentemente ha presentato il rapporto intitolato “I Dannati della terra, rapporto sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri nella piana di Gioia Tauro”. Dalla Calabria proviene un quarto della produzione nazionale di agrumi e tutta la provincia di Reggio Calabria è un territorio a vocazione agricola: l’agricoltura è il settore principale dell’economia locale e consiste in 25.000 ettari di frutteto della piana. A partire dagli anni ’90 sono arrivate le comunità di braccianti stranieri: per primi sono arrivati migranti magrebini, poi migranti dall’Europa dell’est e per ultimi i migranti dell’africa sub-sahariana. Il contesto vede un atteggiamento di razzismo e di indifferenza verso i lavoratori africani che lavorano in nero e sono vittime di un’illegalità diffusa. I caratteri dominanti sono: condizioni lavorative di sfruttamento o pratiche illecite e situazioni abitative di degrado e marginalizzazione. MEDU per cinque anni consecutivi ha operato nella Piana di Gioia Tauro prestando assistenza sociosanitaria ai lavoratori migranti, almeno 3500 persone distribuite tra i vari insediamenti informali sparsi nella piana, che forniscono manodopera flessibile e a basso costo ai produttori locali di arance, clementine e kiwi. In questo contesto si vedono gli effetti negativi dell’incontro tra il sistema dell’economia globalizzata, le contraddizioni nella gestione del fenomeno migratorio nel nostro paese e i nodi irrisolti della questione meridionale.

La situazione attuale e l’intervento MEDU

In 5 anni di intervento MEDU ha offerto la prima assistenza medica, orientamento sociosanitario e sui diritti del lavoro e compiuto il monitoraggio delle condizioni sociosanitarie dei pazienti (come la rivelazione dei dati epidemiologici, relazione tra le condizioni lavorative e di salute, status giuridico, condizioni abitative e accesso alle cure). Con il supporto di CGIL Gioia Tauro ha offerto orientamento legale, mediazione legale e potenziamento sui diritti del lavoro. La popolazione è prevalentemente giovane e di sesso maschile, l’età media è di 29 anni. Le precarie condizioni di vita pregiudicano la salute fisica e mentale dei lavoratori stagionali; inoltre, molti non sanno a cosa serva la tessera sanitaria né dell’esistenza di un medico di base di riferimento. Sono state riscontrate patologie prevalentemente riconducibili alle gravi condizioni di vita e di lavoro quali malattie all’apparato digerente, all’apparato respiratorio e malattie osteomuscolari e al tessuto connettivo. Tra cumuli di immondizia, bagni maleodoranti e fatiscenti, bombole a gas per riscaldare cibo e acqua, pochi generatori a benzina, materassi a terra o posizionati su vecchie reti e l’odore nauseabondo di plastica e rifiuti bruciati vivono queste persone. La gran parte dei braccianti continua a concentrarsi nella zona industriale di San Ferdinando, a pochi passi da Rosarno, in particolare nella vecchia tendopoli (che accoglie almeno il 60% dei lavoratori migranti stagionali della zona), in un capannone adiacente e nella vecchia fabbrica a poche centinaia di metri di distanza. La situazione vede preoccupanti condizioni igienico-sanitarie, mancanza di acqua potabile e frequenti roghi che hanno in più occasioni ridotto in cenere le baracche ed i pochi averi e documenti degli abitanti. Tutto ciò rende la vita in questi luoghi precaria e a rischio. Secondo l’articolo 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’UomoOgni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”; è evidente che questo diritto non viene garantito. Manca una pianificazione sia per l’accoglienza dei lavoratori stagionali che per quelli che passano qui gran parte dell’anno, manca un progetto complessivo di mediazione abitativa e inclusione sociale. Nell’agosto 2017 è stata aperta l’ennesima tendopoli “ufficiale” in grado di ospitare circa 500 persone. La struttura, circondata da un alto reticolato e da telecamere di videosorveglianza, è gestita da associazioni della protezione civile che sorvegliano ingressi ed uscite attraverso un sistema di badge e riconoscimento delle impronte digitali e provvedono alla manutenzione del posto. Ci sono 7 container adibiti a servizi igienici, acqua calda ed elettricità. L’acqua erogata non è adatta al consumo umano e non è attivo alcun servizio di distribuzione di acqua potabile. Non è previsto alcun tipo di assistenza socio-legale né medica e psicologica, e gli operatori si affidano a due ospiti per il servizio di pulizia e mediazione. La tendopoli rappresenta una soluzione emergenziale, non risolutiva e costosa. La prima tendopoli realizzata nel 2012 si è trasformata rapidamente in una baraccopoli e venne sgomberata nel 2013 in seguito ad una relazione dall’Azienda sanitaria locale sulle preoccupanti condizioni igienico-sanitarie rilevate. Al suo posto venne allestito un nuovo capo di accoglienza sul sito dell’attuale baraccopoli. Le tende blu ormai lacere ed i container adibiti a bagni, che versano da anni in condizioni deprecabili, ben chiariscono la sua denominazione di “vecchia tendopoli”. Priva di luce e acqua corrente (l’acqua – non potabile – si prende dai bagni o da una fontana vicina), ospita baracche (casette improvvisate di cartone, plastica e lamiera) e vecchie tende con letti e materassi che accolgono almeno 2000 persone nel pieno della stagione agrumicola. Le bombole a gas permettono alle persone di cucinare e di riscaldare l’acqua per la doccia, mentre alcuni generatori a benzina riescono ad illuminare o diffondere un po’ di musica. Nell’insediamento è sorta un’economia informale fatta di attività e commerci per rispondere ai bisogni delle migliaia di abitanti delle due tendopoli. I rifiuti, per i quali non è previsto alcun servizio di raccolta, si accumulano nel perimetro dell’insediamento o in buche create a questo scopo. Bruciarli è l’unico metodo di smaltimento adottato, rendendo l’aria irrespirabile e contribuendo a peggiorare le già critiche condizioni igienico-sanitarie. Quella descritta è una situazione di Isolamento e marginalizzazione fisica e sociale dei lavoratori migranti che peggiorerà con la crescita della popolazione della baraccopoli. È da segnalare l’aumento del numero di donne presumibilmente vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale che necessitano di assistenza.

Foto di Rocco Rorandelli per “Medici per i diritti umani”

I braccianti vengono retribuiti a giornata, a cottimo o a ore. Oltre un terzo dei lavoratori deve rivolgersi al “caporale” sia per la ricerca di lavoro che per il trasporto (a cui versa 3 euro al giorno) per raggiungere il posto di lavoro, inoltre a questo viene versata una quota fissa o una percentuale sulla raccolta. Il bracciante ha un impiego per 3-4 giorni alla settimana per 8-9 ore di lavoro al giorno. La retribuzione media percepita e di 25 euro a giornata ma la quasi totalità dei pazienti non conosce la busta paga e non sa se verranno versati i contributi. Inoltre, il pagamento spesso avviene in ritardo. L’articolo 23 della dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo recita1. Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione. 2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro. 3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale”; anche qui sorgono delle criticità. Lo sfruttamento lavorativo continua ad essere un fenomeno (economico, sociale ed umano) ampiamente diffuso che si caratterizza per le patologiche relazioni di lavoro e che viene agevolato dalla condizione di disagio e vulnerabilità del lavoratore migrante. La condizione è di grave sfruttamento e sistematica violazione dei diritti dei lavoratori in un ambiente in cui vi è la difficoltà di denuncia da parte dei lavoratori per il timore di rimanere senza lavoro. Il problema consiste maggiormente nella debole capacità di controllo e monitoraggio da parte delle istituzioni sulle aziende, dall’assenza di incentivi per le imprese agricole e dalla presenza un settore agrumicolo fragile e frammentato e da una filiera iniqua dominata dalla grande distribuzione. Per fare fronte a ciò la Regione Calabria è stata una delle prime ad adottare nel dicembre del 2016 la “Convenzione di cooperazione per il contrasto al caporalato e al lavoro sommerso e irregolare in agricoltura”, sottoscritta nell’ambito del Protocollo interministeriale contro il caporalato e lo sfruttamento lavorativo in agricoltura siglato a livello nazionale il 27 maggio dello stesso anno. L’accordo si poneva l’obiettivo di realizzare una “rete” che rendesse più efficaci gli interventi di contrasto al caporalato e al lavoro nero attribuendo compiti e responsabilità precise agli Enti sottoscrittori tra cui attività di informazione e orientamento al lavoro nel settore agricolo, tavoli di lavoro con dei rappresentanti dell’INAIL e dell’INPS con la collaborazione di mediatori culturali e l’impegno della regione Calabria a promuovere politiche abitative a favore dei lavoratori agricoli stagionali. La Convenzione assegnava poi alle Organizzazioni datoriali il compito di svolgere attività di sensibilizzazione dei propri iscritti per l’assunzione di lavoratori agricoli stagionali dalle liste di prenotazione istituite presso i Centri per l’impiego, di realizzare sistemi di trasporto per le lavoratrici e i lavoratori del settore agricolo che coprano l’itinerario casa/luogo di lavoro e di segnalare agli Organismi preposti ogni situazione di irregolarità di cui venissero a conoscenza. La denuncia di MEDU è che poco o nulla di tutto questo pare aver trovato attuazione al momento se non per l’attività di informazione ai lavoratori da parte delle organizzazioni sindacali in materia contrattuale, previdenziale e assistenziale, di sicurezza sul lavoro, su problematiche di carattere lavorativo o legate allo status di lavoratore extracomunitario. La situazione di irregolarità diffusa nel lavoro agricolo risulta un problema per i migranti, in quanto si fonda sulla sistematica violazione di diritti, che per il sistema paese. Questa irregolarità determina un enorme costo in termini di evasione fiscale e altera significativamente la concorrenza pregiudicando i diritti delle imprese che rispettano le regole. Per il prossimo futuro si vede un ulteriore aumento del numero di persone in condizione di irregolarità e costrette a vivere negli insediamenti informali sparsi sul territorio nazionale, ciò comporterà un aggravamento progressivo ed una cronicizzazione delle condizioni di marginalità sociale. Nel rapporto si dice che “Il precario status giuridico della maggior parte dei lavoratori migranti, insieme ad una scarsa conoscenza dei propri diritti, aumenta la vulnerabilità e l’accettazione pressoché incondizionata di condizioni di lavoro inique e fondate sulla necessità ed il bisogno”. Lo status giuridico diventa sinonimo di precarietà per la difficoltà di accesso per la difficoltà di accesso alla procedura per la domanda d’asilo e per i lunghi tempi di attesa per il suo completamento, per la lentezza nel disbrigo delle pratiche di rinnovo del permesso di soggiorno, per scarsità di risorse e personale degli uffici territoriali preposti al rilascio e al rinnovo dei titoli di soggiorno e per la precarietà giuridica dovuta al carattere temporaneo di molti permessi di soggiorno.

