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Donbass: violata la tregua di natale si continua a combattere

EUROPA di

Mercoledì 20 dicembre 2017 il Gruppo di Contatto Trilaterale, composto dai rappresentanti di Ucraina, Russia e OSCE (rispettivamente Leonid Kuchma, Mikhail Zurabov e Heidi Tagliavini) hanno raggiunto un accordo per il ripristino di un cessate il fuoco da tenersi durante le vacanze natalizie e di Capodanno. La tregua, nota come “Christmas Truce”, sarebbe entrata in vigore il 23 dicembre a partire da mezzanotte.

Ciononostante si sono registrate numerose violazioni del cessate il fuoco da parte dei militanti russi nella zona ATO (che sta per Anti-Terrorist Operation Zone), già a partire dalla prima giornata di tregua. Il servizio stampa del Quartier Generale del Conflitto nel Donbass ha registrato sulla pagina Facebook tre attacchi da parte dei militanti russi alle Forze Armate ucraine nel corso della giornata di sabato 23 dicembre. I militanti avrebbero aperto il fuoco con mortai da 82 mm, lanciagranate e armi di artiglieria pesante.

Successivamente, fino a lunedì 25 dicembre non si sono registrate ulteriori violazioni del cessate il fuoco. Il sito Front News International riporta: “Oggi nella zona ATO, per la prima volta dopo l’entrata in vigore della tregua di Natale e Capodanno, non ci sono state violazioni del cessate il fuoco. Ma alle 19:00 i militanti hanno nuovamente violato il regime del silenzio. Ciò è stato segnalato nel centro stampa della sede dell’ATO. “Alle 18.00, lungo l’intera linea di demarcazione delle parti, non è stato registrato un solo bombardamento: verso le 19 i militanti hanno violato pesantemente gli accordi di Minsk, usando mortai da 120 mm sulle fortificazioni di difesa delle forze dell’ATO nel Pavlopol. Cinque minuti dopo, gli invasori sono stati liberati dall’insediamento “Sosnovskoye” temporaneamente occupato” riporta il rapporto. Il centro stampa ha osservato che le unità delle Forze armate dell’Ucraina nell’area di attuazione dell’ATO assicurano l’attuazione di tutte le misure per mantenere il regime di cessate il fuoco lungo l’intera linea di delimitazione delle parti e aderiscono rigorosamente agli accordi di Minsk.

Durante la giornata di mercoledi 27 dicembre, sempre nella zona ATO nel Donbass, i militanti della Repubblica Popolare del Donetsk e della Repubblica Popolare del Luhansk, nonostante la tregua, hanno sparato 6 volte sulle posizioni delle Forze armate dell’Ucraina, a seguito delle quali un soldato ucraino è stato ucciso, tre soldati sono rimasti gravemente feriti e due sono rimasti feriti. Il Centro Stampa dell’ATO dichiara “Nonostante gli accordi raggiunti a Minsk sulla tregua natalizia e di Capodanno, le truppe sostenute dalla Russia hanno continuato a violare il cessate il fuoco e hanno lanciato attacchi alle Forze armate dell’Ucraina, usando mortai e artiglieria proibiti”.

Il giorno successivo invece il Centro Stampa del Quartier Generale della ATO ha registrato 3 attacchi da parte dei militanti filo-russi.  “Nonostante gli accordi raggiunti a Minsk per la tregua di Natale e Capodanno, le forze di occupazione russe non hanno smesso di bombardare le posizioni delle Forze armate dell’Ucraina Oggi gli invasori hanno sparato tre colpi mirati nei punti di forza delle forze dell’ATO Tutte le violazioni del regime di cessate il fuoco hanno avuto luogo nella direzione di Donetsk “, afferma il rapporto. Presso la sede dell’ATO è stato notato che i militanti di Azov hanno provocato soldati ucraini per combattere lo scontro vicino a Pavlopol.

