RANA PLAZA, 5 ANNI DOPO: la catastrofe che ci invita a riflettere sul fatto che viviamo in una società globale
Era la mattina del 24 aprile del 2013 quando a Dhaka, la capitale del Bangladesh, un edificio commerciale di 8 piani crollò alle 8:45 lasciando solo il piano terra intatto. Chi era presente lo descrisse come un terremoto ma la notizia più tragica fu la conferma che 3.650 operai erano presenti al momento del crollo. Il bilancio finale fu di 1.135 morti e 2.515 feriti. Il Rana Plaza, il nome dell’edificio commerciale, conteneva fabbriche di abbigliamento, una banca, appartamenti e numerosi altri negozi. Fu uno dei peggiori disastri industriali della storia moderna ed è diventato il simbolo dello sfruttamento della manodopera asiatica da parte degli appaltatori delle multinazionali dell’abbigliamento che fanno finta di non sapere cosa succede all’altra estremità della catena. Nel momento in cui sono state notate delle crepe sull’edificio, i negozi e la banca ai piani inferiori sono stati chiusi, mentre l’avviso di evitare di utilizzare l’edificio è stato ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili. I dipendenti delle fabbriche di abbigliamento lavoravano in condizioni indegne e senza misure di sicurezza, fu ordinato loro di tornare il giorno successivo, giorno in cui l’edificio ha ceduto, collassando durante le ore di punta della mattina. Tra i dipendenti più della metà erano donne accompagnate dai figli che erano stati lasciati negli asili nido aziendali all’interno dell’edificio. Le fabbriche realizzavano abbigliamento per marchi quali: Adler Modemärkte, Auchan, Ascena Retail, Benetton, Bonmarché, Camaïeu, C&A, Cato Fashions, Cropp (LPP), El Corte Inglés, Grabalok, Gueldenpfennig, Inditex, Joe Fresh, Kik, Loblaws, Mango, Manifattura Corona, Mascot, Matalan, NKD, Premier Clothing, Primark, Sons and Daughters (Kids for Fashion), Texman (PVT), The Children’s Place (TCP), Walmart e YesZee. Le scene seguenti vedono i parenti delle vittime in fila per il riconoscimento all’obitorio, li con una sensazione di malessere che aumentava e i passi che diventavano sempre più pesanti, li sospesi in un limbo ad aspettare di conoscere la sorte di familiari o amici. Si vedono, inoltre, anche operai sopravvissuti partecipare alle operazioni di soccorso e fotografi che fanno di tutto per documentare il disastro e diffondere in tutto il mondo la sofferenza di migliaia di lavoratori. È grazie a questi che possiamo vedere gli ultimi momenti strazianti di due persone che non si sono volute separare fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo abbraccio.
Questo è solo uno dei numerosi incidenti accaduti in Bangladesh negli ultimi 10 anni e la stessa Dhaka ha visto un terribile incendio nel 2012 che uccise almeno 112 lavoratori. I responsabili si sono rifiutati di lasciare che i lavoratori fuggissero anche dopo che gli allarmi antincendio si sono attivati e nessuna delle fabbriche coinvolte avevano un sindacato per rappresentare i lavoratori e per aiutarli a combattere contro le richieste mortali dei gestori. Ali Ahmed Khan, capo del servizio antincendio e della protezione civile, disse che i quattro piani superiori erano stati costruiti senza permesso e l’architetto dell’edificio, Massoud Reza, affermò che l’edificio era stato progettato per ospitare solo negozi e uffici, non fabbriche. L’edificio non era progettato con una struttura abbastanza forte da sopportare il peso e le vibrazioni dei macchinari pesanti. Le operazioni di salvataggio e recupero proseguirono nei 17 giorni successivi al crollo, il 10 maggio fu salvata, quasi illesa, dalle macerie una donna di nome Reshma.
