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Commissione UE, doppia procedura di infrazione all’Italia per viaggi e inquinamento

EUROPA di

La Commissione europea ha avviato una doppia procedura di infrazione per l’Italia. La prima è sui rimborsi ai passeggeri per i viaggi cancellati a causa del Covid-19: la modalità di rimborso prevista dall’Italia consente alle compagnie di offrire dei voucher come unica forma di rimborso, mentre ai sensi del regolamento europeo i passeggeri hanno il diritto di scegliere tra il rimborso in denaro o in voucher. La seconda procedura avviata contro l’Italia è motivata dal ritardo nell’adozione del programma nazionale di controllo dell’inquinamento atmosferico e dalla mancata comunicazione alla Commissione, cosa che sarebbe dovuta avvenire entro il 1° aprile 2019.

La procedura d’infrazione per i voucher

Il 2 luglio 2020 la Commissione europea ha avviato un procedimento di infrazione inviando lettere di messa in mora – il primo step della procedura – a Grecia e Italia per violazione delle norme europee sulla tutela dei diritti dei passeggeri. In particolare, si afferma che i due Paesi hanno violato le norme dell’UE in materia di diritti dei passeggeri per quanto riguarda il trasporto aereo e per vie navigabili. Inoltre, l’Italia non ha adottato misure conformi alle norme anche in merito ai trasporti con autobus e nel trasporto ferroviario. Sebbene la Commissione europea riconosca che a causa della pandemia di coronavirus molte imprese si sono trovate ad affrontare situazioni insostenibili, si pone a tutela dei diritti dei passeggeri: le misure nazionali a tutela delle imprese non possono limitare i diritti dei passeggeri. Ciò di cui i Paresi sono accusati è che hanno adottato una legislazione che consente di offrire voucher come unica forma di rimborso, quando invece secondo i regolamenti europei i passeggeri hanno il diritto di scegliere tra un rimborso in denaro o in altra forma, tra cui anche i voucher; i passeggeri si sono dunque trovati costretti ad accettare la soluzione dei voucher. L’Italia ha infatti permesso alle compagnie di trasporti che cancellano un viaggio per motivi legati al covid-19 di fino al 30 settembre di emettere un voucher di importo pari a quello del biglietto, senza far scegliere se avere indietro i soldi.

Grecia e Italia hanno due mesi di tempo per rispondere alla lettera della Commissione e, trascorso il tempo previsto, la Commissione potrà decidere di inviare un parere motivato. La procedura avviata può culminare in gravi sanzioni per i Paesi, ma al momento è solo nella sua fase iniziale e il tutto dipende da come evolverà la situazione in Grecia e Italia.

Sempre in quest’ambito, la Commissione europea ha ribadito che i diritti dei passeggeri e dei consumatori devono essere tutelati anche nell’ambito dei viaggi a pacchetto con la formula del “tutto compreso”: ad emettere i voucher, in questo caso, sono stati i tour operator, anche questa volta senza far scegliere ai consumatori. In quest’ultima occasione, Bruxelles ha inviato delle lettere di messa in mora anche ad altri Stati membri, quali Repubblica Ceca, Cipro, Francia, Croazia, Lituania, Polonia, Portogallo e Slovacchia. Ad accettare con piacere la presa di posizione della Commissione europea è la BEUC, Associazione europea dei consumatori, secondo la quale ora è compito dei governi garantire il rimborso ai viaggiatori e ripristinare la fiducia nel settore turistico.