“All’inizio il nemico ha sparato con mitragliatrici di grosso calibro e armi di piccolo calibro, e poi ha aumentato la pressione con cinque mine da 82 mm e diverse lanciagranate. Inoltre, nella periferia di Krasnogorovka, il nemico ha violato la tregua con l’utilizzo i armi leggere “, ha aggiunto il centro stampa. In altre parti della difesa ucraina non sono state registrate violazioni del cessate il fuoco. I soldati ucraini non hanno aperto il fuoco in risposta.

Le violazioni del cessate il fuoco sono dunque numerose, e sembrano non vedere la fine.

Secondo quanto riportato dal rapporto del 5 gennaio 2018 della Missione Speciale di Monitoraggio dell’Ucraina dell’OSCE (OSCE SMM), sono avvenute 131 esplosioni nella zona ATO durante la sola giornata del 4 gennaio.

La situazione nel Donbass, dunque, è ancora grave, e non sembra mostrare cenni di miglioramento.

Nonostante diverse nazioni, tra cui la Germania, la Francia e il Canada, si siano interessate alla questione e dichiarino di voler aiutare l’Ucraina con l’insediamento di una missione speciale di peacekeeping promossa dall’ONU, quest’ultima sembra essere ancora lontana.

La Guerra del Donbass, dunque, sembra prossima a compiere 4 anni dall’inizio del conflitto il 6 aprile 2014.

“Un mondo senza vaccini ?” il nuovo libro di Francesco Galassi

BOOKREPORTER di

Bookreporter intervista Francesco Galassi, dottore e Paleontologo. Nel mondo moderno il valore delle vaccinazioni è stato spesso messo in discussione e una gran messe di teorie pseudoscientifiche non supportate da dati incontrovertibili è continuamente presentata con il fine di evidenziarne la pericolosità.

Mentre il compito della divulgazione scientifica è quello di illustrare la verità della ricerca scientifica in termini accessibili da parte del pubblico più vasto possibile, la paleopatologia e la storia della medicina hanno il potere di richiamare alla memoria, dati e prove alla mano, la realtà del mondo prima delle vaccinazioni: un mondo caratterizzato da epidemie mortali, morti che la scienza moderna può tranquillamente evitare, capaci anche di scuotere le fondamenta di grandi imperi e società che si consideravano avanzate e solide.

Buona visione!

 

 

Bookreporter in Medio Oriente con Alberto Negri, inviato del Sole 24 Ore

BOOKREPORTER di

Il nostro ospite di oggi è Alberto Negri, grande esperto di Medio Oriente, di cui ce ne parlerà nella puntata di oggi. Inoltre, discuteremo sulla crisi del Golfo e sul rapporto tra Arabia Saudita e Qatar.

Aurora ci ha parlato del GCC (Gulf Cooperation Council) Il Consiglio per la cooperazione nel Golfo è stato istituito nel maggio del 1981 dai paesi arabi facenti parte del Golfo Persico: Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar e Kuwait. Il GCC aveva come obiettivo implicito anche quello di costituire un contro-bilanciamento alla crescente influenza iraniana sul mondo arabo.

Con Laura Laportella parleremo del Docufilm “Caschi Bianchi” un prodotto targato Netflix, racconta quella che è la straziante situazione in Siria, continuamente sotto bombardamenti. In questo docu-film, i “Caschi Bianchi” seguono l’operato di tre soccorritori volontari ad Aleppo, città siriana fra le più devastate dalla guerra e dai bombardamenti.

Buon ascolto!!!

 

La missione di Trump nel continente asiatico

AMERICHE di

Ad un anno dalla sua elezione il presidente americano affronta un viaggio cruciale per la politica estera statunitense.

Il 3 novembre scorso ha avuto inizio la visita ufficiale del presidente Trump nel continente asiatico. Secondo la nota rilasciata dalla Casa Bianca il giorno della partenza, questa visita: «sottolineerà il suo impegno nelle partnership e nelle alleanze di lunga durata degli Stati uniti, ribadendo la leadership degli Stati uniti nel promuovere una regione dell’Indo-Pacifico libera e aperta». La numerosa delegazione partita dagli Stati Uniti, ricca di investitori interessati al mercato asiatico, ha fatto tappa in Giappone, per poi spostarsi in Corea del Sud, in Cina, in Vietnam e infine visiterà le Filippine del tanto discusso presidente Duterte.

