Libia: “Impossibile soluzione politica rapida”
La profanazione del cimitero italiano a Tripoli e il presunto confinamento di alcune imbarcazioni italiane nelle acque territoriali libiche. In questo scorcio di novembre, i rapporti diplomatici tra Italia e Libia hanno subito un brusco raffreddamento. Per trattare questi temi, European Affairs ha intervistato la dottoressa Giovanna Ortu, Presidente dell’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia, espulsa da Gheddafi, assieme ad altri 20mila connazionali, nel 1970.
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Dopo la devastazione del cimitero italiano in Libia, qual è stata la posizione assunta dal governo italiano? Avete ricevuto sostegno?
“Sono andata dal sottosegretario agli Esteri Mario Giro, con il quale avevo in programma un appuntamento già prima che accadesse questo episodio: ho trovato molta disponibilità ma anche preoccupazione circa il contesto creatosi in quel Paese. Nel frattempo, c’è stato anche il fallimento del mediatore ONU Bernardino Leon. La situazione tra le diverse fazioni si è ormai troppo incartata. Secondo me, il prolungarsi di questa dualità tra Tripoli e Tobruk ha aumentato le frizioni: se l’accordo, invece, fosse stato raggiunto prima, non ci sarebbe stato il tempo per i gheddafiani di riprendersi e per le altre organizzazioni di radicarsi sul territorio”.
Non è la prima volta che il cimitero italiano in Libia è stato vittima di azioni simili. L’ultimo caso risale al gennaio 2014. Crede che questi episodi siano mossi da un sentimento antitaliano o siano gesti politici premeditati?
“A mio parere, non sono fatti mossi da sentimento antitaliano. I fatti criminosi accaduti fino agli anni 2000, che poi ci indussero a restaurarlo nel 2004, sono collegabili alla microcriminalità. Anche l’episodio del gennaio 2014 o altri più recenti sono dello stesso tenore. Tuttavia, non posso giudicare se l’ultimo fatto sia di stampo politico. Quello che è certo è che già da diverso tempo la nostra associazione temeva che le devastazioni e i furti presso il sacrario italiano in Libia potessero divenire oggetto di strumentalizzazione politica”.
Il recente incidente diplomatico tra Italia e Libia è una chiara strategia internazionale atta a volere escludere il nostro Paese dal ruolo guida di un’eventuale azione militare sotto l’egida dell’Onu?
“In questo momento, noto una grande dicotomia tra il sentimento del popolo libico e chi intende speculare sulle divisioni interne per mettere in crisi i rapporti tra Italia e Libia che, in fondo, si erano rimessi sulla giusta strada nella fase finale della dittatura di Gheddafi. Mi chiedo: quanto tempo ci vorrà per ritornare a quella identità di sentimenti e vedute che ha caratterizzato gli ultimi 100 anni dei rapporti tra italiani e libici?
Tornando all’incidente diplomatico di qualche giorno fa, ritengo che, mentre tutti lodano Berlusconi per il trattato firmato con Gheddafi nel 2008 che sembrava così a favore dell’Italia, gli altri partner europei si siano ingelositi di quel rapporto tra Italia e Libia, dato che questo Paese è ricco dal punto di vista energetico e fonte di enormi commesse per il settore delle grandi opere. Quel trattato aveva tolto una fetta troppo grossa agli altri Stati europei. Comunque, non avrei mai creduto che i Paesi occidentali si lanciassero in una guerra, come accaduto nel 2011, senza avere un piano istituzionale ed economico postbellico”.
Lei che conosce il contesto sociale libico, crede che vi siano margini per la creazione di un governo di unità nazionale? Ormai la presenza dello Stato Islamico è radicalizzata: davvero questa organizzazione rispecchia la cultura religiosa del popolo libico?
“Sono molto pessimista per una soluzione positiva nel breve termine. Infatti, anche le analisi moderatamente ottimistiche fatte da esperti di geopolitica sono state smentite dai fatti. La Libia che conosco è quella di molti decenni fa. Tuttavia, nelle tre volte che ho avuto occasioni di tornare a Tripoli, i giovani incontrati erano pieni di sentimenti ma poco alfabetizzati e a contatto con il mondo esterno attraverso la televisione italiana. Quello che mi aveva colpito era stato il trovare donne che lavoravano nelle istituzioni e nei ministeri a volto scoperto. Però, non è possibile uscire da 40 anni di dittatura indenne. La popolazione, vulnerabile, è stata vittima di organizzazioni come il Daesh, insediatesi nel tessuto sociale libico”.
Giacomo Pratali
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