GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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ASIA PACIFICO - page 3

Un nuovo ordine internazionale

 

Russian President Vladimir Putin, right, and Chinese President Xi Jinping (AP Photo/Alexander Zemlianichenko)

Il 4 febbraio scorso, in occasione della cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici a Pechino, nella sede del China Aerospace Studies Institute, Cina e Russia hanno firmato una dichiarazione congiunta, denominata “Joint Statement of the Russian Federation and the People’s Republic of China on the International Relations Entering a New Era and the Global Sustainable Development”.

Il documento rappresenta un atto di profondo valore geopolitico, i cui elementi fondamentali sono stati recepiti in modo generico dall’opinione pubblica occidentale che ne ha superficialmente interpretato i contenuti riducendoli a un accordo, più o meno formale, tra Pechino e Mosca volto, principalmente, a esprimere il sostegno e il supporto reciproco tra i due Paesi in vista delle possibili azioni russe verso l’Ucraina.

Ma il fine del documento non è affatto questo! Se si scorre il testo ci si accorge subito che si tratta di un programma volto a porre le basi per l’affermazione di un nuovo ordine mondiale che soppianterebbe quello emerso al termine del Secondo Conflitto Mondiale e, soprattutto, quello che è stato sviluppato al termine della Guerra Fredda.

E l’intenzione programmatica non è affatto celata, ma, addirittura, apertamente esplicitata già nel titolo stesso, dove viene sottolineata l’inizio di un Nuova Era delle Relazioni Internazionali.

Il punto cardinale dell’intero documento è centrato sulla convinzione che la leadership mondiale dell’Occidente sia al tramonto e che quindi il sistema delle relazioni internazionali debba essere gestito impostando una nuova serie di regole.

Il contenuto del documento, lungo e articolato nel suo svolgimento, sottolinea la volontà dei due firmatari di partecipare in modo attivo e responsabile alla risoluzione delle molteplici problematiche di interesse globale (sviluppo economico, clima, sicurezza nucleare, cyber domain, controllo dello spazio), sottolineando l’importanza degli organismi internazionali (ONU in primis) e l’adesione ai valori universalmente riconosciuti (democrazia e diritti umani).

Da un punto di vista formale il documento è un capolavoro di diplomazia, in quanto esplicita le stesse idee e gli stessi propositi formali che contraddistinguono il concetto di relazioni internazionali dell’Occidente (convivenza pacifica, reciproco rispetto, collaborazione internazionale); li propone in termini assolutamente condivisibili e, soprattutto, tocca e ribadisce l’assoluto rispetto e la convinta adesione agli stessi ideali – la democrazia e i diritti umani – che hanno rappresentato i criteri fondamentali del sistema di valori sviluppato nel secondo dopoguerra.

Anzi, nel sostenere la loro tesi Russia e Cina si identificano come i veri rappresentati della democrazia e dei diritti umani.

In generale, quindi, il documento espone dei concetti pienamente condivisibili e assolutamente non nuovi, ribadendo la centralità delle Organizzazioni Internazionali quali elementi di sviluppo e di stabilità.

Se però si legge con attenzione il testo ci sono una serie di indizi che preludono all’atto finale di accusa rivolto contro gli Stati Uniti e contro tutto l’Occidente. Già nelle prime righe si afferma che la democrazia è un valore universale dell’umanità e non un privilegio di un limitato numero di Stati (Cap I “…the democracy is a universal human value, raher than a privilege of a limited number of State…”).

Immediatamente dopo viene esplicitato il concetto su cosa sia la democrazia definendola come il mezzo attraverso il quale i cittadini partecipano al bene comune e all’implementazione del concetto di governo popolare. La democrazia è quindi esercitata in tutte le sfere della vita pubblica e ha come scopo il soddisfacimento delle necessità del popolo, garantendone i diritti e salvaguardandone gli interessi. A questo concetto, condivisibile nella sua generalità, ne fa seguito un altro che, invece, rappresenta il vero paradigma ideologico che il documento sostiene.