Il primo a ricevere Trump è stato il presidente Shinzo Abe, forte della sua recente riconferma a capo del governo giapponese. In primo piano naturalmente la questione Corea del Nord. Il presidente americano ha rinnovato il sostegno militare al paese alleato, d’accordo con le perentorie affermazioni di Shinzo Abe che vorrebbe una linea più dura e decisa contro la dittatura di Kim Jong un. “ È finito il tempo della pazienza strategica” ha affermato Trump, e ancora “Alcuni dicono che il mio linguaggio è forte ma guardate cos’è successo col linguaggio debole degli ultimi 25 anni. Guardate dove siamo ora”. I due presidenti hanno concordato l’invio in territorio nipponico di nuove forniture militari, principalmente scudi anti missili ma anche nuovi F- 35. La visita a Tokyo è stata anche l’occasione per siglare nuovi accordi commerciali, sui quali il presidente Trump ha voluto insistere visto il grosso attivo commerciale che il Giappone vanta sugli Usa.

Seul è stata la seconda tappa del viaggio. Anche in questo caso, una visita di due giorni per garantire sostegno e partecipazione all’alleato sudcoreano. Negli incontri con il presidente Moon Jae in, Donald Trump ha usato toni più pacati, dichiarando che gli Stati Uniti non hanno alcuna voglia di usare la forza per risolvere la questione Corea del Nord, e richiedendo, ancora una volta, un concreto intervento della Cina, ma anche della Russia, per fermare i piani nucleari di Kim Jong un. La visita Seoul è stata preceduta da numerose manifestazioni pro e contro il governo statunitense. I sostenitori chiedono maggiore fermezza e un intervento militare deciso contro la temuta Corea del Nord, i contestatori invece, chiedono che sia mantenuta la pace nel continente e che sia raggiunto un accordo attraverso la diplomazia.

La visita in Cina (denominata “state visit plus” per i grandi onori riservati agli ospiti americani) era la più attesa, certamente la più ricca di spunti politici. Il primo incontro tra Trump e Xi Jinping è avvenuto nella “Città Proibita”, lo storico palazzo degli imperatori, nel quale il presidente cinese, mai cosi saldamente al potere, ha fatto da anfitrione. Si è parlato di Corea del Nord ma anche di scambi commerciali. Per quanto riguarda la minaccia nucleare, Trump ha tentato di strappare alla Cina un impegno concreto per fermare le ambizioni nordcoreane. È chiaro che su questa questione gli Stati Uniti si giocano tutto in termini di credibilità di fronte agli alleati asiatici.

Per quanto riguarda invece gli scambi commerciali, il presidente americano ha ribadito con insistenza la necessità di diminuire il deficit nei confronti della Cina. Sono stati annunciati accordi per circa 250 miliardi di dollari, soprattutto nel settore energetico e in quello tecnologico. Novità anche nel settore degli investimenti finanziari sui quali, specialmente Goldman Sachs, puntava molto. Al termine della visita, nel suo discorso finale, Trump ha riservato parole di stima per il presidente Xi Jimping definendolo “un uomo veramente speciale” ringraziandolo della grande accoglienza riservatagli. Parole concilianti anche sugli scambi commerciali, per cancellare le precedenti accuse alla Cina di agire in modo scorretto sul mercato: “Questa situazione sbilanciata? Colpa di chi mi ha preceduto, non di Pechino”.

Due giorni fa, il presidente degli Stati Uniti ha raggiunto il Vietnam per la quarta tappa del suo viaggio asiatico. Trump ha preso parte al vertice  Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation), insieme agli altri leader regionali, tra cui anche il cinese Xi Jinping e il russo Putin.