Sohel Rana, proprietario del palazzo, venne arrestato qualche giorno dopo il crollo, mentre cercava di fuggire in India. È una delle 42 persone che le autorità del Bangladesh hanno incriminato per omicidio, con l’accusa di avere ignorato gli avvertimenti sulla fragilità e l’insicurezza dell’edificio e le raccomandazioni, ricevute il giorno prima del crollo, di non consentire l’ingresso ai lavoratori. Rana è accusato insieme ad altre diciassette persone anche di avere violato il regolamento edilizio, per avere trasformato illegalmente il palazzo in un complesso industriale di nove piani. Due giorni dopo il crollo dell’edificio, i lavoratori tessili delle zone industriali di Dhaka, Chittagong e Gazipur hanno dato luogo ad insurrezioni, prendendo di mira veicoli, edifici commerciali e fabbriche di abbigliamento. Successivamente i partiti politici di sinistra e il Partito Nazionalista del Bangladesh hanno chiesto l’arresto e il processo dei sospettati e l’istituzione di una commissione indipendente per identificare le fabbriche pericolose. Il 1º maggio i lavoratori protestarono e sfilarono a migliaia attraverso il centro di Dhaka per chiedere condizioni di lavoro più sicure e la pena di morte per il proprietario del Rana Plaza. I funzionari governativi locali riferirono di essere in trattative con l’Associazione dei produttori ed esportatori del Bangladesh per pagare gli stipendi in sospeso, più altri tre mesi. Dopo che i funzionari hanno promesso ai lavoratori sopravvissuti che sarebbero presto pagati, questi hanno concluso la loro protesta. L’associazione ha quindi compilato un elenco dei dipendenti sopravvissuti. Il giorno dopo, 18 industrie di abbigliamento, di cui 16 a Dacca e 2 a Chittagong, sono state chiuse. Il Ministro per l’industria tessile, Abdul Latif Siddique, ha detto ai giornalisti che sarebbero state chiuse ancora più fabbriche nell’ambito di rigorose nuove misure per garantire la sicurezza. A giugno dello stesso anno però la polizia ha aperto il fuoco su centinaia di ex lavoratori e di parenti delle vittime del crollo, che protestavano per chiedere gli arretrati e i risarcimenti promessi dal governo e dall’associazione dei produttori. La stessa scena si è avuta a settembre quanto almeno 50 persone sono rimaste ferite quando la polizia ha sparato proiettili di gomma e gas lacrimogeni contro una folla di manifestanti che bloccavano le strade di Dhaka.
Il caso Rana Plaza ha suscitato numerose proteste in giro per il mondo che hanno coinvolto anche le aziende non coinvolte direttamente nell’incidente ma che utilizzano fabbriche in Bangladesh. L’International Labour Organization (ILO) nei giorni successivi al disastrò avverti di non boicottare i prodotti Made in Bangladesh poiché avrebbe causato un numero elevato di disoccupati ma occorreva porsi l’obiettivo da porsi di migliorare e cambiare le condizioni di lavoro. Lo scopo, ancora oggi, è di cambiare il modo in cui i paesi cercano di attrarre investimenti stranieri. È il modello di business che deve essere cambiato poiché i costi bassi non devono essere perseguiti a scapito della vita delle persone e della loro sicurezza. Nel 2015 Human Rights Watch ha pubblicato il rapporto “Whoever Raises their Head Suffers the Most” che si basa su interviste con più di 160 lavoratori di 44 fabbriche, la maggior parte delle quali sono imprese commerciali al dettaglio in Nord America, Europa e Australia. Nelle interviste sono state segnalate violazioni come aggressioni fisiche, abusi verbali (anche di natura sessuale), lavoro straordinario forzato, negazione del congedo di maternità retribuito e il vizio di non pagare gli stipendi e i bonus in tempo o in pieno. Nonostante le riforme del diritto del lavoro, i lavoratori che cercano di formare i sindacati devono affrontare minacce, intimidazioni, il licenziamento e aggressioni fisiche per mano dei datori di lavoro o per opera di picchiatori assunti. Ad esempio, in una fabbrica di Dhaka, alcune leader sindacali femminili hanno dovuto affrontare minacce, abusi, ed hanno dovuto subire un aumento drammatico dei carichi di lavoro, dopo aver presentato i moduli di registrazione del sindacato. Nelle interviste con Human Rights Watch, sei donne che hanno contribuito all’istituzione del sindacato hanno detto che sono state perseguitate per questa sola ragione, ricevendo persino minacce a casa di alcune di loro. Non appena sono stati presentati i moduli di registrazione, i gangster locali sono andati a casa delle donne e le hanno minacciate dicendo “Se ti avvicini alla fabbrica ti spezziamo le mani e le gambe”.