Non esiste un tipo di formato la cui validità sia generale per indirizzare i Paesi verso la democrazia (Cap. I “There is no-size-fits-all template to guide countries in establishing democracy”) e dipende solamente dalla popolazione decidere se il proprio Paese è uno Stato democratico (Cap I “It is only up to the people of the country to decide wheter their State is a democratic one.”).

A questa serie di affermazioni fa da corollario il concetto che il tentativo di certi Stati di imporre il loro standard di democrazia, monopolizzando, a loro favore, un concetto universale e stabilendo alleanze esclusive finalizzate al conseguimento di una egemonia ideologica, costituisca una minaccia totale e pericolosa per la stabilità dell’ordine mondiale stesso (Cap. I “Certain States’ attempts to impose their own democratic standards…….undermine the stability of the world order.”).

L’atto introduttivo completa il presupposto ideologico con l’affermazione che il sostegno della democrazia e dei diritti umani non devono essere usati come strumento di pressione nei rapporti internazionali.

A tale proposito Russia e Cina si oppongono all’abuso dei valori democratici e al sostegno della democrazia e dei diritti umani come pretesto per l’ingerenza negli affari interni di uno Stato, chiedendo invece, il rispetto delle differenze culturali e delle differenze degli Stati, concludendo che è interesse dei firmatari promuovere una reale democrazia (Cap. I “They oppose the abuse of democratic values ……interference in internal affairs of sovereign states…..to promote genuine democracy.”).

Fatta questa premessa di carattere ideologico è nel terzo punto del documento che Cina e Russia sviluppano il loro concetto di ordine caratterizzato dai seguenti principi:

  • dichiarazione di mutuo supporto per la protezione dei loro interessi fondamentali, integrità della loro sovranità e opposizione a ogni forma di interferenza nei loro affari interni;
  • completo supporto di Mosca al principio di una sola Cina e opposizione a ogni forma di indipendenza di Taiwan;
  • contrasto di ogni tentativo da parte di Stati esterni di alterare la stabilità delle regioni di interesse e di interferire negli affari interni delle nazioni sovrane e opposizione a ogni forma di rivoluzione di qualsiasi colore.

Il testo prosegue con l’affermazione che certi Stati, certe alleanze politico militari e certe coalizioni sono ritenute responsabili di ricercare vantaggi a detrimento della sicurezza generale, stimolando rivalità e instabilità a detrimento dell’ordine pacifico. Vengono citate sia la NATO sia la AKUS quali elementi di instabilità regionale. i cui fini sono in netto contrasto, invece, con le organizzazioni promosse dalla Cina e dalla Russia.

L’affondo conclusivo evidenzia la visione degli interessi specifici di Pechino e di Mosca in merito agli scacchieri geopolitici di riferimento:

  • condanna della politica degli Stati Uniti nello scacchiere indo-pacifico, in quanto ritenuta responsabile di produrre effetti negativi sulla pace e sulla stabilità della regione;
  • supporto e condivisione da parte della Cina alle proposte avanzate dalla Russia, per dare vita ad accordi legalmente astringenti che consentano di creare delle condizioni di sicurezza durevoli in Europa.

Il documento, quindi, presenta una nuova interpretazione dei valori su cui l’Occidente basa la sua concezione filosofico-morale: la democrazia e i diritti umani non rappresentano più due concetti oggettivi ma devono essere intesi soggettivamente, a seconda delle situazioni, delle popolazioni che li devono applicare e degli Stati che ne devono salvaguardare l’applicazione. In sintesi, i valori non sono assoluti ma variano a seconda della percezione dei singoli Stati!

Con questo documento la Cina, soprattutto, ha deciso di proporsi, formalmente, come l’alternativa a un Occidente ormai ritenuto in declino, sostituendosi agli Stati Uniti come campione di valori e modelli universali. Per questo motivo ha cooptato la Russia, offrendo i termini di un accordo politico di mutuo sostegno e di cooperazione ad ampio spettro, facendo leva sulla ambizione di Mosca di riprendere il ruolo di grande potenza del quale si ritiene, ingiustamente, spodestata dall’Occidente.

Le implicazioni che derivano da questo documento sono praticamente dirompenti e volte a stravolgere il complesso delle relazioni internazionali così come concepito.