La seconda procedura per l’inquinamento

Sempre il 2 luglio, la Commissione ha sollecitato Italia e Lussemburgo a adottare i loro programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico e comunicarli alla Commissione, secondo quanto stabilito dalla direttiva in materia di riduzione delle emissioni nazionali degli inquinanti atmosferici. Tale direttiva stabilisce gli impegni nazionali di riduzione delle emissioni ed ha l’obiettivo di ottenere livelli di qualità dell’aria che non comportino significativi impatti negativi e rischi per la salute umana e l’ambiente. Compito degli Stati membri è di adottare dei programmi di controllo dell’inquinamento atmosferico nei quali vengano definite le modalità per il raggiungimento delle riduzioni concordate delle loro emissioni annuali. In realtà, gli Stati avrebbero dovuto presentare i loro programmi nazionali di controllo dell’inquinamento atmosferico il 1° aprile 2019. La Commissione ha sollecitato diverse volte ma non avendo ricevuto risposta ha deciso di inviare lettere di costituzione in mora, concedendo a Italia e Lussemburgo tre mesi di tempo per adottare i programmi. In assenza dei programmi, tra tre mesi la Commissione chiederà un parere motivato. Per comprendere l’importanza del piano di controllo dell’inquinamento in Italia, basti pensare a ciò che l’esposizione all’inquinamento atmosferico comporta per i cittadini italiani. Secondo il report “Air quality in Europe” pubblicato dall’Agenzia europea dell’ambiente, ogni anno tre inquinanti atmosferici causano 76.200 vittime: l’Italia è infatti il primo in Europa per morti premature da biossido di azoto (NO2) con circa 14.600 vittime all’anno, ha il numero più alto di decessi per ozono (3.000) e il secondo per il particolato fine PM2,5 (58.600).

INCHIESTA DI GREENPEACE: i fondi comunitari finanziano alcuni degli allevamenti più inquinanti in UE

EUROPA di

La Politica Agricola Comune (PAC) svolge un ruolo essenziale per il settore agricolo in Europa e distribuisce agli agricoltori circa 59 miliardi di euro, quasi il 40 percento del bilancio dell’Unione europea. La PAC definisce come distribuire questo denaro tra gli agricoltori di tutta Europa. Uno degli obiettivi dichiarati della policy europea è migliorare l’ambiente, ma l’attuale PAC raggiunge effettivamente questo obiettivo? «La tutela ambientale dovrebbe essere uno degli obiettivi della Politica Agricola Europea (PAC), ma i fatti certificano che i comportamenti sbagliati vengono costantemente premiati. E l’inquinamento da ammoniaca è solo la punta dell’iceberg. La PAC continua a finanziare gli allevamenti intensivi nonostante gli impatti disastrosi che questi hanno sull’ambiente, sul clima e sulla salute pubblica, mentre dovrebbe promuovere invece l’agricoltura che rispetta la natura e il benessere di tutti» sono le parole di Federica Ferrario, responsabile campagna Agricoltura di Greenpeace Italia.

In un’inchiesta condotta da Greenpeace, sono stati incrociati i dati dei finanziamenti diretti nell’ambito della Politica Agricola Comune (PAC) e il Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti (E-PRTR). Ciò rivela come i sussidi comunitari finanzino alcuni tra gli allevamenti più inquinanti d’Europa. Oltre la metà (51%) degli allevamenti esaminati in sette diversi Paesi dell’Ue ha ricevuto infatti fondi per un totale di 104 milioni di euro, nonostante si tratti di alcuni tra i maggiori emettitori di ammoniaca nei rispettivi Paesi. L’indagine è stata commissionata da Greenpeace Francia, ma è stata svolta in modo indipendente da otto giornalisti tra dicembre 2017 e aprile 2018. La ricerca si è concentrata sul settore dell’allevamento intensivo, poiché l’impatto ecologico di questo settore è particolarmente alto. La ricerca ha inoltre evidenziato la mancanza di un adeguato sistema di monitoraggio e trasmissione dei dati relativi all’inquinamento agricolo in Europa. L’ammoniaca (NH3) è il solo inquinante costantemente riportato nel Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti (E-PRTR), e solo le aziende con spazio per oltre 40 mila polli, 2 mila maiali o 750 scrofe sono obbligate a comunicare i dati a questo registro. Il rilascio di ammoniaca da fertilizzanti o liquami può causare fenomeni di eutrofizzazione (ovvero l’eccessivo accrescimento degli organismi vegetali e il conseguente degrado dell’ambiente divenuto poco rigoglioso) in fiumi, laghi e mari per l’eccessivo arricchimento di sostanze nutritive. L’ammoniaca è causa inoltre di inquinamento atmosferico da particolato fine, con conseguenti impatti sulla salute umana e può influire negativamente sulle vie respiratorie. Questo è un problema serio per le persone che lavorano nel settore agricolo, dato che possono sviluppare asma e altre malattie croniche e una ricerca ha mostrato che il semplice vivere in prossimità di allevamenti intensivi potrebbe influire negativamente sull’apparato respiratorio. Chi vive nelle vicinanze di allevamenti industriali potrebbe subire le conseguenze anche dal punto di vista economico. In Polonia, ad esempio, i ricercatori hanno verificato che in alcune aree il valore delle proprietà residenziali nelle vicinanze degli allevamenti intensivi di pollame è diminuito significativamente.