Foto di Rocco Rorandelli per “Medici per i diritti umani”

Non sono mancate, nel corso degli ultimi anni, le dichiarazioni da parte delle istituzioni per un maggiore impegno in direzione di un miglioramento delle condizioni complessive di vita e lavoro dei braccianti stagionali. Le dichiarazioni erano volte ad assicurare l’individuazione e la realizzazione di politiche attive di accoglienza ed integrazione nel tessuto sociale locale oltre che a prevedere lo sviluppo di iniziative progettuali di integrazione sociale e di inserimento lavorativo degli stranieri specie in agricoltura. La stessa convenzione firmata nel 2016 era volta a favorire il libero mercato del lavoro nel settore agricolo e a prevenire forme illegali di intermediazione di manodopera e il lavoro irregolare, inoltre prevedeva anche di promuovere “politiche abitative in favore dei lavoratori agricoli stagionali” e l’istituzione di attività in favore dei lavoratori stagionali. Nella stessa direzione andavano la nomina governativa del commissario straordinario per l’area di San Ferdinando, dell’agosto dello scorso anno, con il compito di adottare un piano di interventi per il risanamento e l’integrazione dei cittadini stranieri nell’area. MEDU però sottolinea che è stato un impegno sulla carta e a parole. Ad oggi tutte le dichiarazioni non si sono tradotte in azioni concrete in grado di porre limiti al degrado e allo sfruttamento in nome di un processo di inclusione reale e tangibile capace di generare ricadute positive a beneficio del territorio.

Il fenomeno migratorio

Il fenomeno migratorio, è un fenomeno globale. In tutto il mondo la popolazione in movimento è pari a 65.6 milioni (quanto la popolazione dell’intera Francia) e ci si muove per vari motivi: guerra, povertà, cambiamenti climatici, studio o lavoro. Per esempio, tra i migranti provenienti dal Corno d’Africa, e in particolare dall’Eritrea, il motivo principale della fuga è il servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato, un sistema paragonabile ai lavori forzati. In generale i migranti dell’Africa subsahariana si muovono per la persecuzione politica o per motivazioni economiche. Prima di arrivare al Mediterraneo i migranti devono affrontare un lungo viaggio e in molti casi non è detto che arrivino al mare. Per esempio, molti migranti devono attraversare un tratto di rotta nel deserto chiamato “la strada verso l’inferno”, altri devono invece attraversare il deserto verso la Libia con i pick-up. Un primo pick-up lascia i migranti al confine con la Libia, per poi tornare indietro, vengono quindi fatti salire su un altro pick-up gestito dai trafficanti libici. Il costo del viaggio verso la Libia può variare da mille a 1.500 dollari e a seconda della rotta varia la durata. Per la cosiddetta rotta occidentale-est la durata media del viaggio dal paese di origine è di venti mesi, mentre il tempo medio di permanenza in Libia è di 14 mesi. Mentre per la cosiddetta rotta orientale-centro la durata media del viaggio dal paese di origine è di 15 mesi, mentre il tempo medio di permanenza in Libia per i migranti del Corno d’Africa è di tre mesi. Le tratte sono gestite da intermediari e trafficanti, questo aumenta ulteriormente i problemi e i rischi per i migranti. La durata del viaggio spesso è dovuta alla permanenza nei campi profughi trovati per strada, o per la persecuzione da parte dei governi o per lavorare per poter ripagare i trafficanti. Spesso i migranti si indebitano. In questo senso è allarmante l’aumento di vittime adolescenti che non hanno coscienza di essere vittime di tratta e delle violenze che sono destinate a subire. Molte vittime non sanno in cosa consista la “prostituzione” che dovranno svolgere per saldare il debito contratto con i trafficanti. Ulteriore problema consiste nel fatto che Il controllo delle vittime di tratta da parte dei trafficanti durante la loro permanenza nei paesi di transito è reso difficoltoso dalla situazione di instabilità in cui questi Stati versano. I traumi estremi come la tortura e le violenze sono un’esperienza comune durante il viaggio. La privazione di cibo e acqua, le pessime condizioni igieniche sanitarie, le frequenti percosse e altri tipi di traumi sono le forme più comuni e generalizzate di maltrattamenti. Ci sono altre forme di tortura più specifiche sia fisiche sia psicologiche a cui sono sottoposti i migranti. Nove migranti su dieci hanno dichiarato di aver visto qualcuno morire, essere ucciso, torturato o picchiato. Spesso vengono riscontrati in molti migranti disturbi da stress post traumatico (ptsd) e altri disturbi legati a eventi traumatici, ma anche disturbi depressivi, somatizzazioni legate al trauma, disturbi d’ansia e del sonno. 21.00 vittime sono quelle sulle rotte migratorie dal 2014 ad oggi per raggiungere la Grecia, l’Italia o la spagna. Questo numero è destinato ad aumentare poiché se ne stanno andando via le ONG, la cui vita è resa difficile dal governo libico. Basta pensare che quest’anno è aumentato il tasso dei morti rispetto ai migranti arrivati vivi. Prendendo i dati del solo 2018 Il mediterraneo centrale è la rotta migratoria più mortale e pericolosa del mondo. Questo rappresenta solo una breve sintesi dell’inizio dell’avventura dei migranti che riescono ad arrivare al nostro paese e possono finire in contesti come quelli della piana di Gioia Tauro. Un ulteriore elemento su cui riflettere è che spesso si parla di migrazioni solo durante le campagne elettorali e che ci sono politici che parlano di “invasione”. Di invasione non si tratta (anche perché tra i paesi che ospitano il maggior numero di immigrati abbiamo Turchia, Pakistan e Libano) e dobbiamo ricordarci che parliamo sempre di persone: dietro le statistiche ci sono persone, storie e bambini. Inoltre, spesso ci troviamo davanti a fenomeni che persistono nel tempo

Tra passato e presente

Otto anni fa, tra il 7 e il 9 gennaio 2010, vi furono violenti scontri a sfondo razziale iniziati dopo il ferimento di due immigrati da parte di sconosciuti con una carabina ad aria compressa. In seguito, vi fu una rivolta urbana (la cosiddetta “Rivolta di Rosarno”) che vide contrapporsi forze dell’ordine, cittadini e immigrati. Nel pomeriggio del 7 gennaio alcuni sconosciuti spararono diversi colpi con un’arma ad aria compressa su tre immigrati di ritorno dai campi. La sera stessa del ferimento, un primo consistente gruppo protestò violentemente per l’accaduto scontrandosi con le autorità dell’ordine. Il giorno seguente la reazione si fece più feroce e più di 2000 immigrati marciarono su Rosarno e ci furono diversi scontri con la polizia. Dopo che le tensioni salirono a causa di attacchi a negozi e automobili, la protesta degli immigrati scatenò una risposta altrettanto accesa da parte dei rosarnesi, i quali armati di mazze e bastoni formarono ronde autonome ferendo gravemente diversi africani. Due giorni dopo gli scontri, il numero dei feriti era di 53 persone, divisi tra: 18 poliziotti, 14 rosarnesi e 21 immigrati, otto dei quali ricoverati in ospedale. I giorni successivi videro diversi agguati tra i due schieramenti e il culmine si raggiunse con l’appiccamento di un fuoco in un capannone di ritrovo per i migranti. Alla fine, le forze dell’ordine riuscirono a riportare la calma tra ambedue le parti. Molti migranti furono trasferiti nei centri di accoglienza, mentre altri se ne andarono via. Sarebbe più preciso dire che sono fuggiti dato che hanno lasciato vestiti, scarpe e valigie nelle loro baracche. Il “New York Times” riportò che venne arrestato il figlio di un boss affiliato alla ‘ndrangheta accusato di aver ferito un poliziotto. Successivamente la magistratura aprì un’indagine sul ruolo della ‘‘ndrangheta e ci si chiese perché dopo anni di convivenza ci si volle liberare di questi migranti senza diritti. Sostanzialmente si iniziò a indagare circa la possibilità che alcune cosche mafiose calabresi potessero aver avuto interessi a far scoppiare gli scontri oppure che li avessero sostenuti per ottenere consenso popolare. Tra i fatti sospetti rientrava l’utilizzo del fucile ad aria compressa, segno che l’intenzione non era uccidere ma ferire, in un contesto dove le armi non mancavano. All’epoca si fece notare lo sfruttamento di questi lavoratori in una delle zone più povere d’Italia, dove gli abitanti guadagnavano poco di più ma non avrebbero mai raccolto la frutta. Si sottolineo il fatto dell’esistenza di una economia debole in cui la popolazione locale si faceva concorrenza con gli immigrati. Molte delle problematiche derivavano dal fatto che diminuirono le generose sovvenzioni dell’Unione Europea: nel 2007 vi fu un cambio di regole, le sovvenzioni furono legate agli ettari coltivati e non alle tonnellate prodotte (spesso venivano dichiarati grandi raccolti su pochi ettari). Per alcune autorità sarebbe stato più redditizio abbandonare i raccolti e incassare le sovvenzioni, invece di pagare i braccianti. Braccianti sfruttati che vivevano in edifici abbandonati o in tende senza acqua, luce e bagni.

Il giornale francese “Le Monde” commentò la situazione in vari modi. Il giornale notò come Berlusconi non ritenne necessario esprimere la propria opinione sugli scontri e sulle violenze subite dagli immigrati, come Maroni cercò di declassare il fatto come “solo una questione di ordine pubblico” (dichiarò anche che la rivolta fosse il risultato di una politica di forte tolleranza verso l’immigrazione clandestina) e come la Lega nord, moltiplicasse le provocazioni verso i nuovi arrivati in Italia senza che nessuno, o quasi, dicesse nulla. Le Monde mise in rilievo la “parte razzista” del nostro paese in cui la stampa di destra chiama i neri “negri” o “Bingo-Bongo”. Dava l’immagine di un razzismo tranquillo, accettato e privo di una condanna da parte del potere. Era l’immagine di un’Italia incapace di fare una riflessione su una società multietnica e multiculturale, incapace di riflettere sui problemi che l’Italia condivideva (e condivide ancora) con gli altri paesi europei. Inoltre, sottolineava il fatto che il nostro paese è passato dall’essere un paese di emigrazione a un paese di immigrazione il cui unico obiettivo era quello di scoraggiare il viaggio verso l’Italia. A questo proposito sottolineò la firma dell’accordo con la Libia nel 2008, un accordo volto a rimandare indietro i migranti prima che arrivassero alle coste italiane prima di far valere il diritto di asilo.

Esiste però anche la “parte non razzista” che subito dopo gli scontri si organizzò in un corteo e scrisse sullo striscione “Abbandonati dallo Stato, criminalizzati dai mass media, 20 anni di convivenza non sono razzismo”. Gli abitanti vollero respingere le accuse di razzismo rivolte da più parti agli abitanti del paese per la cacciata degli immigrati. I titolari dei negozi chiusero i propri esercizi per esprimere la propria solidarietà. Tra coloro che hanno partecipato al corteo ci sono stati anche numerosi immigrati e hanno sfilato insieme una donna di Rosarno ferita nel corso degli scontri e una donna immigrata. L’allora parroco di Rosarno, Don Carmelo Ascone, disse “la gente del paese non è razzista, è una guerra tra poveri, perché qui non c’è lo stato, qui comanda la ‘ndrangheta”.