Il documento, infatti, sostiene la creazione di un sistema dove alla popolazione viene riconosciuto primariamente il diritto a poter beneficiare di un livello di sviluppo economico e sociale, ma dove libertà e interessi individuali si sfumano sino a scomparire quando sono considerati un ostacolo per la solidità e la sicurezza del sistema di governo. E perché questo modello funzioni non c’è spazio per la visione di democrazia che l’Occidente si ostina a voler imporre.

Se un tale sistema può, difficilmente, suscitare un proselitismo in Occidente, dove democrazia e rispetto dei diritti umani sono valori radicati e pienamente condivisi, vi sono tuttavia alcune tipologie di regimi che possono aderire e supportare una tale impostazione dell’ordine mondiale.

Il primo e, forse, più importante scacchiere a cui è indirizzata una tale interpretazione di un nuovo corso delle relazioni internazionali è senz’altro l’area mediorientale e nordafricana (MENA), dove la Cina è attiva da parecchio tempo. I contenuti del documento, infatti, possono costituire un’alternativa ideologica valida per gli Stati dell’area che indipendentemente dalla loro forma di governo (repubbliche nazionaliste, monarchie e regimi religiosi) potrebbero sicuramente trovare nella formula proposta del conseguimento di un benessere sociale e di uno sviluppo economico elevato, conseguenza di uno Stato autoritario, la risposta ideale alla pretesa occidentale di imporre valori che, considerati in senso assoluto universali, non tengono conto della necessità di un’applicazione soggettiva e in linea con il mantenimento primario di una formula autoritaria di Governo.

A questo punto, non è solo un sistema di valori che viene messo in discussione dal documento, ma l’intero impianto geopolitico che è stato creato dalle due guerre mondiali.

L’Occidente ha il dovere di rispondere e di sostenere i valori universali che sono i pilastri della nostra civiltà accettando la sfida e sostenendo la sua posizione, iniziando proprio da quello scacchiere del quale l’Europa è parte integrante: il Mediterraneo, l’Africa del Nord e il Medioriente.

 

Crisi ucraina: posizione “ambigua” della Cina

ASIA PACIFICO/EST EUROPA/EUROPA di

“Le parole sono importanti” ammoniva Nanni Moretti in uno dei suoi più celebri film, Palombella Rossa.  Sicuramente sarà dello stesso avviso il Ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, che non è certo un tipo che rilascia dichiarazioni senza prima aver pesato attentamente le parole. Se non fosse per una delle ultime comunicazioni che ha rilasciato in merito al conflitto in Ucraina. << La situazione è cambiata rapidamente, la Cina DEPLORA lo scoppia del conflitto tra Ucraina e Russia ed è estremamente preoccupata per i danni ai civili>>. Quel “deplora”, infatti, nel giro di poche ore si è prontamente trasformato in più neutro “lamenta. Sì, certamente si tratta di una sfumatura, una sfumatura che però la dice lunga sulla difficile situazione in cui si trova Pechino da dopo lo scoppio di questo conflitto. Il Partito Comunista Cinese, infatti, sembra stia giocando la parte del funambolo nel tentativo di: nè abbandonare un alleato importantissimo come la Russia né di tagliare definitivamente con l’Occidente. Dunque, in mezzo a questi equilibrismi rimane molto difficile capire che posizione prenderà in merito alla questione ucraina il Dragone. Dragone che potenzialmente avrebbe tutte le carte in regola per accontentare le richieste del ministro degli esteri ucraino, Dmytro Kuleba, il quale sta, incessantemente, chiedendo a Pechino di usare la sua influenza diplomatica con il Cremlino per mettere la parola fine alla guerra che sta devastando il suo Paese.

Anche se, quantomeno, qualcosa sembra smuoversi all’interno del PCC che per la prima volta ha parlato di “guerra” ed ha invitato la Russia a trovare un accordo attraverso i negoziati mostrandosi disponibile a sostenere tutti gli sforzi internazionali possibili al fine di trovare una soluzione politica al conflitto. Tuttavia, continua a rimanere inflessibile sulla posizione secondo la quale << la sicurezza di un Paese non dovrebbe essere a scapito della sicurezza di altri, e ancor meno la sicurezza regionale dovrebbe essere garantita rafforzando o addirittura espandendo i blocchi militari (Nato su tutti) >>.