Proprio l’accordo di libero scambio firmato dai paesi Apec ( il cosiddetto Trans Pacific Partnership) è lo stesso dal quale Trump ha dichiarato di voler svincolare gli Stati Uniti, poco dopo il suo insediamento. Il TPP andrà avanti con la leadership del Giappone, ma il summit tenutosi a Da Nang, è stato per Trump, l’occasione di ribadire la partecipazione attiva degli Stati Uniti alle vicende del continente asiatico, usando una nuova retorica capace al tempo stesso di far risuonare il suo slogan più conosciuto “America First”e di evitare che la scena venisse completamente rubata dal presidente Xi Jinping che proponeva in alternativa al protezionismo americano, un globalismo a guida cinese in grado di portare prosperità e pace, e soprattutto di assicurare alla Cina una posizione di potenza preminente dell’intero continente.

Come riportava la nota pubblicata dalla Casa Bianca, lo scopo del viaggio era quello di promuovere la libera e aperta regione dell’ Indo Pacifico”. Questo concetto, ribadito molte volte nei discorsi di Trump, è al centro della retorica americana che tenta di rassicurare i paesi asiatici tradizionalmente vicini agli Usa. Il continente viene appunto definito come “Indo Pacifico” per sottolineare l’asse strategico che gli Stati Uniti hanno in mente di fortificare con l’ausilio dell’India, primo concorrente della Cina in termini di crescita economica, e del Giappone da sempre stretto alleato militare. Questo asse strategico che potrebbe facilmente coinvolgere paesi come la Corea del Sud, le Filippine e l’Australia, dovrebbe rallentare l’ascesa cinese sia da un punto di vista economico commerciale che da un punto di vista politico militare. Ad esempio, va letto in questa ottica, il sostegno all’India in seguito alle tensioni sul confine indo – cinese.

Dunque, alleati più forti economicamente e militarmente, in modo da poter fronteggiare questioni come la Corea del Nord e i grandi piani commerciali cinesi, il Belt and Road su tutti. Sarà interessante capire quanta fiducia i paesi asiatici riserveranno a Trump, viste anche le beghe interne (calo dei consensi, “Russiagate) e quelle di politica estera che il governo deve affrontare.

Per concludere, il tanto atteso incontro tra Putin e Trump si è trasformato in una breve chiacchierata in cui i due presidenti hanno firmato una nota congiunta sulla Siria. Il documento concordato afferma la necessità di continuare la lotta contro l’Isis e la necessità di una soluzione diplomatica per la Siria attraverso i negoziati di Ginevra, in modo da incentivare la fine degli scontri militari. Inoltre è di poche ore fa, la notizia che tre portaerei nucleari americane hanno iniziato nuove esercitazioni al largo delle coste del Giappone.

 

 

Stati Generali della Croce Rossa Italiana, si discute del futuro

POLITICA di

A Roma la tre giorni della Croce Rossa Italiana per discutere di associazionismo, del futuro dell’organizzazione ma anche dei grandi temi discussi anche all’ONU sulla messa al bando del Nucleare e della sensibilizzazione dei governi sulle troppe morti tra i volontari operatori umanitari. Intervistiamo il Presidente Francesco Rocca e il Vice Presidente Rosario Valastro.

 

L’arma più terribile del momento: lo stupro

SICUREZZA di

La violenza sessuale è diventata in alcuni contesti una vera e propria arma e tattica di combattimento, rientrando così nella categoria dei crimini di guerra e contro l’umanità. A denunciarlo è il report pubblicato il 5 ottobre 2017 dall’ONG Human Rights Watch che, commentando le interviste in RCA del periodo 2015-2017, punta il dito contro i comandanti delle forze armate, colpevoli troppo spesso di aver tollerato se non ordinato le violenze a danno di civili. Precedentemente, nel contesto congolese, era stato il chirurgo D. Mukwege, soprannominato l’uomo che ripara le donne, a condannare quest’arma pericolosamente conveniente ed efficace che distrugge non solo le donne ma anche il tessuto sociale.