In Italia, secondo i dati E-PRTR, nel 2015 circa 874 allevamenti hanno emesso più di 10 tonnellate di ammoniaca (NH3). Il numero di società (alcune delle quali hanno riferito emissioni di ammoniaca per più di un allevamento) incluse nell’E-PRTR è di 739. In quell’anno queste aziende hanno emesso 46 mila tonnellate di ammoniaca. Ciò rappresenta il 12,8% delle emissioni totali di ammoniaca del comparto agricolo del Paese. In altre parole, l’87,2% delle emissioni di ammoniaca del comparto agricolo non viene registrato nell’E-PRTR. Il totale delle emissioni di ammoniaca del settore agricolo italiano nel 2015 ha raggiunto le 378 mila tonnellate, che rappresentano il 95% delle emissioni totali di ammoniaca dell’intero Paese. I sussidi alla PAC sono stati versati a circa il 67% delle 739 società inquinanti, ovvero a 495 aziende agricole. Queste aziende hanno ricevuto 25,64 milioni di euro in sussidi alla PAC.

“Il Pianeta nel piatto” (qui la petizione) è l’iniziativa di Greenpeace contro gli allevamenti intensivi che stanno divorando il pianeta. Per produrre e vendere sempre più carne si distruggono intere foreste, si sottopongono gli animali a trattamenti atroci e si inquinano acqua, suolo e aria. Gli impatti legati agli allevamenti intensivi sono insostenibili, perciò green peace chiede all’unione europea e al governo italiano di tagliare i sussidi agli allevamenti intensivi e sostenere aziende agricole che producono con metodi ecologici.  L’iniziativa di Greenpeace ci invita a riflettere su cosa mangiamo e la risposta a questo quesito determinerà il futuro dei nostri figli e di molte altre specie che abitano il pianeta. Gli allevamenti intensivi fanno sì che la carne arrivi a buon mercato sugli scaffali dei nostri supermercati ma il prezzo più alto lo paga il nostro pianeta in termini di deforestazione (per creare aree di pascolo e produrre mangimi), perdita di biodiversità, emissioni e inquinamento dell’acqua e del suolo.Inizio modulo Greenpeace chiede di cambiare le regole dei sussidi in quanto nel 2021 l’Europa applicherà la nuova “Politica Agricola Comune” (PAC) ovvero l’insieme di regole per l’assegnazione di sussidi e incentivi agli agricoltori e allevatori europei. Greenpeace avverte che la problematica consiste nel fatto che questi fondi non vengono assegnati in modo equo poiché la PAC sostiene in modo sproporzionato grandi aziende di stampo intensivo e industriale. Il risultato è quello di spingere verso un continuo accorpamento e intensificazione, contribuendo alla scomparsa delle aziende agricole di dimensioni minori e più sostenibili.  Lo scopo di Greenpeace è quello di sviluppare una coscienza alimentare globale e inclusiva, per questo richiede di: mettere fine a sussidi e politiche che sostengono la produzione intensiva di carne e prodotti lattiero-caseari; incrementare sussidi e adottare politiche che promuovano la produzione di alimenti da aziende agricole ecologiche e locali; adottare politiche che guidino il cambiamento delle abitudini alimentari e dei modelli di consumo, finalizzati a raggiungere l’obiettivo di ridurre del 50% il consumo di carne e prodotti lattiero-caseari, entro il 2050.