Quel che è certo, come sostiene anche il ministro Kuleba, è che se si vuole trovare una soluzione diplomatica a questo conflitto bisognerà sedersi allo stesso tavolo dei cinesi e cercare di trovare una soluzione con loro, in quanto sono i soli che, minacciando sanzioni economiche alla Russia, proprio come ha fatto l’occidente, potrebbero chiudere Putin all’interno di una via che non avrebbe altra via di uscita se non la resa. Rimane da capire se anche Pechino sia disposto a sedersi al tavolo con l’Occidente per imporre un “cessate il fuoco”, per ora, infatti, ancora non si dice disponibile a mediare. L’impressione è che, sicuramente, ancora per un po’ il Dragone continuerà a giocare la parte del funambolo per avere più potere contrattuale possibile fino a quando riterrà che sarà arrivato il momento di trattare.

 

Una conferenza della Resistenza Iraniana espone le unità navali per procura della forza Quds dei Passdaran

ASIA PACIFICO di

Il 2 febbraio, attraverso il suo ufficio di Washington, il Consiglio Nazionale della Resistenza dell’Iran (CNRI) ha reso pubbliche le sue ultime rivelazioni sulla più recente strategia del regime iraniano e di un suo braccio terroristico, l’unità navale della Forza Quds delle Guardie Rivoluzionarie; ha fornito dettagli sulla sua missione e sulle sue basi e ha indicato il modo migliore per affrontarlo.

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Vulcano Tonga e tsunami: i bisogni umanitari rischiano di essere enormi. Save the Children è in prima linea.

ASIA PACIFICO di

Vulcano Tonga e successivo tsunami. I bisogni umanitari rischiano di essere enormi. Save the Children, preoccupata per le sorti dei minori, è pronta a intervenire.

Questo l’allarme di Save the Children, l’Organizzazione internazionale che da oltre 100 anni lotta per salvare le bambine e i bambini a rischio e garantire loro un futuro.

A causa dell’eruzione del vulcano Hunga Tonga avvenuta il 14 gennaio 2022 e del conseguente tsunami, Save the Children teme per i rischi sulla salute di migliaia di minori ed è pronta a intervenire e mettendo a disposizione il proprio programma per l’apprendimento a distanza nelle isole più remote. Implementerà, in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, un programma di apprendimento a distanza utilizzando la tecnologia per raggiungere le isole periferiche e le popolazioni remote. I partner dell’Organizzazione sono pronti ad attivare questo servizio, noto come Hama eLearning Platform, per supportare l’istruzione e la formazione come risposta alle emergenze. Leggi Tutto

Myanmar, Save the Children: più di 5 milioni di bambini potrebbero aver bisogno di aiuti salvavita per sopravvivere

ASIA PACIFICO di

L’accesso alla sanità e all’istruzione è estremamente limitato e milioni di minori corrono il rischio di soffrire la fame. Secondo dati delle Nazioni Unite il Myanmar è tra i primi 10 Paesi ad aver maggior bisogno di aiuti umanitari a livello globale. L’Organizzazione chiede sostegno finanziario alla comunità internazionale per garantire che il peggioramento della situazione nel Paese non abbia un impatto permanente su un’intera generazione di bambini

Più di 5 milioni di bambini in Myanmar[1], pari a uno su tre, potrebbero aver bisogno di aiuti umanitari salvavita per sopravvivere il prossimo anno, secondo un’analisi dei dati delle Nazioni Unite, con l’urgente necessità di accesso alle organizzazioni umanitarie. Lo afferma Save the Children – l’Organizzazione internazionale che da oltre 100 anni lotta per salvare le bambine e i bambini a rischio e garantire loro un futuro.

Nuovi dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) prevedono che più di 14 milioni di persone su una popolazione di 54 milioni in Myanmar potrebbero aver bisogno nel 2022, rispetto a 1 milione di quest’anno, ma l’ultima valutazione considera aree precedentemente non incluse.

Il Myanmar è tra i primi 10 Paesi elencati tra quelli aventi il maggior bisogno di aiuti umanitari a livello globale, appena dietro quattro Paesi tra cui la Repubblica Democratica del Congo, che si prevede avrà il maggior numero di persone bisognose il prossimo anno, pari a 27 milioni.