Foto di Marco di Lauro

Sono passati Otto anni da quei fatti ma i grandi ghetti di lavoratori migranti rappresentano ancora uno scandalo italiano di fatto rimosso dal dibattito pubblico e dalle istituzioni politiche, che sembrano incapaci di qualsiasi iniziativa concreta e di largo respiro. È un problema che deve essere pensato prima di tutto come un problema nel mondo del lavoro e come spunto di riflessione per poter parlare di integrazione. Molti dei braccianti hanno una scarsa conoscenza della lingua italiana e questo testimonia la grave carenza del sistema di accoglienza di cui queste persone hanno usufruito. Il 90% dei lavoratori incontrati durante le interviste è regolarmente soggiornante, la maggior parte per motivi umanitari, per richiesta di asilo o per protezione internazionale. Meno di 3 persone su 10 lavorano con un contratto. Infine, la maggior parte lavorano con un mancato rispetto dei diritti e delle tutele fondamentali dei lavoratori agricoli. Il tema delle nuove schiavitù è un tema di attualità in tutto il mondo (qui l’articolo che parla del Rana Plaza), non coinvolge solo l’Italia o il mondo agricolo. È un fenomeno che merita attenzione, dibattito e politiche internazionali. Per quanto riguarda nel modo più specifico il nostro paese, occorre, poi, fare una riflessione sugli errori e sulle politiche inefficaci riproposte ciclicamente per poter lavorare su nuove proposte realmente efficaci e inclusive.

“OPS!”, NASCE L’OSSERVATORIO POLITICHE SOCIALI: intervista al Dottore Giuseppe Pierro

CRONACA di

La recente crisi economica ha riproposto e reso quanto mai attuale la rilevanza dei problemi sociali. Problemi che erano rimasti sotto le ceneri della crescita economica e che ora si ripresentano in nuove e inattese forme. In questi anni vi è stata la presa di coscienza per cui il “contratto sociale”, sul quale si è retta la nostra società, è venuto meno: al lavoro non corrisponde più la sicurezza e la protezione sociale e alla crescita economica non corrisponde più la crescita occupazionale. Il rischio è quello di dare avvio a una profonda crisi culturale in cui la nostra società deve decidere che percorso intraprendere. La crisi culturale potrebbe non essere un dato negativo se portatrice di una nuova cultura, improntata ai valori della crescita diffusa e inclusiva, della solidarietà e della cooperazione internazionale, dell’attenzione all’ambiente e alle future generazioni. Ma la realtà che spesso vediamo oggi è fatta da povertà, xenofobia, misoginia e violenza. Per fortuna c’è una reazione alla cultura della violenza e della disuguaglianza e nascono progetti che vogliono studiare e comprendere cosa sta accadendo per fare qualcosa di importante e costruttivo. È il caso dell’”Osservatorio Politiche Sociali”, o meglio noto come “Ops!”, che ci viene raccontato in un’intervista di Alessandro Conte al Dottor Giuseppe Pierro in veste di direttore dell’Osservatorio.

AC: In che cosa consiste questo osservatorio che avete fondato e che prende i primi passi proprio in questi giorni?

GP: Consiste nell’idea comune di amici alla fine, con i quali mi onoro da mezz’ora a questa parte di fare il presidente. Di amici che collaborano con me dal punto di vista editoriale. Diciamo, insomma, che ci siamo più volte incontrati in temi di carattere sociale. Quindi abbiamo fatto varie iniziative, già come casa editrice riguardanti il bullismo e il cyberbullismo. Ho fatto anche un’intervista con voi per la presentazione di un libro sul cyberbullismo, poi abbiamo anche trattato il mobbing. Insomma, fin quando queste idee non sono diventate sempre più grandi e abbiamo deciso di sederci intorno a un tavolo e iniziare a mettere giù qualcosa di importante. Abbiamo fatto l’incontro il mese scorso in puglia a Trani e proprio in questo momento in tempo reale abbiamo firmato lo statuto e abbiamo dato vita all’OPS! , Osservatorio Politiche Sociali.

AC: Quali saranno i prossimi passi dell’osservatorio?

GP: Li stiamo decidendo in questo momento. Ovviamente di carne al fuoco ce ne è tanta, stiamo cercando di focalizzare due o tre argomenti di maggiore interesse sociale per provare a fare qualcosa di importante per il paese. Quindi cercare di fare cose che gli altri non fanno o di dire cose che gli altri non dicono. Quindi avere il coraggio mettere la faccia anche per denunciare argomenti tanto attuali quanto sensibili.

La cosa che fa più piacere in un progetto del genere sono le persone che hanno accettato con questo impegno di unire le proprie competenze per il sociale e sposare un sogno. All’evento inaugurale (tenutosi il mese scorso a Trani) hanno preso parte nomi del mondo istituzionale, giornalisti e dello spettacolo. Soci fondatori dell’osservatorio sono l’avvocato e docente di diritto Luigi Viola, l’avvocato e docente di diritto Michele Filippelli, l’avvocato Maria Rosaria Della Corte, la psicoterapeuta Allegra Sangiovanni, l’avvocato Giovanni De Luca, il penalista Alfredo Foti, il segretario del sindacato COSP Domenico Mastrulli, Francesca Rodolfo, giornalista e conduttrice di Telenorba, Giuseppe Pierro (editore Admaiora e presidente Ops!) e Francesca Corraro (scrittrice e direttrice editoriale Admaiora). L’Italia, ma anche ogni paese, ha bisogno di persone che prendano a cuore le esigenze della comunità senza un doppio fine. Tra le finalità dell’Osservatorio vi sono la realizzazione di laboratori, workshop, meeting, briefing e tavole rotonde,  pubblicazione di libri, testi divulgativi, tesi di laurea e riviste informative dell’osservatorio;  donazione di borse di studio e collaborazioni con enti pubblici e privati;  la realizzazione di una raccolta di articoli, documenti e testimonianze riguardanti gli scopi dell’Osservatorio, al fine di creare una biblioteca e una banca dati che sarà messa a disposizione di chiunque per scopi culturali, di ricerca e di divulgazione. Chiunque potrà sostenere l’osservatorio, diventando socio a sua volta. Infine, il Dottor Pierro invita al prossimo evento e ci parla del futuro dell’osservatorio: “Noi siamo il 17 a Palmi con il primo convengo ufficiale dell’osservatorio e che si occuperà di femminicidio. Quale argomento più importante, più attuale e più, diciamo, difficile anche da affrontare. Tristemente attuale. Non so se avete visto anche ieri il servizio delle “Iene”. Quindi parleremo di questo proprio in Calabria a Palmi, proprio il 17. E poi vediamo, è tutto in divenire. Quindi di argomenti e di iniziative ce ne saranno tantissime ma soprattutto avrà ampio respiro nazionale e di richieste di adesione ne stiamo già avendo tantissime”.

RANA PLAZA, 5 ANNI DOPO: la catastrofe che ci invita a riflettere sul fatto che viviamo in una società globale

Asia di

Era la mattina del 24 aprile del 2013 quando a Dhaka, la capitale del Bangladesh, un edificio commerciale di 8 piani crollò alle 8:45 lasciando solo il piano terra intatto. Chi era presente lo descrisse come un terremoto ma la notizia più tragica fu la conferma che 3.650 operai erano presenti al momento del crollo. Il bilancio finale fu di 1.135 morti e 2.515 feriti. Il Rana Plaza, il nome dell’edificio commerciale, conteneva fabbriche di abbigliamento, una banca, appartamenti e numerosi altri negozi. Fu uno dei peggiori disastri industriali della storia moderna ed è diventato il simbolo dello sfruttamento della manodopera asiatica da parte degli appaltatori delle multinazionali dell’abbigliamento che fanno finta di non sapere cosa succede all’altra estremità della catena. Nel momento in cui sono state notate delle crepe sull’edificio, i negozi e la banca ai piani inferiori sono stati chiusi, mentre l’avviso di evitare di utilizzare l’edificio è stato ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili. I dipendenti delle fabbriche di abbigliamento lavoravano in condizioni indegne e senza misure di sicurezza, fu ordinato loro di tornare il giorno successivo, giorno in cui l’edificio ha ceduto, collassando durante le ore di punta della mattina. Tra i dipendenti più della metà erano donne accompagnate dai figli che erano stati lasciati negli asili nido aziendali all’interno dell’edificio. Le fabbriche realizzavano abbigliamento per marchi quali: Adler Modemärkte, Auchan, Ascena Retail, Benetton, Bonmarché, Camaïeu, C&A, Cato Fashions, Cropp (LPP), El Corte Inglés, Grabalok, Gueldenpfennig, Inditex, Joe Fresh, Kik, Loblaws, Mango, Manifattura Corona, Mascot, Matalan, NKD, Premier Clothing, Primark, Sons and Daughters (Kids for Fashion), Texman (PVT), The Children’s Place (TCP), Walmart e YesZee. Le scene seguenti vedono i parenti delle vittime in fila per il riconoscimento all’obitorio, li con una sensazione di malessere che aumentava e i passi che diventavano sempre più pesanti, li sospesi in un limbo ad aspettare di conoscere la sorte di familiari o amici. Si vedono, inoltre, anche operai sopravvissuti partecipare alle operazioni di soccorso e fotografi che fanno di tutto per documentare il disastro e diffondere in tutto il mondo la sofferenza di migliaia di lavoratori. È grazie a questi che possiamo vedere gli ultimi momenti strazianti di due persone che non si sono volute separare fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo abbraccio.

April 25, 2013 – “A Final embrace” di Taslima Akther

Questo è solo uno dei numerosi incidenti accaduti in Bangladesh negli ultimi 10 anni e la stessa Dhaka ha visto un terribile incendio nel 2012 che uccise almeno 112 lavoratori. I responsabili si sono rifiutati di lasciare che i lavoratori fuggissero anche dopo che gli allarmi antincendio si sono attivati e nessuna delle fabbriche coinvolte avevano un sindacato per rappresentare i lavoratori e per aiutarli a combattere contro le richieste mortali dei gestori. Ali Ahmed Khan, capo del servizio antincendio e della protezione civile, disse che i quattro piani superiori erano stati costruiti senza permesso e l’architetto dell’edificio, Massoud Reza, affermò che l’edificio era stato progettato per ospitare solo negozi e uffici, non fabbriche. L’edificio non era progettato con una struttura abbastanza forte da sopportare il peso e le vibrazioni dei macchinari pesanti. Le operazioni di salvataggio e recupero proseguirono nei 17 giorni successivi al crollo, il 10 maggio fu salvata, quasi illesa, dalle macerie una donna di nome Reshma.

Sohel Rana, proprietario del palazzo, venne arrestato qualche giorno dopo il crollo, mentre cercava di fuggire in India. È una delle 42 persone che le autorità del Bangladesh hanno incriminato per omicidio, con l’accusa di avere ignorato gli avvertimenti sulla fragilità e l’insicurezza dell’edificio e le raccomandazioni, ricevute il giorno prima del crollo, di non consentire l’ingresso ai lavoratori. Rana è accusato insieme ad altre diciassette persone anche di avere violato il regolamento edilizio, per avere trasformato illegalmente il palazzo in un complesso industriale di nove piani. Due giorni dopo il crollo dell’edificio, i lavoratori tessili delle zone industriali di Dhaka, Chittagong e Gazipur hanno dato luogo ad insurrezioni, prendendo di mira veicoli, edifici commerciali e fabbriche di abbigliamento. Successivamente i partiti politici di sinistra e il Partito Nazionalista del Bangladesh hanno chiesto l’arresto e il processo dei sospettati e l’istituzione di una commissione indipendente per identificare le fabbriche pericolose. Il 1º maggio i lavoratori protestarono e sfilarono a migliaia attraverso il centro di Dhaka per chiedere condizioni di lavoro più sicure e la pena di morte per il proprietario del Rana Plaza. I funzionari governativi locali riferirono di essere in trattative con l’Associazione dei produttori ed esportatori del Bangladesh per pagare gli stipendi in sospeso, più altri tre mesi. Dopo che i funzionari hanno promesso ai lavoratori sopravvissuti che sarebbero presto pagati, questi hanno concluso la loro protesta. L’associazione ha quindi compilato un elenco dei dipendenti sopravvissuti. Il giorno dopo, 18 industrie di abbigliamento, di cui 16 a Dacca e 2 a Chittagong, sono state chiuse. Il Ministro per l’industria tessile, Abdul Latif Siddique, ha detto ai giornalisti che sarebbero state chiuse ancora più fabbriche nell’ambito di rigorose nuove misure per garantire la sicurezza. A giugno dello stesso anno però la polizia ha aperto il fuoco su centinaia di ex lavoratori e di parenti delle vittime del crollo, che protestavano per chiedere gli arretrati e i risarcimenti promessi dal governo e dall’associazione dei produttori. La stessa scena si è avuta a settembre quanto almeno 50 persone sono rimaste ferite quando la polizia ha sparato proiettili di gomma e gas lacrimogeni contro una folla di manifestanti che bloccavano le strade di Dhaka.