Il prossimo 2 maggio la Commissione europea dovrebbe pubblicare una bozza del prossimo bilancio Ue, a partire dal 2020, che includerà le spese della PAC. All’inizio di giugno, è attesa anche la pubblicazione della sua proposta di riforma della PAC.

India e Cina per una nuova leadership sul clima?

Asia di

Il mondo cambia rapidamente. Fino a non molto tempo fa gli Stati Uniti di Barack Obama, nel ruolo dei virtuosi, premendo su India a Cina, i “grandi inquinatori”, perché rinnovassero le proprie politiche ambientali e si unissero alla schiera dei paesi impegnati a combattere il cambiamenti climatici. L’accordo di Parigi COP 21, siglato nel 2015 e sottoscritto da tutti i principali attori in gioco, aveva rappresentato, fatti salvi i molti compromessi al ribasso, un esito favorevole per le istanze ambientaliste ed un successo della stessa amministrazione democratica americana.

A meno di due anni di distanza, gli USA di Trump si apprestano ad uscire dall’accordo e India e Cina si candidano a guidare la lotta contro l’inquinamento, senza risparmiare dure critiche alle scelte della nuova presidenza.

Nessuno dei due paesi, però, sembra realmente in grado di assumere la leadership sul fronte della lotta al riscaldamento globale e riempire il vuoto che verrà inevitabilmente lasciato dalla fuoriuscita degli Stati Uniti.

I due governi asiatici stanno gradualmente assumendo posizioni più nette, anche livello pubblico, contro l’inquinamento da combustibili fossili, poiché le rispettive popolazioni sono destinate a soffrire in modo sempre più diretto gli effetti nefasti dei cambiamenti climatici e dell’avvelenamento delle risorse naturali. Al di là delle prese di posizione, di per se rassicuranti, Cina e India non sono però in grado, almeno per ora, di compensare il forte indebolimento del sistema di incentivi economici che gli USA offrivano ai paesi in via di sviluppo in cambio di un maggiore controllo sui propri livelli di inquinamento.

Il cambiamento di rotta in Asia è però evidente e non va sottovalutato. Per decenni i governi di India e Cina avevano guardato con sospetto e fastidio agli appelli dei paesi del primo mondo per una riduzione delle emissioni inquinanti. Chi aveva basato il proprio sviluppo sull’industrializzazione selvaggia, senza farsi troppe domande sulle conseguenze climatiche, chiedeva ai paesi più poveri di limitare le proprie capacità di crescita in ragione della salute del pianeta. Da che pulpito arrivava la predica?

Oggi, però, sia il presidente indiano Modi che il suo omologo cinese Xi Jinping, sembrano aver adottato una diversa visione del mondo. Modi ha definito “un atto moralmente criminale” quello di non tenere fede agli impegni presi sul fronte climatico. Jinping si è rivolto a tutti i firmatari dell’accordo COP 21 ricordando che esso rappresenta “una responsabilità che dobbiamo assumere per le future generazioni”.

La scelta di Trump potrebbe avere conseguenze drammatiche per quello stesso futuro. Oltre alla riduzione degli incentivi economici e delle forniture di dotazioni tecnologiche (gli USA da soli avrebbero dovuto contribuire per circa il 20% del totale), la ritirata americana potrebbe invogliare altri paesi a fare lo stesso. L’accordo di Parigi, inoltre, era stato da molti considerato un risultato al ribasso, incapace di contenere realmente l’innalzamento delle temperature globali nei prossimi anni. Sarebbero necessari tagli decisamente più sostanziali alle emissioni, per invertire la rotta, ma il voltafaccia americano rischia di indebolire anche l’accordo corrente, incoraggiando gli stati più esitanti ad allentare le maglie del proprio impegno.