L’escalation del conflitto, le turbolenze politiche ed economiche in corso e la pandemia di COVID-19 sono state devastanti per i bambini in Myanmar. L’accesso alla sanità e all’istruzione è estremamente limitato e milioni di minori corrono il rischio di soffrire la fame.

Dal 1° febbraio circa 234.000 persone, tra cui quasi 87.000 bambini, sono state costrette ad abbandonare le proprie case. Molti di loro vivono nella giungla in tende di fortuna senza cibo o medicine e l’accesso delle organizzazioni umanitarie per raggiungerli è limitato, secondo Save the Children.

L’Organizzazione chiede un maggiore sostegno finanziario da parte della comunità internazionale per garantire che il peggioramento della situazione del Paese non abbia un impatto permanente su un’intera generazione di bambini del Myanmar negli anni a venire. Vuole anche vedere passi concreti perché aumenti l’accesso delle organizzazioni umanitarie, in grado di fornire aiuti salvavita a chi ne ha bisogno.

“La situazione sta diventando sempre più disperata. Il Myanmar aveva già un numero enorme di bambini che vivevano in povertà, ma mentre le famiglie lottano per sopravvivere, altri milioni di bambini vengono lasciati affamati e indigenti. Non c’è dubbio sulla portata di questa emergenza o sul fatto che continuerà a peggiorare senza un’azione urgente. L’unica domanda che abbiamo è come risponderanno coloro che contribuiscono alla crisi e coloro che possono fare la differenza. Sono fondamentali finanziamenti, accesso alle organizzazioni umanitarie e misure per portare pace e sicurezza nella vita dei bambini fin dalle prossime settimane. Se non agiamo ora, il numero di bambini che necessitano di assistenza salvavita continuerà ad aumentare” ha dichiarato un portavoce di Save the Children.

In quanto organizzazione umanitaria indipendente, imparziale e neutrale, Save the Children è impegnata a rispondere all’emergenza in rapido deterioramento in Myanmar. Insieme ai partner locali nel Paese, fornisce assistenza alimentare e beni di prima necessità alle famiglie che ne hanno più bisogno, servizi sanitari e nutrizionali salvavita, oltre a supportare l’apprendimento e a offrire un sostegno cruciale per la salute mentale.

Russia tra elezioni, pressione mediatica e società civile: report da Mosca e San Pietroburgo

ASIA PACIFICO di

di Silvia Boltuc

Mosca e San Pietroburgo – Si sono concluse il 19 settembre 2021 le elezioni in Russia dopo tre lunghi giorni di votazioni che hanno visto un’affluenza pari al 51,27% degli elettori e una organizzazione imponente dovuta all’emergenza sanitaria del Covid-19 e alla necessità dell’autorità russe di garantire la legittimità e trasparenza del processo elettorale attraverso la realizzazione di un sistema di sicurezza caratterizzato dall’installazione di telecamere video nei seggi elettorali e dal voto elettronico.

La vittoria di Edinaya Rossiya (Russia Unita) con il 49% dei voti alle elezioni della Duma di Stato della Federazione Russa conferma la leadership nazionale del partito di Vladimir Putin con una leggera flessione e l’ascesa di Kommunisticheskaya Partya Rossiyskoy Federatsiy (Partito Comunista della Federazione Russa) con circa il 19% delle preferenze. Ad oggi è chiaro che nella Duma di Stato saranno rappresentati non solo i membri di Russia Unita e del Partito Comunista, ma anche quelli di Liberal’no-Demokraticheskaya Partya Rossiy LDPR (Partito Liberale Democratico), Spravedlivaya Rossiya – za Pravdu (Russia giusta – per la verità) e Noviye Lyudi (Nuovo Popolo) fornendo così una configurazione eterogenea e plurale a livello politico.

A fare da cornice alla rinnovata leadership di Russia Unita un clima internazionale caratterizzato da grande attenzione e pressione mediatica nei confronti del Cremlino a seguito di un anno influenzato dal caso Navalny, dal confronto tra Mosca e Bruxelles per il vaccino Sputnik V e dalla decisione dell’OSCE di non inviare i propri osservatori in Russia (Russia ed Europa sempre più distanti: il caso OSCE).