Il caso Rana Plaza ha suscitato numerose proteste in giro per il mondo che hanno coinvolto anche le aziende non coinvolte direttamente nell’incidente ma che utilizzano fabbriche in Bangladesh. L’International Labour Organization (ILO) nei giorni successivi al disastrò avverti di non boicottare i prodotti Made in Bangladesh poiché avrebbe causato un numero elevato di disoccupati ma occorreva porsi l’obiettivo da porsi di migliorare e cambiare le condizioni di lavoro. Lo scopo, ancora oggi, è di cambiare il modo in cui i paesi cercano di attrarre investimenti stranieri. È il modello di business che deve essere cambiato poiché i costi bassi non devono essere perseguiti a scapito della vita delle persone e della loro sicurezza. Nel 2015 Human Rights Watch ha pubblicato il rapporto Whoever Raises their Head Suffers the Most” che si basa su interviste con più di 160 lavoratori di 44 fabbriche, la maggior parte delle quali sono imprese commerciali al dettaglio in Nord America, Europa e Australia. Nelle interviste sono state segnalate violazioni come aggressioni fisiche, abusi verbali (anche di natura sessuale), lavoro straordinario forzato, negazione del congedo di maternità retribuito e il vizio di non pagare gli stipendi e i bonus in tempo o in pieno. Nonostante le riforme del diritto del lavoro, i lavoratori che cercano di formare i sindacati devono affrontare minacce, intimidazioni, il licenziamento e aggressioni fisiche per mano dei datori di lavoro o per opera di picchiatori assunti. Ad esempio, in una fabbrica di Dhaka, alcune leader sindacali femminili hanno dovuto affrontare minacce, abusi, ed hanno dovuto subire un aumento drammatico dei carichi di lavoro, dopo aver presentato i moduli di registrazione del sindacato. Nelle interviste con Human Rights Watch, sei donne che hanno contribuito all’istituzione del sindacato hanno detto che sono state perseguitate per questa sola ragione, ricevendo persino minacce a casa di alcune di loro. Non appena sono stati presentati i moduli di registrazione, i gangster locali sono andati a casa delle donne e le hanno minacciate dicendo “Se ti avvicini alla fabbrica ti spezziamo le mani e le gambe”.

“Collapse of Rana Plaza” di Rahul Talukder

I “Rana Plaza” europei

Il fenomeno interessa strettamente anche l’Europa, un rapporto di Clean Clothes Campaign rivela condizioni di grave sfruttamento nella produzione di abbigliamento “Made in Europe”. Il rapporto documenta bassi salari endemici e le dure condizioni di lavoro nell’industria tessile e calzaturiera dell’Est e Sud-Est Europa. Ad esempio, molti lavoratori in Ucraina, nonostante gli straordinari, guadagnano appena 89 euro al mese in un Paese in cui il salario dignitoso dovrebbe essere almeno 5 volte tanto. Per molti marchi questi paesi rappresentano paradisi per i bassi salari e molti brand enfatizzano l’appartenenza al “Made in Europe”, suggerendo che questo concetto sia sinonimo di “condizioni di lavoro eque”. In realtà, molti dei 1,7 milioni di lavoratori e lavoratrici di queste regioni vivono in povertà, affrontano condizioni di lavoro pericolose e si trovano in una situazione di indebitamento significativo. Inoltre, i salari minimi legali in questi Paesi sono attualmente al di sotto delle loro rispettive soglie di povertà e dei livelli di sussistenza. Le conseguenze sono terribili e vedono soprattutto lavoratrici raccontare che a volte non hanno nulla da mangiare o che a mala pena riescono a pagare le bollette. Le interviste a lavoratrici e lavoratori di fabbriche di abbigliamento e calzature in Ungheria, Ucraina e Serbia hanno rivelato che molti di loro sono costretti ad effettuare straordinari per raggiungere i loro obiettivi di produzione. Ma nonostante questo, difficilmente riescono a guadagnare qualcosa in più del salario minimo. Tra le condizioni di lavoro pericolose vi è l’esposizione al calore o a sostanze chimiche tossiche, condizioni antigieniche, straordinari forzati illegali e non pagati e abusi da parte dei dirigenti. I lavoratori intervistati si sentono intimiditi e sotto costante minaccia di licenziamento o trasferimento. Quando i lavoratori serbi chiedono perché durante la calda estate non c’è aria condizionata, perché l’accesso all’acqua potabile è limitato o perché sono costretti a lavorare di nuovo il sabato, la risposta è: “Quella è la porta”. A essere coinvolte sono tre milioni di persone: in Turchia, Georgia, Bulgaria, Romania, Macedonia, Moldavia, Ucraina, Bosnia, Croazia, Slovacchia. Queste vengono sottopagate da marchi come Zara, H&M, Hugo Boss, Nike, Levi’s, Max Mara, Benetton, Versace, Dolce e Gabbana e Prada. Queste persone vengono pagate con salari che si aggirano intorno al 30% della media nazionale. Inoltre, vengono messe in atto strategie retributive per nascondere il non raggiungimento dei minimi salariali. Si va dalla “sottrazione di congedi retribuiti e dello straordinario” alle irregolarità dei congedi stessi. Poi in tutta l’aria geografica presa in considerazione dalla ricerca, sembra sia prassi non dare ai lavoratori stipendi arretrati e liquidazioni dopo la chiusura degli stabilimenti.

5 anni dopo il Rana Plaza

Il 17 aprile, a una settimana dal quinto anniversario del crollo, la “Campagna Abiti Puliti” (sezione italiana della Clean Clothes Campaign) e i suoi alleati hanno iniziano una sette giorni di pressione sui marchi internazionali affinché si assumano le loro responsabilità nel garantire fabbriche sicure in Bangladesh firmando l’Accordo di Transizione 2018. L’Accordo porta avanti il lavoro svolto con l’attuale Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh sottoscritto nel 2013, a partire dalla scadenza di maggio. L’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh ha contribuito in maniera significativa a migliorare la sicurezza delle fabbriche in quel Paese. Un’estensione dell’inziale programma quinquennale è stata già firmata da oltre 140 marchi, coprendo più di 1.300 fabbriche e circa due milioni di lavoratori. L’obiettivo è di aumentare il numero di operai salvaguardati rispetto al precedente accordo. Il nuovo accordo offre la possibilità di includere anche fabbriche che producono accessori tessili, a maglia e in tessuto non necessariamente di abbigliamento. È ad esempio il caso di marchi come IKEA, chiamati ad assumersi anche loro la responsabilità di garantire la sicurezza per i propri lavoratori. L’Accordo 2018 include disposizioni migliorate per il risarcimento per i lavoratori infortunati e riconosce l’importanza della libertà di associazione sindacale nell’assicurare che i lavoratori abbiano voce in capitolo nella protezione della propria sicurezza. I tecnici dell’Accordo hanno ispezionato più di 1.900 fabbriche di abbigliamento bengalesi fornitrici dei marchi che lo hanno sottoscritto. Grazie a questo accordo i tecnici sono stati in grado di correggere 97.000 rischi per incendi, problemi elettrici e strutturali; inoltre, l’accordo è stato in grado di risolvere 183 reclami formulati dai lavoratori. Nel gennaio 2018 IndustriALL e UNI hanno raggiunto un accordo, nell’ambito del meccanismo legalmente vincolante dell’Accordo, che prevede un impegno a pagare 2,3 milioni di dollari da parte dei marchi internazionali da destinare alla messa in sicurezza di più di 150 fabbriche sue fornitrici.  Questo, dopo un altro accordo di successo con un marchio globale inadempiente, presso il tribunale arbitrale dell’Aia nel dicembre 2017.

La catastrofe del Rana Plaza ha avuto degli effetti positivi come quello di risvegliare l’opinione pubblica dei paesi sviluppati e quello di stimolare le organizzazioni internazionali che proteggono i diritti degli operai tessili in Asia. Il Bangladesh, secondo esportatore di abiti al mondo (dopo la Cina), ha beneficiato di questa mobilitazione, culminata con la firma di un accordo sulla sicurezza patrocinato dall’Organizzazione internazionale del lavoro di cui abbiamo appena visto gli effetti. Rimane però ancora molto da fare. Migliaia di strutture in Bangladesh non hanno ancora sottoscritto l’accordo per cui varie associazioni stanno lottando per l’estensione fino al 2021. Il lavoro minorile resta un problema enorme, come le condizioni salariali dei lavoratori tessili, e gli scioperi proclamati in Bangladesh per sostenere rivendicazioni in questo senso sono stati duramente repressi. A questo punto abbiamo tutti il dovere di riflettere dato che il fenomeno investe anche l’Europa e le fabbriche in Europa. Le grandi aziende dovrebbero riflettere sul loro modello economico basato sull’abbassamento dei prezzi e i consumatori dovrebbero chiedersi qual è il costo umano dietro ai vestiti. Ed è quello che ci invita a fare il documentario “True Cost” del 2015. Siamo sempre più disconnessi dalle persone che confezionano i nostri vestiti e ci sono circa 40 milioni di lavoratori nel settore tessile, molti dei quali non condividono gli stessi diritti o protezioni di molte persone in Occidente. Costantemente abbiamo avuto modo di vedere lo sfruttamento del lavoro a basso costo e la violazione dei diritti dei lavoratori, delle donne e dei diritti umani in molti paesi in via di sviluppo in tutto il mondo. L’industria della moda rappresenta uno dei più grandi punti di connessione per milioni di persone. La moda è un mondo che parte dall’agricoltura, passa per la produzione e finisce nella vendita al dettaglio e, ad oggi, abbiamo alcuni dei più alti livelli di disuguaglianza e distruzione ambientale che il mondo abbia mai visto. Questi sono i risultati della cosiddetta “Moda veloce”, l’industria della moda oggi si può riassumere con il motto “vai veloce o vai a casa”. Un capo di abbigliamento dura in media cinque settimane e per produrlo ci vogliono tra le sei e le otto settimane. Al posto delle tradizionali collezioni “autunno-inverno” e “primavera-estate”, un marchio fast fashion può produrre due ministagioni a settimana con enormi costi umani e ambientali, dovuti alla produzione di cotone e alla tinteggiatura dei tessuti. Ovviamente con elevati guadagni da parte di queste multinazionali. Il problema è che un boicottaggio non avrebbe senso perché danneggia chi si vorrebbe aiutare, un punto di partenza è chiedersi “chi ha fatto i miei vestiti?” per riflettere sui meccanismi di produzione e fare pressione sui grandi marchi. Dobbiamo trovare un modo per continuare a operare in un mondo globalizzato che valuti le persone e il pianeta come essenziali. Come clienti in un mondo sempre più disconnesso, è importante sentirsi in contatto con i lavoratori che confezionano i nostri vestiti e informare i marchi che ci prendiamo cura di queste persone e della loro voce. Perché, come ci ricorda la rivista “Internazionale” con il suo mini-documentario in 6 parti, “ci sono vite dietro le etichette.