Nelle zone di conflitto, le battaglie si combattono sul corpo delle donne. Ad affermarlo è il ginecologo chirurgo D. Mukwege, fondatore e direttore dell’ospedale Panzi a Bukavu nella Repubblica Democratica del Congo. La guerra sembra connaturata in questa zona dell’est: oro, diamanti, coltan attirano vari interessi e armano gruppi ribelli senza scrupoli. Dal 1999, il dottore con il suo staff ha curato più di 50.000 vittime di violenza sessuale. Le cure fornite non riguardano soltanto l’ambito medico ma anche il campo psicosociale e legale.

È necessario sottolineare che, in Africa, le donne sono perno della famiglia e dell’economia. Colpire le donne e distruggerle fisicamente e psicologicamente significa quindi dilaniare il tessuto sociale ed economico e generare ulteriore povertà.

I violentatori vogliono punire e terrorizzare la popolazione civile, indurla a fuggire; il tutto tramite stupri collettivi e pubblici che a volte comprendono l’uso di oggetti contundenti, granate, vetri inseriti crudelmente nelle parti intime. Il dottore, vincitore del Premio Sacharov per la libertà di pensiero 2014, ha sottolineato in varie occasioni che i crimini in questione sono ben pianificati e mirano a mettere in fuga comunità intere.

Non si spiegherebbero altrimenti violenze sessuali così sistematiche di cui sono vittime donne di ogni fascia d’età, minori di entrambi i sessi e addirittura neonati.

Uno scenario simile è presente anche nella Repubblica Centrafricana come denuncia il report HRW. 5 anni di conflitto, 2 gruppi armati principali: i Seleka, di matrice musulmana, e gli Anti-balaka di stampo cristiano-animista.

Le interviste a 296 sopravvissute raccontano casi di stupro e di schiavitù sessuale a danno di ragazze e donne, di età compresa tra i 10 e i 75 anni, che abitano nella capitale Bangui e in altre città come Alindao, Bambari, Boda, Mbrès. Solitamente le vittime sono catturate mentre vanno a scuola o al mercato oppure nei campi dove lavorano.

Ma le violenze si consumano anche in casa, davanti ai mariti e ai figli, costretti a vedere il macabro spettacolo e torturati, mutilati, se non violentati a loro volta. I casi di stupro documentati dall’organizzazione sono 305 ma si tratta ovviamente di un numero indicativo e di una ricerca mirata: l’Onu, ad esempio, denunciò 2.500 casi di violenza sessuale in RCA solo nell’anno 2014.

Delle 296 intervistate solo 145 hanno ricevuto cure mediche adeguate: mancanza di ospedali, costi, paure di stigmatizzazione alla base di tale abbandono. Solo 66 hanno ricevuto un supporto psicologico. Tutte le altre affrontano da sole – perché spesso abbandonate dalla famiglia per la vergogna – gravidanze non desiderate, depressione, DPTS, HIV. I responsabili girano liberi per le città tra deboli istituzioni, pochi tribunali e polizia assente. Eppure si tratta di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità diffusi e sistematici come condannati nell’art. 7 dello statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.

In Ruanda e in ex-Jugoslavia, il Tribunale penale internazionale per il Ruanda (ICTR) e il rispettivo per i Balcani condannarono le violenze sessuali commesse in quei luoghi come crimine di guerra. La Corte penale speciale di Bangui quando emetterà una simile sentenza? E la Corte Penale Internazionale quando si spingerà oltre le indagini in corso?

Giulia Cataneo – Centro Studi Roma 3000

 

Mosul, gli alpini della Task Force Presidium addestrano le forze Curdo-irachene all’operatività in montagna

ASIA PACIFICO/SICUREZZA di

Presso la diga di  Mosul è stata inaugurata una nuova area addestrativa mirata ad aumentare la capacità operativa delle truppe Curdo –Irachene nel combattimento in quota.

La palestra di Roccia realizzata dalla Task Force Presidium e battezzata “Monte nero” in onore della battaglia del 3° Alpini nella prima Guerra Mondiale è in gardo di fornire un ampio ventaglio di scenrai utili alla formazione montana, la parete messa in sicurezza e dotata di 12 vie ferrate con difficoltà variabile sarà utilizzata per l’addestramento delle truppe operanti  nell’area.