Gli USA, inoltre, sono il secondo paese più inquinante al mondo e con gli accordi di Parigi si erano impegnati a ridurre del 26-28% l’emissione di gas serra entro il 2025. Senza il loro contributo, si chiedono gli esperti, come sarà possibile rispettare l’obiettivo di limitare l’innalzamento delle temperature, rispetto all’era pre-industriale, al di sotto dei due gradi, come previsto dagli accordi di Parigi?

Difficile dirlo, ma le cose comunque si muovono. Se l’india si impegna a rispettare i propri obiettivi, nonostante 240 milioni di persone nel sub-continente non abbiano ancora accesso all’elettricità, la Cina sembra viaggiare spedita verso la realizzazione dei suoi impegni e ha avviato un progetto di finanziamento sul fronte delle energie rinnovabili (360 milioni di dollari entro il 2020) che fa del gigante asiatico il nuovo leader del settore a livello globale.

Le nuove politiche ambientali, secondo gli studiosi, hanno già iniziato ad avere alcune conseguenze tangibili nei due paesi. La Cina ha rallentato i propri consumi e l’India si appresta a ridurre i progetti di costruzione di nuovi impianti industriali a carbone. Nuova Deli ha poi accelerato gli investimenti sul fronte dell’energia eolica e di quella solare, muovendosi spedita verso l’obiettivo fissato per il 2022: portare la propria capacità di energia da fonti rinnovabili a 175 gigawatt.

Le parole del ministro dell’energia indiano, Piyush Goya suonano chiare e decise : “Non ci stiamo impegnando sul cambiamento climatico perché ce lo ha detto qualcuno, è anzi un articolo di fede per il nostro governo”. Anche la stoccata rivolta ai paesi più industrializzati ben rappresenta il cambio di paradigma: “Sfortunatamente il mondo sviluppato non dimostra lo stesso impegno nel rispettare le proprie promesse, che potrebbero aiutare ad accelerare la rivoluzione dell’energia pulita.”

Saranno dunque capaci le potenze asiatiche di supplire alle mancanze americane e caricare sulle proprie spalle questa rivoluzione? L’impegno è evidente ma resta il problema economico. La leadership americana sul fronte ambientale, nell’era Obama, si era espressa attraverso un finanziamento di 3 mila miliardi di dollari in favore dei paesi più poveri, per sostenerli nello sviluppo di energie alternative. Questo fondo è stato ridotto di due terzi da Trump e né Pechino né Nuova Deli intendono mettere sul piatto tutti questi soldi. Piuttosto, i due giganti sembrano disposti a svolgere un ruolo di coordinazione e indirizzo, rafforzando la condivisione di conoscenze sul fronte tecnologico tra le nazioni coinvolte.

Usando le parole di Varad Pande, un ex-consulente del Ministero dell’Energia indiano, quella che si costruisce oggi sarà “una leadership dal sapore diverso”.

Decisa e speziata, si spera, come il curry.

Lo spleen di Pechino

Asia di

 

Per capire cosa sta succedendo in Cina possiamo partire da una notizia grottesca che arriva dal Nord America. L’azienda canadese Vitality Air aveva recentemente lanciato, un po’ per scherzo, un nuovo prodotto: bottigliette riempite con l’aria cristallina delle Rocky Mountains. Nel giro di pochi giorni le scorte sono andate esaurite e tutti gli ordini sono arrivati dalla Cina. Il paese sta infatti vivendo in queste settimane una vera e propria emergenza ambientale, a causa degli elevatissimi livelli di smog e polveri sottili registrati nelle principali città.