L’8 MAGGIO CROCE ROSSA FESTEGGIA LA GIORNATA MONDIALE: i motivi per cui festeggiamo

EUROPA/Senza categoria di

C’era una volta, molto tempo fa un giovane signore di nome Henry Dunant che viveva in Svizzera e lavorava in una banca a Ginevra. Una mattina di fine giugno Henry partì per un viaggio verso il nord Italia per incontrare il re Napoleone III. Nel corso del suo viaggio, si ritrovò su un campo di battaglia con tantissime persone ferite, sole, bisognose di aiuto e di cure mediche. Decise con l’aiuto di alcune signore e del parroco Don Barzizza di creare un gruppo di soccorritori per aiutare i feriti, curandoli e aiutandoli a tornare dalle loro famiglie. Tornato a casa, in Svizzera, si ricordò del suo viaggio in Italia e decise di creare un’associazione per sostenere tutte le persone bisognose di aiuto. Raccolse tutta la sua storia in un libro, “Un ricordo di Solferino”, che inviò a tutti i capi di stato del mondo”.

Così inizia il racconto della Croce Rossa in un libro illustrato dai bambini della Scuola materna equiparata La Clarina e dalla Scuola materna canossiane di Trento. È una storia che inizia il 24 giugno 1859, durante la 2° guerra di indipendenza italiana, una delle battaglie più sanguinose del 1800 che si consumò sulle colline a sud del Lago di Garda, sulle colline di San Martino e Solferino. Fu una battaglia che lasciò circa centomila fra morti, feriti e dispersi. A questo orribile scenario, aggravato dall’inefficienza della sanità militare, assistette il protagonista della storia, il Signor Dunant, che descrisse il tutto in un libro tradotto in più di 20 lingue. Dall’orribile spettacolo nacque l’idea di creare una squadra di infermieri volontari preparati, la cui opera potesse dare un apporto fondamentale alla sanità militare: la Croce Rossa. Dal Convegno di Ginevra del 1863 (26-29 ottobre) nacquero le società nazionali di Croce Rossa, la quinta a formarsi fu quella italiana. Nella 1° Conferenza diplomatica di Ginevra, che terminò con la firma della Prima Convenzione di Ginevra (8-22 agosto 1864), fu sancita la neutralità delle strutture e del personale sanitario. Dal 1965 la conferenza internazionale della Croce Rossa ha adottato i sette principi fondamentali del Movimento Internazionale di Croce Rossa che ne costituiscono lo spirito e l’etica e che sono garanzia e guida delle azioni del movimento. Il movimento si impegna nel portare soccorso senza discriminazioni ai feriti sui campi di battaglia e si adopera per prevenire e lenire in ogni circostanza le sofferenze degli uomini, per far rispettare la persona umana e proteggerne la vita e la salute in modo da favorire la comprensione reciproca, l’amicizia, la cooperazione e la pace duratura fra tutti i popoli (Principio di Umanità). Il movimento non fa distinzione di nazionalità, razza, religione, classe o opinioni politiche e si impegna ad aiutare in base ai bisogni e all’urgenza (Principio di Imparzialità). Il movimento si astiene dal partecipare a qualsiasi ostilità o alle controversie politiche, razziali e religiose (Principio di Neutralità). Il movimento si impegna ad essere indipendente e a mantenere la propria autonomia per poter agire in conformità con i propri principi (Principio di Indipendenza). È un’istituzione di soccorso volontario non guidato dal desiderio di guadagno (Principio di Volontarietà). Nel territorio nazionale ci può essere una sola associazione di Croce Rossa, aperta a tutti e con estensione della sua azione umanitaria all’intero territorio nazionale (Principio di Unità). Inoltre, tutte le società nazionali hanno uguali diritti in seno al Movimento internazionale della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa e hanno il dovere di aiutarsi reciprocamente (Principio di Universalità). Per operare in maniera più efficiente, la Croce Rossa Italiana ha basato gli obiettivi strategici 2020 sull’analisi delle necessità e delle vulnerabilità delle comunità aiutate quotidianamente. Questi obiettivi identificano le priorità umanitarie dell’Associazione, a tutti i livelli, e riflettono l’impegno di soci, volontari ed operatori Croce Rossa Italiana a prevenire e alleviare la sofferenza umana, contribuire al mantenimento e alla promozione della dignità umana e di una cultura della non violenza e della pace. Gli obiettivi, formulati in linea con la Strategia 2020 della Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, forniscono il quadro strategico di riferimento che guiderà l’azione della Croce Rossa Italiana verso il 2020. L’adozione dei sei Obiettivi Strategici 2020 s’inserisce nell’ambito del processo di costruzione di una Società Nazionale più forte. L’organizzazione intende tutelare e proteggere la salute e la vita; favorire il supporto e l’inclusione sociale; preparare le comunità e dare risposta alle emergenze; disseminare il diritto internazionale umanitario; promuovere attivamente lo sviluppo dei giovani e una cultura della cittadinanza attiva; agire con una struttura capillare, efficace e trasparente, facendo tesoro dell’opera del volontariato.

Da oltre 150 anni il motto è “Ovunque e per chiunque” si trovi in una condizione di vulnerabilità: questo è lo spirito che anima milioni di volontari che contribuiscono quotidianamente alla crescita della più grande organizzazione umanitaria del mondo. Questo impegno si festeggia ogni anno grazie alla Giornata Mondiale della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, istituita l’8 maggio, in occasione dell’anniversario della nascita del fondatore.

Il lavoro sul territorio

Tutti conoscono la Croce Rossa Italiana (CRI) per l’impegno nei servizi di ambulanza e nell’operazione di soccorso durante calamità ed emergenze (tutti ricordiamo i difficili giorni successivi al terremoto in centro Italia), però l’attività per lo sviluppo e l’aiuto dell’individuo si estende in altri servizi. Le azioni vanno dai corsi di primo soccorso alle attività rivolte ai giovani, come le campagne contro il bullismo e le malattie sessualmente trasmissibili, dall’invecchiamento attivo alla prevenzione delle dipendenze, dai clown di corsia negli ospedali all’empowerment delle persone diversamente abili, fino all’inclusione sociale dei migranti, e molto altro ancora. Le attività della Croce Rossa si intrecciano con le storie dei vari volontari che vi lavorano. Emblematica è la storia di Giuseppe Schifone, originario della provincia di Taranto, che ora vive a Perugia e che dal 2013 e volontario della Croce Rossa Italiana. Giuseppe aveva diciassette anni quando gli hanno detto che avrebbe perso la vista ma non per questo si è tirato indietro. “Sono felice di fare parte di questa famiglia. Erano i miei primi periodi in Umbria e desideravo essere utile al prossimo. Volevo dare una mano e il Comitato territoriale di Perugia era proprio quello che cercavo. Mi trovo benissimo con tutti. Poco alla volta sono riuscito a trasformare il mio limite in una forza e mi sono messo a disposizione degli altri”. Giuseppe lavora come centralinista ed è parte attiva di numerose iniziative promosse dal Comitato del capoluogo umbro, tra cui la raccolta alimentare e la distribuzione di viveri ai bisognosi. È soprattutto nell’ambito del rapporto con le disabilità che Giuseppe offre il suo prezioso contributo come l’iniziativa dell’aperitivo al buio, l’iniziativa che a più riprese il Comitato CRI organizza nel corso di eventi pubblici: “In questa occasione sono io a guidare gli altri. La persona che accetta di mettersi in gioco viene bendata e portata in un bar per ordinare qualcosa da bere. L’orientamento, il riconoscimento dei suoni, le relazioni con il prossimo: sono tanti gli aspetti da valutare quando non si può fare affidamento sulla vista. Tuttavia, la cosa più importante e difficile in queste esperienze, che consentono di poter toccare con mano ciò che io e le persone come me affrontiamo ogni giorno, è imparare a fidarsi dell’altro soltanto attraverso la voce. La fiducia: ecco il traguardo più grande da raggiungere quando non si è in grado di vedere”. Per Giuseppe essere volontario CRI significafare del bene e sentirsi bene”. È così, da esempio vivente per gli altri, che Giuseppe vive al massimo la sua vita e porta avanti il suo messaggio più profondo: Cadere è facile ma, per quanto difficoltoso, bisogna sapersi rialzare.

 

Il 2017 ha visto la croce rossa italiana impegnata su vari fronti come la partenza del progetto ad Amatrice di un nuovo centro Polifunzionale, un luogo di cultura e aggregazione da dove ripartire per ritrovarsi e ricostruire il tessuto sociale in un territorio così duramente colpito dal sisma, o le chiamate andate a buon fine effettuate dal Tracing Bus, la cabina telefonica mobile della Croce Rossa Italiana, che ha percorso tutta Italia dando la possibilità a tantissime persone di parlare con la propria famiglia e i propri cari dopo aver perso i contatti con loro. Inoltre, a luglio, Come ogni anno nei mesi estivi, vi è stato un considerevole arrivo di persone migranti nel nostro Paese e la Croce Rossa è sempre stati lì, a ogni sbarco, accogliendoli, e prestando la prima assistenza.

A questo punto non possiamo dimenticare l’emergenza neve e il terremoto nel Centro Italia. Sono stati giorni difficili e intensi per gli operatori coinvolti nelle operazioni di ricerca dei dispersi e delle persone isolate, con la consegna dei pacchi viveri, l’assistenza sanitaria e psicologica. La tragedia dell’hotel Rigopiano, poi, ha spezzato le vite di 29 persone e tra loro anche Gabriele D’Angelo, che lavorava in quell’hotel ed era volontario della Croce Rossa Italiana. La tragedia di Rigopiano ha visto bambini che hanno perso entrambi i genitori e comunità che hanno perso familiari e amici. Un anno dopo i fatti sembra tutto fermo in un silenzio intriso di ricordi, vi è una stasi surreale li nel resort nel cuore del parco nazionale del Gran Sasso. La tragedia di Rigopiano rimane nel cuore degli abitanti dei paesi limitrofi (Farindola e Penne) che in occasione delle proprie feste portano la maglietta con sopra un cuore che ricorda le vittime. Ad oggi c’è chi va a pregare in ginocchio davanti alla statua in legno di San Gabriele dell’addolorata, il santo che dà il nome al santuario ai piedi del Gran Sasso. La statua è vicino al resort ma non è stata sfiorata dalla furia della valanga. La Croce Rossa, fino ad oggi, ha continuato a non lasciare nessuno solo. Hanno continuato a rafforzare i servizi sanitari nelle località gravemente colpite dal terremoto, continuando le attività volte alla costruzione di punti di aggregazione, strutture sanitarie, centri polivalenti. Prevenzione e ricostruzione del tessuto sociale sono dunque i cardini attorno a cui si sta sviluppando l’intervento della Croce Rossa in Centro Italia. In quest’ottica sono stati attivati percorsi specifici per fornire alla popolazione gli strumenti per rispondere con efficacia a un eventuale futura emergenza. CRI parte dai giovani, protagonisti del progetto CRI SUMMER CAMP che ha dato la possibilità a tanti ragazzi e bambini tra gli 8 e i 20 anni, provenienti dai Comuni del cratere sismico, di passare gratuitamente una settimana in uno dei campi estivi attivati dai Comitati CRI, vivendo momenti di svago e relax, alternati a formazione specifica sulle emergenze e a percorsi di superamento dello shock vissuto.