La cerimonia è stata presieduta dal Comandante del Comando Operativo di Vertice Interforze, Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, accompagnato dal Comandante del Contingente Italiano e Deputy Commanding General for Training presso il Combined Joint Force Land Component Command – Operation Inherent Resolve, Generale di Brigata Francesco Maria Ceravolo.

In questa area  sotto il  coordinamento del Kurdistan Training Coordination Center (KTCC), l’Unità addestrativa multinazionale a guida italiana, sarà avviato prossimamente il primo corso di di Mountain Warfare Basic Skills, svolto dagli istruttori alpini a favore del Battaglione Kommando degli Zaravani delle Forze di Sicurezza Kurde.

La missione italiana

L’Italia partecipa con la “Missione PrimaParthica, secondo contributore dopo gli USA, all’Operazione “Inherent Resolve” di contrasto al terrorismo internazionale”: 1500 militari appartenenti a tutte le Forze Armate, impiegati nelle sedi di Baghdad e Erbil nell’addestramento delle Forze di Sicurezza curde (Peshmerga) ed irachene, ed assicurando a tutta la Coalizione, con un Task Group aeromobile dislocato presso  l’aeroporto di Erbil, la capacità di Personal Recovery (PR) in tutto il quadrante settentrionale  del teatro iracheno.

Nell’ambito di tale missione, la Task Force “Praesidium”, con i suoi 500 uomini e donne dell’Esercito italiano, garantisce la sicurezza al sedime della diga dove la ditta italiana Trevi Spa sta operando per mettere in sicurezza l’infrastruttura idraulica e scongiurarne il rischio di una catastrofe ambientale.

Regeni, caso chiuso ma non risolto

MEDIO ORIENTE/POLITICA di

Davanti alle Commissioni riunite di Camera e Senato il ministro Alfano ha dichiarato che, nonostante il caso Regeni, i rapporti dell’Italia con l’Egitto e quelli dell’Egitto con l’Italia sono inalienabili. Ha aggiunto che tra i compiti che il nostro Ambasciatore dovrà svolgere c’è anche quello di continuare, di concerto con le autorità egiziane, a cercare la verità su quanto accaduto al nostro povero connazionale. Certo, dopo tutte le accuse di resa avanzategli dalle opposizioni interne alla coalizione che sostiene il Governo, non poteva dire altrimenti ma è a tutti chiaro che, nella sostanza, il “caso Regeni” è pressoché chiuso. Non importa quali altre carte o filmati saranno trasmessi alla nostra magistratura: la verità è già conosciuta ma, semplicemente, non si può dire.

Resteranno oscuri alcuni aspetti della vicenda quali, ad esempio, il perché’ il cadavere sia stato lasciato in una località ove sarebbe stato facilmente rinvenuto. Oppure quali rispettivi ruoli abbiano avuto la polizia egiziana e i servizi segreti di quel Paese. O ancora se anche altri “servizi” abbiano o meno avuto una parte nella storia e, nel caso, a quale scopo. Comunque, la sostanza è che, magari senza capirne tutti i contorni e le finalità, il giovane dottorando stava raccogliendo informazioni e contatti negli ambienti contrari al regime e che stava trasmettendo quei dati ai suoi mandanti a Londra. In altre parole, stava collaborando a quello che avrebbe potuto trasformarsi in una ribellione contro il Governo attualmente in carica.

Che questa ricostruzione sia la più plausibile è confermato dal fatto che la sua relatrice che gli affidò l’incarico, è una professoressa di origine egiziana che si era già distinta come ostile ad Al Sisi e, davanti alla richiesta della nostra magistratura di poterla interrogare, si è negata. Come lei, hanno rifiutato la collaborazione con i nostri investigatori anche tutti gli organi dirigenti dell’Universita’ di Cambridge, l’ateneo ove il povero Regeni sperava di costruire la sua carriera di ricercatore.