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Dopo l’allarme rosso decretato dalle autorità la scorsa settimana, che aveva paralizzato la capitale Pechino con la chiusura di scuole, cantieri ed uffici pubblici, la salute dei cittadini cinesi continua ad essere minacciata. Il problema è determinato dall’enorme consumo di carbone e di altri combustibili fossili che mantiene a regime la crescita economica del gigante asiatico. I gas di scarico delle automobili, nonostante quanto comunemente si creda, contribuiscono solo in parte alla formazione delle nubi maleodoranti che avvolgono Pechino e le altre grandi città delle regioni maggiormente industrializzate. Di fatto, il paese sta vivendo la sua rivoluzione industriale e il carbone, al pari di quanto avveniva in Europa nel XIX secolo, alimenta il motore dello sviluppo. Fatte le debite proporzioni, le ricadute su scala ambientale sono drammatiche e coinvolgono l’intero pianeta.

Dopo Pechino, anche Shanghai è stata avvolta da una spessa cappa di smog, martedì scorso. Nella capitale economica del paese l’indice di qualità dell’aria ha raggiunto il valore 300, considerato “pericoloso” per la salute dell’uomo con possibili ripercussioni a lungo termine. Non molto, in confronto ai valori registrati nella Capitale e nelle città del nord la settimana scorsa, ma comunque sufficiente per spingere le autorità locali a decretare un “allarme giallo” ed intervenire per limitare le attività edilizie e vietare agli studenti di uscire dagli edifici scolastici durante la mattinata.

Le difficoltà sul fronte ambientale che il paese affronta quotidianamente risultano ancora più eclatanti, all’indomani dell’approvazione dell’accordo sul clima della conferenza Cop21 di Parigi, conclusasi la scorsa settimana. Anche la delegazione cinese ha sposato l’accordo, sulla cui reale efficacia si sono spese molte parole in questi giorni, con giudizi spesso distanti. Per i cinesi il documento finale rappresenta un compromesso accettabile tra le esigenze di sviluppo del paese e gli impegni di riduzione dei gas serra nel medio periodo. Certamente la delegazione guidata da Xie Zhenhua ha spinto per una limitazione degli impegni legalmente vincolanti, ma la mancata adesione del paese maggiormente inquinante avrebbe decretato il fallimento del vertice.

Cosa prevede l’accordo di Parigi? In breve, i paesi firmatari si impegnano a raggiungere il picco di emissioni nel più breve tempo possibile, per poi passare ad una decisa riduzione dei gas serra nella seconda metà del secolo. L’obiettivo comune, considerato vitale dagli esperti, è di contenere l’aumento medio delle temperature globali “ben al di sotto” dei due gradi e puntando, se possibile, al limite massimo di 1,5 C. Il progresso del piano sarà monitorato con cadenza quinquennale e, da qui al 2020, si prevede un finanziamento di 100 miliardi di dollari all’anno in favore dei paesi in via di sviluppo per l’implementazione di progetti ambientali. Dopo il 2020 il finanziamento dovrebbe aumentare, in misura ancora da stabilire.

Secondo alcuni osservatori, il limite dei due gradi sarà difficilmente rispettato, ma per la prima volta la Cina e le altre grandi potenze inquinanti del mondo in via di sviluppo hanno deciso di aderire formalmente allo sforzo comune. Il cambio di rotta, secondo Naomi Klein, è determinato anche dal fatto che le condizioni di vita dei cinesi stanno peggiorando in modo sensibile, proprio per via dell’inquinamento, e che anche i figli delle élites del paese cominciano a subirne direttamente gli effetti. Forse non sarà necessario rallentare il treno dello sviluppo industriale, ma una progressiva conversione dal carbone ad altre forme di energia più sostenibili è già oggi una prospettiva ineludibile.

E lo stesso discorso potrebbe valere l’India.