Scenari interconnessi

Il lavoro della Croce Rossa italiana interessa sia l’Italia che il bacino del mediterraneo se pensiamo al fenomeno della migrazione. Nei primi sei mesi del 2017 la Croce Rossa ha accolto 83.360 persone migranti nei porti di Sicilia, Calabria, Puglia, Sardegna e Campania, garantendo la presenza di oltre 500 operatori e volontari in 191 sbarchi. Da giugno a dicembre 2016 la CRI è stata impegnata anche in una missione umanitaria congiunta con MOAS (Migrant Offshore Aid Station) per la ricerca, il salvataggio e l’assistenza sanitaria in favore delle persone migranti nel Mar Mediterraneo. La maggior parte dei morti in mare si sono verificate sulla rotta del mediterraneo centrale che va dalla Libia verso l’Italia. I volontari sono saliti a bordo della Phoenix e della Responder per poter dare il primo soccorso e l’assistenza medica. Non dobbiamo dimenticare che questo è il tentativo di persone di raggiungere l’Europa nella speranza di un futuro più sicuro, in un altro paese con lingua e cultura differenti. È un salto nel buio per poter sperare in un futuro migliore. I volontari lavorano per salvare tante vite ma hanno la consapevolezza che non è una soluzione per la crisi in atto, è dovere dei governi affrontare le cause profonde di questa crisi. Attualmente, sul territorio italiano la Croce Rossa accoglie migranti in 94 strutture per una capienza totale di circa 9500 posti letto. In ogni struttura vengono garantiti vitto, alloggio, assistenza sanitaria e psicologica, supporto legale e corsi di italiano. Inoltre, per favorire una migliore inclusione sociale degli ospiti, i Comitati organizzano attività sportive, ludico-ricreative e provvedono, sempre in maggior numero, a formare le persone accolte con lezioni di primo soccorso.

Rimane attivo in 190 Paesi nel mondo il servizio RFL (Restoring Family Links). Si tratta di un’attività nata in tempo di guerra per cercare di ristabilire i legami familiari interrotti da un conflitto, ma che negli anni si è evoluta trovando applicazione anche in situazioni come quelle emerse con il fenomeno migratorio. La CRI ha portato il servizio direttamente sul molo, nei presidi umanitari e nei luoghi di transito (come Ventimiglia), grazie anche al Tracing Bus: una cabina telefonica a quattro ruote che ha viaggiato lungo tutto lo Stivale, permettendo a rifugiati, richiedenti asilo e persone migranti di ristabilire un collegamento con i propri familiari, usufruendo di una telefonata di tre minuti e del supporto di operatori e volontari della CRI. Il tentativo è quello di ristabilire i contatti, dare vita ai ricongiungimenti familiari o almeno chiarire le sorti dei dispersi. La Croce Rossa vuole quantomeno difendere la sofferenza di persone che non hanno notizie. Di persone che si chiedono dove sono e se sono al sicuro i propri cari.

Nell’agosto 2017, il Presidente Nazionale Francesco Rocca ha incontrato il Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres, ed è stato accolto nel Palazzo di vetro a New York. L’incontro è stata l’occasione per discutere delle priorità umanitarie sulle due sponde del Mediterraneo. L’incontro è stato voluto in estate proprio per il momento delicato, questo perché aumentano i flussi migratori e le polemiche politiche. In questa occasione è stato possibile fare un punto della situazione e riflettere su come intervenire al meglio. Si è parlato della questione Libica e, in particolare, sull’appropriazione da parte della guardia costiera libica di 70 miglia marittime, dove sono comprese anche le acque internazionali. In pratica, le navi delle Ong e la guardia costiera italiana non possono più intervenire in uno dei luoghi dove si verificano il più grande numero di tragedie: l’unico risultato saranno più morti e un aumento del costo dei viaggi. Inoltre, migliaia di persone vengono riportare in una zona di guerra, contro ogni regola del diritto internazionale. Altro tema sensibile affrontato è stato quello del processo di criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie che, in realtà, si occupano soltanto di salvare vite umane. L’incontro è stato importante per stabile un punto di partenza per mobilitare le nazioni unite e la comunità internazionale.


Tra le storie delle persone migranti ricordiamo l’esperienza di John Ogah, che sembra una favola e che, come per ogni racconto che si rispetti, da iniziali peripezie giunge al riscatto e al tanto agognato “lieto fine”. Lo scorso 26 settembre l’uomo, che per vivere chiedeva l’elemosina davanti a un supermercato di Centocelle, nella periferia di Roma, ha affrontato un uomo armato di mannaia che aveva appena rapinato il negozio. Ogah lo ha disarmato e poi seguito fino allo scooter con cui stava per darsi alla fuga, bloccandolo e permettendo alle Forze dell’Ordine di arrestarlo. Dopo avere affrontato il rapinatore però si era dileguato, perché non perfettamente in regola con i documenti, ma i Carabinieri del Comando Provinciale di Roma lo hanno rintracciato e il suo gesto eroico è stato premiato con l’ottenimento del permesso di soggiorno per un anno. Da lì la sua vita è cambiata. Da qualche mese ha un lavoro stabile presso la Croce Rossa Italiana. Inoltre, ha una casa e, sempre grazie all’Associazione, sta perfezionando lo studio dell’italiano. La sera di Pasqua, il trentunenne nigeriano migrante è stato battezzato nella Basilica di San Pietro da Papa Francesco, il quale ha voluto accogliere il suo desiderio: il sogno di un ragazzo credente che ha vissuto le difficoltà della fuga dal suo paese dove era perseguitato nel 2014 e il dramma di un viaggio che molti non riescono a portare a compimento. Francesco Rocca ha commentato dicendo: “Sono orgoglioso di John e felice che lavori per la nostra Associazione. E sono lieto che, ogni tanto, le difficili storie delle persone migranti siano narrate senza strumentalizzazioni e nella modalità giusta: quella di percorsi umani fatti di difficoltà, ma anche di riscatto e speranza. Perché dietro a coloro i quali si vogliono far passare soltanto come scomodi “numeri” ci sono persone e, talvolta, anche eroi!”.

 

Il lavoro senza limiti della Croce Rossa Italiana

Il lavoro della Croce Rossa Italiana sembra non avere limiti e si estende ancora più in la dell’Italia e del Mediterraneo. La Croce Rossa ha portato il proprio impegno con due missioni a Cox’s Bazar, in Bangladesh, per dare supporto alle altre organizzazioni impegnate in una delle più grandi crisi umanitarie in corso. L’organizzazione si sta impegnando a ridare speranza e alleviare la sofferenza di più di 700.000 persone fuggite dal Myanmar nel corso dell’estate.

L’esperienza della prima missione iniziata ad ottobre viene raccontata da Erika Della valle, medico specializzato in psicoterapia e medicina interna. La missione si è svolta in tre settimane di lavoro nella clinica mobile in compagnia dell’infermiere Fabio Antonucci e con la collaborazione del team della Mezzaluna Rossa Bengalese. Erika racconta: “Abbiamo visitato ogni giorno tra i 110 e i 170 pazienti. Numeri molto alti che rendono l’idea di quanto sia stata intensa la nostra attività di equipe. Molto spesso ci siamo anche recati direttamente nelle tende per effettuare diagnosi o cure particolari”. Tra le difficoltà maggiori ci sono quelle incontrate in occasione dei trasferimenti in ospedale. I trasferimenti non potevano avvenire se non tramite lunghi percorsi a piedi in cui, per esempio, gli operatori si sono trovati a trasportare un bambino di pochi mesi in crisi respiratoria per 40 minuti. Erika parla delle persone che ha incontrato nel corso della missione: “Il contatto umano con questa gente ci ha arricchito tantissimo non solo come professionisti, ma soprattutto come individui. A Cox’s Bazar ci sono persone che, nonostante la grande sofferenza e le incredibili difficoltà incontrate, mantengono la loro dignità e continuano a guardare speranzosi al futuro. La loro forza d’animo è stata un esempio per tutti noi. Esiste tra di noi la barriera linguistica, questo è vero, ma è stata superata dal linguaggio non verbale. Ci siamo sentiti accolti e la loro riconoscenza nei nostri confronti è stata una costante”.