Parlando del processo elettorale, dopo una visita in loco durante tutti e tre i giorni delle votazioni, è apparso chiaro come le autorità russe abbiano affrontato uno sforzo gigantesco per garantire la sicurezza degli elettori attraverso il controllo della temperatura e l’obbligo di indossare le mascherine e i guanti fatto da parte dei membri dei seggi muniti di camici sterilizzati, l’innalzamento degli standard di sicurezza e trasparenza del processo elettorale garantito dall’installazione di telecamere e dalla presenza delle forze dell’ordine, l’attivazione di un numero telefonico dedicato al quale ogni cittadino russo poteva riportare problemi o irregolarità, e la presenza in loco di membri dei partiti politici e delle associazioni come osservatori.

A fronte di questa organizzazione occorre, però, rilevare diverse polemiche sorte sia prima che durante e dopo le votazioni sul processo elettorale russo: secondo quanto traspare dagli incontri avuti con i membri della Commissione elettorale russa di Mosca e San Pietroburgo la guerra dell’informazione ha completamente influenzato le votazioni per i membri della Duma di Stato attraverso la diffusione di fake news e la creazione di un clima di ostilità più utile per le strategie geopolitiche di alcuni attori stranieri piuttosto che per garantire il diritto al voto e alle elezioni regolari per la popolazione russa.

Di interesse internazionale è stata anche la prima conferenza scientifica “Il ruolo della società civile nel garantire gli standard democratici per l’organizzazione e lo svolgimento delle elezioni” organizzata dalla Camera della Società Civile della Federazione Russa e dall’Associazione russa dei politologi dal 14 al 15 settembre 2021 presso l’Università Statale di Mosca Lomonosov che ha richiamato ricercatori, politici, esperti e giornalisti da tutto il mondo e ha preceduto proprio le elezioni. Conferenza che ha visto esperti russi e stranieri discutere diverse tematiche inerenti il processo elettorale focalizzando l’attenzione sul ruolo che le nuove tecnologie possono avere per garantire e monitorare la legittimità e trasparenza delle votazioni così come il peso che giocano i media e i social network nell’influenzare l’elettorato e la percezione nazionale e globale su determinate elezioni. È proprio in questa ottica che diversi ricercatori e giornalisti internazionali intervenuti all’evento hanno posto in risalto il peso della comunicazione strategica e della guerra dell’informazione sulle votazioni in Russia focalizzandosi su come la forte pressione mediatica che dal caso Navalny in poi ha interessato la Federazione Russa sia stata organizzata per delegittimare il processo elettorale russo e promuovere strategie di diversi attori internazionali interessati a indebolire l’autorità del Cremlino nel proprio paese.

Rumors mediatici, polemiche, accuse varie confermano ancora una volta, però, quanto la Russia sia un attore geopolitico di primaria importanza strategica a tal punto che ogni evento riguardante la sua politica interna ha la capacità di monopolizzare l’attenzione degli organi di informazione internazionali e di attrarre gli interessi di diversi attori pronti a elaborare strategie volte a contrastare il Cremlino sullo scacchiere geopolitico internazionale tramite lo sfruttamento della comunicazione strategica.

 

La Corea del Sud corre ai ripari contro i cambiamenti climatici

ASIA PACIFICO di

Dopo la vittoria elettorale del Partito Democratico della Corea del Sud, il presidente Moon Jae-in ha ridato impulso all’agenda sui cambiamenti climatici, messa in discussione durante il periodo di crisi.

Il presidente ha infatti approvato la politica sui cambiamenti climatici, soprannominata Green New Deal della Corea del Sud, grazie alla fiducia ottenuta dal governo nel mese di marzo.  

Dal nome fortemente evocativo, il “Green New Deal” si ispira alle politiche di lotta al cambiamento climatico dell’Europa e degli Stati Uniti per un’agenda trasformativa verso la sostenibilità ambientale.