 

Luca Marchesini

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In Cina continua l’emergenza inquinamento

Asia di

Il vertice Cop21 di Parigi sul clima volge al termine e i delegati lavorano febbrilmente per trovare un accordo conclusivo che non si risolva in una mera dichiarazione di intenti. La Cina è fortemente coinvolta nel dibattito, sospesa com’è tra le esigenze dello sviluppo industriale e la necessità di tagliare le emissioni ed i gas serra, per il bene del pianeta e dei suoi stessi cittadini.

La Cina, nonostante un certo rallentamento, cresce ancora a ritmo sostenuto ed alimenta il proprio sviluppo industriale con un elevatissimo consumo di carbone e di altri combustibili inquinanti. Lo scorso 2 dicembre, al vertice di Parigi, Pechino ha annunciato l’intenzione di ridurre drasticamente le principali emissioni inquinanti, nell’arco di 4 anni. Entro il 2020 dovranno essere tagliate del 60% e, nello stesso lasso di tempo, si prospetta una riduzione, a livello industriale, di 180 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno. Resta da capire cosa la Cina intenda per “principali sostanze inquinanti” e se, tra queste, verranno inseriti anche i gas serra. Al di là dello scetticismo manifestato da alcuni, sembra che Pechino voglia ridisegnare il suo modello si crescita, riducendo l’uso di carbone e puntando maggiormente su forme di energia pulita e rinnovabile.

La questione ambientale non riguarda solo il futuro prossimo del paese. Anche il presente è pesantemente coinvolto, perché l’inquinamento dell’aria ha già raggiunto livelli decisamente allarmanti sia a Pechino che nelle altre grandi città della Cina. Ad inizio settimana nella Capitale è scattato l’allarme rosso, dopo che si erano registrati livelli di smog di gran lunga superiori ai limiti consentiti, con ricadute nocive per la salute dei cittadini. Le misure di emergenza, che prevedevano la chiusura delle scuole e dei cantieri edili ed una netta riduzione della circolazione privata, si sono rivelati efficaci e il sole è tornato a fare la sua comparsa sui cieli a lungo oscurati della megalopoli. L’allarme rosso per ora è cessato, ma il problema è stato solo allontanato.

L’allerta inquinamento non riguarda la sola Pechino. Nelle grandi città della Cina settentrionale non sono state adottate misure di alcun tipo e decine di milioni di cittadini continuano a respirare aria estremamente tossica, con valori di nocività sono persino superiori a quelli che avevano portato alla paralisi della Capitale. Come riportato dal New York Times ad Anyang, nella provincia di Henan, l’indice di qualità dell’aria ha fatto segnare un valore di 999, tre volte più alto di quello registrato a Pechino ad inizio settimana. Nella città di Handan, nella provincia di Hebei, è andata leggermente meglio , con l’indicatore che si è fermato a 822. Per intenderci, un valore di 300, negli Stati Uniti, è già considerato pericoloso per la salute dell’uomo.

Buona parte dell’inquinamento che attanaglia Pechino non viene prodotto dai tubi di scarico delle auto, ma proviene dalle regioni del nord, dove per soddisfare il fabbisogno industriale vengono bruciati quotidianamente enormi quantitativi di carbone. Il governo centrale e le amministrazioni provinciali sono dunque chiamati ad intervenire tempestivamente per proteggere la salute dei loro cittadini, imponendo l’adozione di procedure di emergenza standardizzate, in tutte le regioni del paese, che coinvolgano anche i cantieri e le fabbriche.

Superata l’emergenza, si tratterà di capire rapidamente come conciliare le esigenze di uno sviluppo industriale che ha portato il PIL cinese a superare quello americano con gli imperativi della salute pubblica, in Cina e non solo. Gli impegni annunciati dalla delegazione cinese alla conferenza sul clima di Parigi sembrano un primo passo nella giusta direzione, ma ai proclami dovranno seguire azioni concrete. In tempi molto brevi.

Luca Marchesini
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