Altra testimone e operatrice della prima missione è Rosaria Domenella, psicologa e psicoterapeuta della Croce Rossa Italiana, volontaria dal 2008 che ha l’obiettivo di rafforzare la resilienza delle persone e aiutarle a ritrovare una strada per il futuro. Rosaria lavora in stretto contatto con il team giapponese e con i volontari del Bangladesh, coordinando le attività del servizio di supporto psicosociale. Rosaria dice che “è importante concentrarsi non solo sulle sofferenze fisiche delle persone, ma anche sui dolori dell’animo. Sono in molti ad andare dal dottore e a lamentare sintomi o malanni, ma alla fine si scopre che c’è solo il bisogno di parlare, di raccontare e condividere la propria storia”. Nella missione in Bangladesh sono stati organizzati spazi protetti, momenti ricreativi, focus group e peer session. Vengono fatte anche attività di “outreach”, ovvero uno sforzo per portare servizi alle persone dove vivono o trascorrono del tempo, in questo modo gli operatori si sono recati di persona nelle tende. Ogni nucleo familiare ha una storia di lutti e sofferenze e, dopo i primi giorni di ambientamento, ora sono le stesse persone ad andare incontro al personale con la voglia di parlare. Contrariamente a quanto si potrebbe credere, sono soprattutto gli uomini ad avere bisogno di particolare assistenza e supporto. A proposito Rosaria dice: “È forse la categoria che necessita di maggiore aiuto. Nella loro cultura, l’uomo è abituato a farsi carico totalmente dei bisogni e delle necessità della famiglia di cui è responsabile. Ora, queste persone si ritrovano del tutto private della loro prerogativa. Un ruolo, quello di ‘sostenitore economico’ che è stato annientato dagli eventi e che bisogna in qualche modo ricostruire. Attraverso degli incontri appositamente dedicati, cerchiamo di riorientarli al presente e di aiutarli a capire le necessità del momento, come la tutela dei più deboli, dei bambini e dei disabili. Da parte loro, noto un interesse sempre maggiore. Comunico con il prezioso aiuto di un interprete e non sono per nulla intimiditi dal fatto che io sia una donna. Parliamo dei loro incubi, delle paure e di tutte le difficoltà che incontrano ogni giorno”. In oltre tre settimane, Rosaria ha incontrato migliaia di persone: “Fra le tante esperienze vissute, penso ai due fratelli orfani di 16 e 10 anni. Durante il nostro primo incontro sono rimasta in silenzio per diversi minuti, cercando di capire in che modo aprire un canale di confronto. La seconda volta ho portato un fischietto al bambino e li ho invitati a venire nei nostri spazi ricreativi. È stato bellissimo, qualche giorno dopo, vederli arrivare da soli nel ‘child friendly space’. Eravamo riusciti a stabilire un contatto”.
Negli ultimi mesi vi è stata la seconda missione, visto dall’alto il mega campo, a un’ora dai resort di Cox’s Bazar, assomiglia a un grande formicaio dove migliaia di persone, ormai vicine a toccare quota 1 milione, si adoperano tra le capanne di plastica e bambù, in un intreccio informe di stradine che salgono e che scendono. Sono state settimane di grande lavoro per prepararsi ad affrontare, in una già precaria situazione, il grande incubo della stagione delle piogge. La preoccupazione, infatti, era che smottamenti e frane potessero investire il campo creando danni alle infrastrutture idriche, igieniche e sanitarie e provocando epidemie, e ciò ha mobilitato tutta la comunità residente che ha collaborato alla messa in sicurezza del territorio e all’attuazione del piano di contingenza preparato dalle agenzie internazionali e dalle organizzazioni umanitarie. Le persone sono preoccupate, ma molto consapevoli e questo le rende più resilienti e pronte a reagire. Spesso, nelle ultime settimane, molte tende sono state abbattute per far spazio a una strada più robusta o anche per trasferire le abitazioni in zone più alte, al riparo da eventuali inondazioni. Nelle ultime settimane purtroppo la situazione è peggiorata con l’arrivo delle violente piogge che precedono la stagione dei monsoni. L’allerta è arrivata da Save the Children che ha dichiarato: “I bambini sono i soggetti più vulnerabili e rischiano di separarsi dalle proprie famiglie e di ammalarsi gravemente”. Le zone più basse dei campi rifugiati si sono immediatamente allagate rendendo difficoltoso l’accesso, dove il fango ha invaso molti spazi e dove si sono formate enormi pozze d’acqua. La situazione vede enormi difficoltà per le famiglie Rohingya rifugiatesi nei campi per fuggire dalle brutali violenze in Myanmar. Le famiglie devono vivere in campi sovraffollati dove dipendono unicamente dalle razioni di cibo per la sopravvivenza ma dove si trovano, ora, anche esposti alle tempeste, che provocano allagamenti e smottamenti. C’è anche il rischio che diventi più difficile l’accesso a servizi vitali come le cliniche mediche, i centri per la nutrizione e gli spazi protetti per i bambini, che sono l’unico luogo tranquillo e felice per loro.

Cosa celebriamo l’8 maggio

In onore di queste storie di lotta e speranza, l’8 maggio è un’occasione di festa per celebrare l’idea di Dunant e lo spirito di sacrifico e abnegazione dei 17 milioni di volontari, di cui oltre 160 mila in Italia, delle Società nazionali di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa. Senza il volontariato, nulla sarebbe possibile: dall’intervento a sostegno delle popolazioni nelle zone di guerra, durante le emergenze dovute ai disastri naturali, fino all’aiuto nelle tante vulnerabilità quotidiane che non fanno notizia. L’8 maggio è anche il giorno in cui Croce Rossa vuole ricordare l’importanza e l’attualità dei propri Principi Fondamentali. E ancora, è il giorno in cui vuole rilanciare il proprio appello per la protezione e il rispetto di tutti i soccorritori e delle strutture sanitarie. La Croce Rossa è il simbolo di un’Italia che aiuta, che ascolta le richieste di aiuto, piccole o grandi, che sono ovunque. Possiamo ricordare la recente celebrazione della “Giornata mondiale della libertà di stampa” per comprendere tra quali rischi si muove il movimento per ascoltare le richieste di aiuto. Negli ultimi 15 anni i giornalisti uccisi nell’esercizio del loro mestiere sono stati 1035, specialmente nei teatri di guerra. “Esattamente come i tanti operatori umanitari del Movimento Internazionale della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa – spiega Francesco Rocca sul Sito Ufficiale – che diventano un “target” delle parti in conflitto, ormai troppo spesso. Martiri moderni della Verità e dell’Umanità”.

Croce Rossa Italiana, quest’anno, ha deciso di celebrare l’8 maggio attraverso un “doppio binario”, da un lato portando il bagaglio umano dell’Associazione al Quirinale, dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e, parallelamente, nelle scuole di tutto il Paese, con iniziative di sensibilizzazione ed educazione, seguendo l’invito della Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa (IFRC), che ha lanciato una campagna di comunicazione incentrata sul sorriso e sulla diffusione di storie positive di cambiamento e di speranza: “condividi cosa ti fa sorridere”. Oggi la Croce Rossa la vediamo sulle ambulanze, per aiutare le persone che hanno avuto un grave problema di salute. Ma la troviamo anche nell’aiutare i più poveri e bisognosi, al fianco delle persone colpite da alluvioni, terremoti, nell’insegnare la storia del diritto umanitario a grandi e piccini, nell’aiutare i giovani nella loro crescita e nel comunicare al mondo che se facciamo del bene ci sentiamo meglio e diventiamo tutti amici e felici. Perché la missione dei volontari di Croce Rossa Italiana è essere presenti, appunto, “ovunque, per chiunque”.

“da 157 anni al servizio degli Italiani – di piu’ insieme” 

SICUREZZA di

Si svolte come di consueto il 4 maggio le commemorazioni per l’anniversario della fondazione dell’esercito Italiano . La cerimonia è iniziata con la deposizione di una corona d’alloro al Sacrario dei Caduti nel cortile d’onore di Palazzo Esercito, le celebrazioni per il 157° anniversario della

Costituzione dell’Esercito Italiano. Successivamente, presso l’Ippodromo militare Generale “Pietro Giannattasio” di Tor di Quinto, si è svolta la cerimonia militare alla presenza del Ministro della Difesa, Roberta Pinotti, del Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Claudio Graziano, del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Generale di Corpo d’Armata Salvatore Farina e di numerose autorità civili, religiose e militari oltre che numerose scolaresche.

Durante il suo intervento il Generale Farina ha affermato “celebriamo oggi 157 anni dell’Esercito che si intrecciano profondamente con gli avvenimenti che hanno contraddistinto le più importanti pagine della storia patria. Quest’anno, tra l’altro, ricorre il centenario del vittorioso epilogo del primo conflitto mondiale che portò al coronamento del sogno risorgimentale dell’integrità territoriale e contribuì a edificare l’identità dei cittadini dell’allora ancor giovane regno d’Italia.”

Inoltre il Capo di Stato Maggiore ha successivamente aggiunto: “voglio rendere merito a tutti gli Ufficiali, i Sottufficiali, i Graduati, i Militari di truppa e al personale civile, esprimendo il mio orgoglio di Comandante, con la consapevolezza che tutti voi, che ogni giorno rinnovate sul campo il significato del giuramento prestato, affrontando la fatica, i pericoli e ingenti sacrifici personali, costituite il viatico migliore per superare con successo ogni crisi, minaccia e sfida che il nostro paese sia chiamato a fronteggiare nel presente e nel futuro. Grazie a tutti voi e alle vostre splendide famiglie che condividono con voi il peso del vostro orgoglioso e fiero dovere.”

Celebriamo oggi l’Esercito degli Italiani, che non è una mera Istituzione militare, ma è stato il vero protagonista, sin dalla sua istituzione nel 4 maggio 1861, di gloriose pagine di storia nella vita della Nazione, fornendo, in ogni momento decisivo, un contributo essenziale al processo di unificazione nazionale. Oggi, a distanza di un secolo dalla decisiva battaglia di Vittorio Veneto, possiamo dire che l’Esercito rappresenta non solo una Forza Armata, bensì un patrimonio insostituibile dell’Italia, una risorsa sempre pronta e irrinunciabile. Di fronte alle nuove e sempre più complesse sfide nell’attuale scenario internazionale, le donne e gli uomini dell’Esercito, con la loro capacità di proiettarsi oltre i confini nazionali e con il loro contributo prezioso prestato anche sul territorio nazionale, sono un elemento essenziale del nostro Sistema Paese.“, ha successivamente evidenziato il Generale Graziano nel corso del suo intervento.

Il Ministro della Difesa, Senatrice Roberta Pinotti nel suo discorso ha sottolineato “L’Esercito Italiano è stato, in ogni epoca, un esercito di cittadini in uniforme. Ha incarnato i valori che hanno animato gli italiani, in ciascun momento della nostra storia unitaria. Oggi c’è la consapevolezza diffusa di quanto l’Esercito sia necessario insieme alle altre Forze Armate, per garantire la nostra difesa e con essa la sicurezza internazionale.

Successivamente il Ministro della Difesa ha poi conferito alcune onorificenze al personale dell’Esercito distintosi per particolari atti di valore nel corso di operazioni in Italia e all’estero. Inoltre sono state decorate anche le bandiere del 3° reggimento trasmissioni e del 6° reggimento genio pionieri reparti che, con il proprio contributo, sono risultati determinanti in particolari situazioni nei contesti nazionali ed internazionali.

La tradizionale carica a cavallo dei “Lancieri di Montebello” (8°), nel carosello storico rievocativo delle battaglie del primo conflitto mondiale, ha concluso la manifestazione prima degli onori finali al Ministro Pinotti.

L’Esercito conta oggi più di 4.000 militari schierati in 14 diversi paesi come, Iraq, Libano, Afghanistan, Kosovo, Libia, Somalia e Mali, con compiti che vanno dalla cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di stabilizzazione e ricostruzione, sino all’addestramento delle forze di sicurezza locali, vale a dire quella gamma di attività nota come Security Force Assistance (SFA).

Circa 7.000 sono invece i soldati impegnati in Italia nell’ambito dell’Operazione “Strade Sicure”, in concorso alle Forze dell’Ordine per il presidio del territorio e la vigilanza. Dal 1° gennaio 2018 a oggi, l’Esercito ha consentito l’identificazione di oltre 76.000 persone, 213 delle quali poste in stato di fermo, oltre 300 denunciate, 17.987 veicoli controllati, con 24 sequestri di armi e 232 di veicoli. Cospicuo il sequestro di sostanze stupefacenti e oggetti contraffatti.

Un impegno dinamico e a 360 gradi quello dell’Esercito, che evidenzia una spiccata valenza duale, nell’ottica di dotare lo Strumento Militare Terrestre sia di avanzate capacità di combattimento delle unità sul terreno, sia di poter intervenire tempestivamente, in Patria o all’estero, in situazioni di emergenza o di pubblica utilità: tra queste, solo nell’ultimo anno, circa 3000 bonifiche di ordigni esplosivi e residuati bellici e 153 sortite antincendio, per un totale di 356 ore di volo effettuate con velivoli dell’Aviazione dell’Esercito.

#noicisiamosempre

#dipiùinsieme

Lady Europa e il governo che non c è!

EUROPA/POLITICA di

“Senza governo il lavoro torna a crescere”; “La Borsa snobba lo stallo politico Italiano”.

Questi alcuni dei titoli dei giornali delle ultime ore. Dunque l’assenza del governo pare porti bene a Piazza Affari.

In attesa del primo Ministro Italiano gli indicatori economici galoppano e gli occupati sono ai livelli pre-crisi. Il Pil sale dello 0,3%. Il temutissimo spread, preso atto del fermo dei partiti, rimane fermo a quota 121 punti.