I “Rana Plaza” europei
Il fenomeno interessa strettamente anche l’Europa, un rapporto di “Clean Clothes Campaign” rivela condizioni di grave sfruttamento nella produzione di abbigliamento “Made in Europe”. Il rapporto documenta bassi salari endemici e le dure condizioni di lavoro nell’industria tessile e calzaturiera dell’Est e Sud-Est Europa. Ad esempio, molti lavoratori in Ucraina, nonostante gli straordinari, guadagnano appena 89 euro al mese in un Paese in cui il salario dignitoso dovrebbe essere almeno 5 volte tanto. Per molti marchi questi paesi rappresentano paradisi per i bassi salari e molti brand enfatizzano l’appartenenza al “Made in Europe”, suggerendo che questo concetto sia sinonimo di “condizioni di lavoro eque”. In realtà, molti dei 1,7 milioni di lavoratori e lavoratrici di queste regioni vivono in povertà, affrontano condizioni di lavoro pericolose e si trovano in una situazione di indebitamento significativo. Inoltre, i salari minimi legali in questi Paesi sono attualmente al di sotto delle loro rispettive soglie di povertà e dei livelli di sussistenza. Le conseguenze sono terribili e vedono soprattutto lavoratrici raccontare che a volte non hanno nulla da mangiare o che a mala pena riescono a pagare le bollette. Le interviste a lavoratrici e lavoratori di fabbriche di abbigliamento e calzature in Ungheria, Ucraina e Serbia hanno rivelato che molti di loro sono costretti ad effettuare straordinari per raggiungere i loro obiettivi di produzione. Ma nonostante questo, difficilmente riescono a guadagnare qualcosa in più del salario minimo. Tra le condizioni di lavoro pericolose vi è l’esposizione al calore o a sostanze chimiche tossiche, condizioni antigieniche, straordinari forzati illegali e non pagati e abusi da parte dei dirigenti. I lavoratori intervistati si sentono intimiditi e sotto costante minaccia di licenziamento o trasferimento. Quando i lavoratori serbi chiedono perché durante la calda estate non c’è aria condizionata, perché l’accesso all’acqua potabile è limitato o perché sono costretti a lavorare di nuovo il sabato, la risposta è: “Quella è la porta”. A essere coinvolte sono tre milioni di persone: in Turchia, Georgia, Bulgaria, Romania, Macedonia, Moldavia, Ucraina, Bosnia, Croazia, Slovacchia. Queste vengono sottopagate da marchi come Zara, H&M, Hugo Boss, Nike, Levi’s, Max Mara, Benetton, Versace, Dolce e Gabbana e Prada. Queste persone vengono pagate con salari che si aggirano intorno al 30% della media nazionale. Inoltre, vengono messe in atto strategie retributive per nascondere il non raggiungimento dei minimi salariali. Si va dalla “sottrazione di congedi retribuiti e dello straordinario” alle irregolarità dei congedi stessi. Poi in tutta l’aria geografica presa in considerazione dalla ricerca, sembra sia prassi non dare ai lavoratori stipendi arretrati e liquidazioni dopo la chiusura degli stabilimenti.
5 anni dopo il Rana Plaza
Il 17 aprile, a una settimana dal quinto anniversario del crollo, la “Campagna Abiti Puliti” (sezione italiana della Clean Clothes Campaign) e i suoi alleati hanno iniziano una sette giorni di pressione sui marchi internazionali affinché si assumano le loro responsabilità nel garantire fabbriche sicure in Bangladesh firmando l’Accordo di Transizione 2018. L’Accordo porta avanti il lavoro svolto con l’attuale Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh sottoscritto nel 2013, a partire dalla scadenza di maggio. L’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh ha contribuito in maniera significativa a migliorare la sicurezza delle fabbriche in quel Paese. Un’estensione dell’inziale programma quinquennale è stata già firmata da oltre 140 marchi, coprendo più di 1.300 fabbriche e circa due milioni di lavoratori. L’obiettivo è di aumentare il numero di operai salvaguardati rispetto al precedente accordo. Il nuovo accordo offre la possibilità di includere anche fabbriche che producono accessori tessili, a maglia e in tessuto non necessariamente di abbigliamento. È ad esempio il caso di marchi come IKEA, chiamati ad assumersi anche loro la responsabilità di garantire la sicurezza per i propri lavoratori. L’Accordo 2018 include disposizioni migliorate per il risarcimento per i lavoratori infortunati e riconosce l’importanza della libertà di associazione sindacale nell’assicurare che i lavoratori abbiano voce in capitolo nella protezione della propria sicurezza. I tecnici dell’Accordo hanno ispezionato più di 1.900 fabbriche di abbigliamento bengalesi fornitrici dei marchi che lo hanno sottoscritto. Grazie a questo accordo i tecnici sono stati in grado di correggere 97.000 rischi per incendi, problemi elettrici e strutturali; inoltre, l’accordo è stato in grado di risolvere 183 reclami formulati dai lavoratori. Nel gennaio 2018 IndustriALL e UNI hanno raggiunto un accordo, nell’ambito del meccanismo legalmente vincolante dell’Accordo, che prevede un impegno a pagare 2,3 milioni di dollari da parte dei marchi internazionali da destinare alla messa in sicurezza di più di 150 fabbriche sue fornitrici. Questo, dopo un altro accordo di successo con un marchio globale inadempiente, presso il tribunale arbitrale dell’Aia nel dicembre 2017.