Il piano d’azione annunciato dal governo include un investimento su larga scala nelle energie rinnovabili, l’eliminazione graduale delle attività inquinanti e dei finanziamenti sul carbone, una nuova tassa sull’anidride carbonica e un obiettivo di emissioni nette pari a zero entro il 2050.

Questi obiettivi ambiziosi si scontrano tuttavia con una realtà molto meno affascinante. Il paese infatti è attualmente il nono più grande inquinatore di anidride carbonica al mondo, con emissioni di Co2 pari a 11,98 tonnellate per capita (sulla base di una popolazione di 51.225.308 nel 2019), in aumento dello 0,28 rispetto alle 11,70 tonnellate di CO2 registrate nel 2015. *

Nonostante l’impulso verso un’economia più verde, la Corea del Sud non ha ancora aggiornato i suoi sistemi energetici, che fanno affidamento in grande misura sul carbone per circa il 44 per cento del suo fabbisogno energetico attuale. Il settore delle rinnovabili non nucleari, compresi l’eolico e il solare, è sottosviluppato e ha rappresentato meno del 2% della produzione nel 2018.

Le nuove politiche messe in campo dal governo dovranno dunque confrontarsi con infrastrutture e sistemi di produzione di energia rinnovabile inesistenti o arretrati. Peraltro, anche la normativa alla base delle modifiche nel settore energetico, dovrà essere sviluppata e approfondita.

“Raggiungere questi obiettivi per la Corea del Sud sarà un compito più impegnativo rispetto a molte altre nazioni che hanno avviato già da tempo modifiche simili alla loro produzione di energia”, commenta Melissa Brown, direttore di Energy Finance Studies, presso lo Institute for Energy Economics and Financial Analysis.

Gli obiettivi attuali della Corea del Sud nell’ambito dell’accordo di Parigi si incentrano su una riduzione del 37% delle emissioni entro il 2030. Si tratta però di un impegno considerato “altamente insufficiente” (Climate Action Tracker, un consorzio indipendente che segue l’azione del governo sul clima), se si considera che il paese è il quinto importatore di carbone al mondo e il terzo investitore pubblico nelle centrali a carbone d’oltremare.

Brown afferma che le potenti imprese statali della Corea del Sud – in particolare la Korea Electric Power Corporation (KEPCO), che domina il settore energetico nazionale – non hanno saputo recepire i nuovi trend dei mercati energetici globali, che hanno visto l’eliminazione graduale dei combustibili fossili e l’accelerazione del ritiro di alcune vecchie centrali a carbone. Le vecchie infrastrutture sudcoreane sono ora a rischio di non essere redditizie o di essere dismesse anticipatamente a causa della diversificazione del mercato.

“Accecate dagli enormi ed entusiasmanti cambiamenti tecnologici, le imprese statali non li hanno saputi adattare alle nuove politiche ambientali, e ora si trovano a dover agire velocemente per non essere lasciate indietro.” continua Brown.

Intanto ad essere davvero cambiato in Asia è la percezione dei pericoli climatici. L’Asia non solo non è la regione del negazionismo climatico, ma le persone che vivono ogni giorno le conseguenze di alte concentrazioni di Co2, si sono espresse calorosamente durante le elezioni per un futuro più pulito e più verde.

Ciò avrebbe incoraggiato l’amministrazione Moon ad intraprendere azioni significative e riformatrici nel settore. Infatti, nonostante i persistenti problemi economici della crisi COVID-19, l’agenda del governo non può più ignorare le richieste dei cittadini, non dopo che un’affluenza record di elettori gli ha conferito una rara maggioranza in parlamento.

*http://www.globalcarbonatlas.org/en/CO2-emissions

Gli Stati Uniti e il Giappone si preparano all’invasione cinese di Taiwan

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Il 16 marzo a Tokyo si è svolto un incontro tra il segretario alla Difesa USA, Lloyd Austin, e la controparte giapponese, Nobuo Kishi, i quali hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in merito alla sicurezza dello Stretto di Taiwan. I due capi della Difesa hanno infatti sollevato la questione di una possibile occupazione da parte della Cina dell’isola di Taiwan, da sempre considerata parte integrante del territorio cinese.