La poltrona di Palazzo Chigi è vuota quindi la Borsa è al riparo da brutte sorprese. Anche il fondo monetario internazionale ha dovuto ammettere che in Italia le future prospettive non sono tanto male, e che la ripresa continua.

Questa è l’immagine a breve termine. Mentre a lungo termine sale la consapevolezza che il prolungato stallo politico porterà a delle conseguenze non del tutto rosee.

Presto l’Europa ci presenterà il conto da pagare, conto che in parte è stato messo a punto in questi giorni dall’esecutivo Europeo sempre in piena attività.

La Commissione ha infatti presentato il bilancio dei prossimi 5 anni (2021/2027) mettendo in evidenza come l’Italia verserà maggiori contributi, saranno applicati dei tagli all’agricoltura, mentre aumenteranno i fondi per i migranti. L’UE costerà sempre di più ma darà sempre meno all’Italia, almeno in termini economici.

Purtroppo la lunga tradizione di impegni non rispettati con Bruxelles autorizza ad immaginare il peggio ed il rincaro del prezzo del biglietto per rimanere a bordo della “nave Europa” è sempre più una certezza.

È la prima conseguenza della Brexit. Piuttosto che indurre le istituzioni europee a un approccio più cauto, la fuga del Regno Unito ha prodotto l’effetto opposto. Gli stati membri sono ventisette, non più ventotto, eppure è stato deciso di far crescere il bilancio dell’Europa. Per il periodo 2021/2027 l’impegno previsto è di 1.279 miliardi: circa 300 miliardi in più rispetto al bilancio in corso, e questo nonostante Londra che ogni anno staccava un assegno di 15 miliardi, si sia chiamata fuori.

Dimostrando di non aver capito nulla della lezione inglese, il presidente della Commissione Juncker, sostiene che non c’è altro modo per salvare l’Unione.

Intanto a Roma, nei palazzi del potere e nelle sedi dei partiti va in onda l’ennesimo sceneggiato de “il governo che non c’è” tra gli attori della XVIII legislatura e il “regista” Presidente Sergio Mattarella.

E nel dettaglio vediamo che solo poche ore fa la direzione del PD ha detto definitivamente NO a possibili governi con Di Maio o Salvini o centrodestra in generale. Nessuna sfiducia a Maurizio Martina confermato segretario reggente, anche se a tempo. L’assemblea del partito, per l’avvio della procedura per scegliere il nuovo leader, potrebbe infatti essere convocata tra due settimane. È questa la linea politica emersa al termine della direzione del PD al Nazareno, dove con un complicato lavoro di mediazione è stata evitata, almeno per il momento, una scissione interna. Emerge così la vittoria della linea dell’ex segretario Matteo Renzi.

La lega invece riflette sul da fare, nonostante gli insulti Matteo Salvini non chiude ufficialmente ai 5Stelle e anzi fa un richiamo allo schema centrodestra-grillini. Peccato però che i toni ormai sono sempre meno diplomatici tra i salviniani e i pentastellati, tanto che il vento di nuove elezioni soffia sempre più forte.

Lo stesso Di Maio ha proposto le urne a giugno (ma non ci sono i tempi tecnici) quindi passati i mesi caldi si arriverebbe all’autunno. Ma per l’agenda politica è un brutto periodo: c’è l’aggiornamento del DEF e la Finanziaria.

Giorgia Meloni non ha dubbi: subito al voto. E per farlo basta un ritocco alla legge elettorale. “Basta con i balletti. Se non ci sono i margini per dare all’Italia un governo che faccia i suoi interessi, allora meglio tornare al voto”. La leader di Fdi spiega come in tre ore si può modificare la legge elettorale in commissione speciale, non serve un governo per fare questo. “I parlamentari si mettano a lavoro è producano una legge elettorale con il premio di maggioranza, così nel caso in cui dovessimo chiedere al popolo italiano di tornare al voto, il giorno dopo avrebbero un governo scelto da loro”.

Anche per Berlusconi lo sblocco dello stallo può avvenire solo attraverso il cambiamento del “Rosatellum” ed il premio alla coalizione. “Basta stallo, basta immobilismo” le Camere devono essere subito operative.

Intanto l’inquilino del Colle rilancia un nuovo giro di consultazioni tra sabato e lunedì prossimo. La sua missione è quella di verificare per l’ennesima volta le condizioni di formare un governo capace di reggersi su una maggioranza politica oppure se bisognerà mettere le forze politiche davanti un atto di responsabilità chiedendo l’appoggio ad un governo del Presidente garantendo la prosecuzione della legislatura almeno fino alla fine dell’anno così da neutralizzare il previsto aumento dell’Iva, e secondo obiettivo: favorire la stesura di una nuova legge elettorale o il ritocco del Rosatellum.

Il nome del futuro premier per il Presidente ha sempre più le sembianze di un giurista con profilo istituzionale. Sabino Cassese, Giorgio Lattanzi, Alessandro Pajno….

Intanto a Francoforte Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, con la sua “mano ferma” ha rinviato l’atteso aumento dei tassi e a promesso che porterà liquidità fino a settembre e anche dopo se necessario. Significa che fino a quando la situazione non si sarà stabilizzata la sorveglianza resterà molto attenta.

Certo fra un anno Draghi scade. Sarà un problema. Ma per il momento abbiamo ancora un po’ di respiro.

Approvato bando permanente in UE per tre neonicotinoidi dannosi per le api. Greenpeace: “ottima notizia”

EUROPA di

A febbraio un rapporto della European food Safety authority (EFSA) ha confermato la pericolosità per le api di tre insetticidi neonicotinoidi largamente utilizzati, sulla base di una revisione di oltre 700 studi è stato confermato che queste sostanze comportano rischi elevati per le api e che le restrizioni imposte nel 2013 non erano sufficienti. La revisione delle evidenze scientifiche è stata possibile grazie a queste restrizioni parziali e questa pubblicazione è arrivata dopo altre cinque relazioni dell’EFSA, nel 2015 e nel 2016, che evidenziano costantemente i pericoli che queste sostanze rappresentano per api mellifere e api selvatiche.

Il 27 aprile i paesi membri dell’Unione Europea hanno approvato la proposta della Commissione europea che introduce il divieto di utilizzo all’aperto dei tre insetticidi incriminati. Il bando estende quello parziale già in essere dal 2013 e l’impiego dei principi attivi imidacloprid, clothianidin (entrambi della Bayer) e thiamethoxam (della Syngenta) sarà consentito solo all’interno di serre permanenti.

Greenpeace ha accolto con grande soddisfazione il bando permanente e quasi totale dei tre insetticidi, secondo l’organizzazione si tratta di una “grande giornata per il futuro dell’agricoltura europea”. Federica Ferrario, responsabile campagna Agricoltura di Greenpeace Italia, ha dichiarato: «Questa è una notizia importante per le api, l’ambiente e tutti noi. Il voto a favore dell’Italia certifica l’attenzione dei cittadini italiani per la protezione degli impollinatori. I danni di questi neonicotinoidi sono ormai incontestabili. Bandire questi insetticidi è un passo necessario e importante, il primo verso una riduzione dell’uso di pesticidi sintetici e a sostegno della transizione verso metodi ecologici di controllo dei parassiti».

Gli impollinatori (fra questi api mellifere, api selvatiche e altri insetti), svolgono un ruolo cruciale per la nostra alimentazione e per la produzione agricola. Tre quarti delle colture commerciali a livello globale dipendono, in una certa misura, dagli impollinatori che sono sistematicamente esposti a sostanze chimiche tossiche come insetticidi, erbicidi e fungicidi. L’evidenza scientifica mostra che determinati insetticidi hanno un effetto negativo diretto sulla salute degli impollinatori, colpendo sia singoli individui sia intere colonie. Oltre ai 3 insetticidi in discussione, ce ne sono altri che continuano a costituire una minaccia per le api e altri insetti benefici. Tra questi ci sono quattro neonicotinoidi, il cui uso è attualmente permesso nell’Unione Europea: acetamiprid, thiacloprid, sulfoxaflor e flupyradifurone. Inoltre, vi sono altre sostanze quali cipermetrina, deltametrina e il clorpirifos che sono ugualmente dannose. Per evitare che gli insetticidi vietati vengano sostituiti con altre sostanze chimiche altrettanto dannose, Greenpeace ritiene che l’Unione Europea debba bandire l’uso di tutti i neonicotinoidi, come la Francia sta già considerando di fare. Ad ulteriore tutela è necessario applicare gli stessi rigidi standard di valutazione di questi pesticidi a tutti i pesticidi e ridurre l’utilizzo di pesticidi sintetici. In questo senso occorre sostenere la transizione verso metodi ecologici di controllo dei parassiti.

In questo senso Greenpeace International ha pubblicato un rapporto intitolato “Ecological Farming”, l’intento è quello di proporre una strada verso un modello di agricoltura che garantisca un equilibrio tra il sostentamento degli agricoltori e la tutela dell’ambiente. Nel rapporto vengono individuati sette principi per un’agricoltura sostenibile con cui è possibile produrre alimenti sani lavorando con la natura e non contro di essa. Per Greenpeace occorre restituire il controllo sulla filiera alimentare a chi produce e chi consuma (strappando la filiera alle multinazionali dell’agrochimica); restituire la sovranità alimentare in quanto l’agricoltura sostenibile contribuisce allo sviluppo rurale e alla lotta a fame e povertà; produrre e consumare senza impattare sull’ambiente e la salute ma garantendo la sicurezza alimentare (ciò passa anche nella diminuzione del consumo di carne e suolo per la produzione di agro-energia, ricordiamo che recentemente vi è stata l’inchiesta di Greenpeace sugli allevamenti in Europa); incoraggiare la biodiversità lungo tutta la filiera; proteggere e aumentare la fertilità del suolo; consentire agli agricoltori di tenere sotto controllo parassiti e piante infestanti senza l’impiego di pesticidi chimici che possono danneggiare suolo, acqua ed ecosistemi; infine, rafforzare la nostra agricoltura, perché si adatti in maniera efficace il sistema di produzione del cibo in un contesto di cambiamenti climatici e di instabilità economica.
Greenpeace ci ricorda che decisioni come quelle del 27 aprile sono importanti per la biodiversità, per la produzione alimentare e l’ambiente. Decisioni del genere vanno in accordo con l’impegno della comunità internazionale intrapreso con “l’agenda 2030” dell’ONU e i “Sustainable Development Goals”; per fare ciò è importante ragionare in una “logica sistemica” che tiene d’occhio cause ed effetti nell’ambiente in cui viviamo, nell’economia, nella società e nelle istituzioni.

I Paesi che hanno votato a favore del divieto sono: Italia, Francia, Germania, Spagna, Regno Unito, Paesi Bassi, Austria, Svezia, Grecia, Portogallo, Irlanda, Slovenia, Estonia, Cipro, Lussemburgo, Malta, che rappresentano il 76,1% della popolazione dell’Ue. Quattro i Paesi contrari al divieto: Romania, Repubblica Ceca, Ungheria e Danimarca. Otto gli astenuti: Polonia, Belgio, Slovacchia, Finlandia, Bulgaria, Croazia, Lettonia e Lituania.

 

Rainer Maria Baratti
0 £0.00
Vai a Inizio
×