La catastrofe del Rana Plaza ha avuto degli effetti positivi come quello di risvegliare l’opinione pubblica dei paesi sviluppati e quello di stimolare le organizzazioni internazionali che proteggono i diritti degli operai tessili in Asia. Il Bangladesh, secondo esportatore di abiti al mondo (dopo la Cina), ha beneficiato di questa mobilitazione, culminata con la firma di un accordo sulla sicurezza patrocinato dall’Organizzazione internazionale del lavoro di cui abbiamo appena visto gli effetti. Rimane però ancora molto da fare. Migliaia di strutture in Bangladesh non hanno ancora sottoscritto l’accordo per cui varie associazioni stanno lottando per l’estensione fino al 2021. Il lavoro minorile resta un problema enorme, come le condizioni salariali dei lavoratori tessili, e gli scioperi proclamati in Bangladesh per sostenere rivendicazioni in questo senso sono stati duramente repressi. A questo punto abbiamo tutti il dovere di riflettere dato che il fenomeno investe anche l’Europa e le fabbriche in Europa. Le grandi aziende dovrebbero riflettere sul loro modello economico basato sull’abbassamento dei prezzi e i consumatori dovrebbero chiedersi qual è il costo umano dietro ai vestiti. Ed è quello che ci invita a fare il documentario “True Cost” del 2015. Siamo sempre più disconnessi dalle persone che confezionano i nostri vestiti e ci sono circa 40 milioni di lavoratori nel settore tessile, molti dei quali non condividono gli stessi diritti o protezioni di molte persone in Occidente. Costantemente abbiamo avuto modo di vedere lo sfruttamento del lavoro a basso costo e la violazione dei diritti dei lavoratori, delle donne e dei diritti umani in molti paesi in via di sviluppo in tutto il mondo. L’industria della moda rappresenta uno dei più grandi punti di connessione per milioni di persone. La moda è un mondo che parte dall’agricoltura, passa per la produzione e finisce nella vendita al dettaglio e, ad oggi, abbiamo alcuni dei più alti livelli di disuguaglianza e distruzione ambientale che il mondo abbia mai visto. Questi sono i risultati della cosiddetta “Moda veloce”, l’industria della moda oggi si può riassumere con il motto “vai veloce o vai a casa”. Un capo di abbigliamento dura in media cinque settimane e per produrlo ci vogliono tra le sei e le otto settimane. Al posto delle tradizionali collezioni “autunno-inverno” e “primavera-estate”, un marchio fast fashion può produrre due ministagioni a settimana con enormi costi umani e ambientali, dovuti alla produzione di cotone e alla tinteggiatura dei tessuti. Ovviamente con elevati guadagni da parte di queste multinazionali. Il problema è che un boicottaggio non avrebbe senso perché danneggia chi si vorrebbe aiutare, un punto di partenza è chiedersi “chi ha fatto i miei vestiti?” per riflettere sui meccanismi di produzione e fare pressione sui grandi marchi. Dobbiamo trovare un modo per continuare a operare in un mondo globalizzato che valuti le persone e il pianeta come essenziali. Come clienti in un mondo sempre più disconnesso, è importante sentirsi in contatto con i lavoratori che confezionano i nostri vestiti e informare i marchi che ci prendiamo cura di queste persone e della loro voce. Perché, come ci ricorda la rivista “Internazionale” con il suo mini-documentario in 6 parti, “ci sono vite dietro le etichette”.