Secondo diversi alti funzionari della difesa statunitense, occupare Taiwan rappresenterebbe la priorità “numero uno” per il governo cinese a causa della posizione strategica dell’isola, ma anche perché “è in gioco il ringiovanimento del Partito Comunista Cinese”.

Tali timori sembrano peraltro giustificati dal tono minaccioso dei media statali cinesi e dal numero crescente di missioni aeree nella zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan.

D’altro canto, altri esperti ritengono che la valutazione della minaccia cinese elaborata dalle forze armate statunitensi possa invece essere il riflesso del deterioramento delle relazioni sino-statunitensi nel contesto della competizione strategica tra i due paesi.

Bonnie Glaser, direttrice del China Power Project presso il Center for Strategic and International Studies (CSIS), ritiene infatti che le osservazioni sulla sicurezza di Taiwan non si basano sull’intelligence ma su un’analisi dell’equilibrio militare tra Stati Uniti e Cina.

Peraltro, la Cina aveva già intensificato le sue attività militari intorno all’isola quando Tsai Ing-wen è stato eletto presidente di Taiwan per la prima volta nel 2016.

Dal suo insediamento, Tsai ha professato una politica a favore del mantenimento dello status quo, che però all’estero è associata a una spinta per un’identità taiwanese unica, separata dai suoi legami storici con la Cina. Infatti, mentre i funzionari di Washington lanciano l’allarme su una potenziale invasione cinese di Taiwan, i funzionari e gli abitanti dell’isola credono che piuttosto che iniziare una guerra, Pechino preferirebbe invece “sottomettere il nemico senza combattere”, come insegna l’antico generale e stratega militare cinese Sun Tzu.

“Solo perché Pechino sta manifestando la sua forza militare,” dicono molti taiwanesi, “non significa che abbia intenzione di andare fino in fondo.”

Intanto Taiwan ha modernizzato le sue forze armate, compreso lo sviluppo di nuovi sottomarini e navi da guerra, veicoli blindati e aerei militari, acquistando miliardi di dollari in armi dagli Stati Uniti.

Alla luce di ciò, il Giappone e gli Stati Uniti hanno annunciato nella dichiarazione del 16 Marzo sostegno reciproco nel caso di un’aggressione cinese contro Taiwan, senza specificare il modo in cui i due paesi dovrebbero coordinare la loro risposta di fronte a una tale emergenza.

È storicamente risaputo infatti che la politica del Giappone sulle relazioni Cina-Taiwan è sempre stata quella di astenersi dall’interferire nei loro rapporti, incoraggiando il dialogo per una soluzione pacifica delle tensioni. Resta da vedere come questa politica si sposerà con quella americana.

 

Le pressioni cinesi su Taiwan

Non si può negare che la Cina abbia aumentato la sua influenza su Taiwan, e questa non ha solo carattere militare, ma anche economico. A febbraio, ad esempio, la Cina ha interrotto le importazioni di ananas taiwanesi, affermando che erano stati scoperti organismi nocivi. Solo lo scorso anno il mercato cinese ha rappresentato oltre il 90% delle esportazioni di ananas di Taiwan.

Il presidente Tsai Ing-wen, sostenuto sui social media da Stati Uniti e Canada, ha lanciato una campagna mediatica per acquistare il frutto, nel tentativo di aiutare gli agricoltori e trasformare una potenziale crisi in una vittoria nelle relazioni pubbliche.

Nel frattempo, i rappresentanti dei coltivatori sostengono che il recente divieto di ananas non sia altro che un promemoria del fatto che Taiwan debba ridurre la sua dipendenza economica dalla Cina.

Intanto la Cina si prepara a festeggiare il suo 100 ° anniversario a luglio e terrà il suo 20 ° congresso alla fine del 2022, quando si prevede che Xi Jinping richiederà un terzo mandato senza precedenti. L’occasione, contrassegnata come sempre da discussioni in merito alle ambizioni autocratiche del presidente, potrebbe rendere la minaccia meno acuta.

“Un’invasione totale può portare enormi incertezze e complicare i suoi programmi politici”, riferisce un ex funzionario cinese. Più probabile un intensificarsi della pressione economica di Pechino sull’isola, piuttosto che dar seguito alle minacce militari.

Roberta Ciampo
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