Poichè la vittima di quel brutale trattamento è un cittadino italiano, era scontato che il nostro Governo avanzasse pretese di chiarimenti sia da parte egiziana che britannica e sarebbe stato altrettanto naturale ottenere collaborazione da entrambe. Chissà perché’ seppur con gli egiziani la mancata assistenza ha portato a una nostra ovvia reazione diplomatica, contro la Gran Bretagna, che ci ha silenziosamente snobbati, nessuna reazione è stata prevista.

D’altra parte, se gli egiziani ci avessero fatto conoscere la verità ufficialmente e cioè che erano stati organi dello Stato a torturare e uccidere il nostro concittadino, saremmo stati obbligati a una formale e dura reazione, ben più pesante del semplice richiamo dell’Ambasciatore. Tuttavia ciò avrebbe significato rompere per un tempo indeterminato i rapporti tra i due Paesi che, come ha affermato giustamente Alfano, devono invece restare ottimali. È perfino comprensibile l’atteggiamento dei britannici. Dovevano dirci formalmente di aver “usato” un ambizioso ma insospettabile studente italiano per una operazione di spionaggio utile solo a loro? Quando mai? In qualunque parte del mondo, se una spia viene scoperta tutti i mandanti si precipitano a smentire di esserlo stati. Ebbene, i nostri bravi alleati d’oltre Manica non si sono nemmeno sprecati a mentirci: hanno semplicemente rifiutato di parlarci.

Ora, dopo mesi in cui il nostro Ministero degli Esteri ha manifestato il nostro disappunto, cosa che dovevamo fare per salvare la faccia, è arrivato il momento di ritornare a pensare realisticamente ai più grandi e ai veri interessi del nostro Paese: è quello che è stato fatto inviando un nuovo Ambasciatore.

A chi accusa il Governo di debolezza o di privilegiare interessi economici alla nostra dignità, basta ricordare che, appena noi ritirammo il nostro diplomatico dal Cairo, il Presidente francese Hollande si precipitò in Egitto con una pletora di industriali francesi (che bell’esempio di solidarietà europea! …) per fare affari in tanti settori, magari proprio sostituendo le aziende italiane che erano venute a trovarsi in difficoltà per la nostra mossa. Non solo, gioirono dell’incidente anche tutti coloro che si erano preoccupati (alcuni fortemente) all’annuncio della scoperta del giacimento di gas Zohr fatta dalla nostra ENI in acque egiziane. Si tratta del più grande giacimento di tutto il Mediterraneo che fa impallidire i precedenti due ritrovamenti nelle acque israeliane/cipriote. Zohr non darà all’Egitto soltanto una autosufficienza energetica dal valore strategico incommensurabile, ma gli consentirà perfino di diventare un esportatore netto di gas. È ovvio che essendo stata l’ENI a cercare e trovare quella ricchezza, molte altre aziende italiane potranno essere coinvolte nel suo sfruttamento. Ciò, naturalmente, se i rapporti tra i due Paesi continueranno ad essere virtuosi come lo sono sempre stati nel passato. L’interruzione dei rapporti diplomatici, se continuata, avrebbe pregiudicato la collaborazione in questo campo ed è esattamente ciò che molti altri Stati si auguravano.

Come se non bastasse, è bene anche ricordare ai nostri “moralisti” che uno dei maggiori problemi politici che stiamo fronteggiando è il continuo afflusso di “profughi” dalle coste nord africane. Il Governo si è mosso facendo accordi con i sindaci di tanti villaggi libici, con i capi tribù e con il Governo di Tripoli, ma è noto che Al Sarraj controlla solo una parte del territorio e che tutta la Cirenaica è invece sotto il controllo del gen. Haftar, che sta a Tobruk. Mentre la gran parte della Comunità internazionale sostiene il primo, l’Egitto è il principale sponsor (anche militare) del secondo. Dopo il nostro accordo con Al Sarraj, Haftar si era precipitato a dichiarare di essere pronto a colpire i “neocolonialisti” italiani, lasciando intendere che o si trattava anche con lui oppure il nostro con Tripoli era un puro “chiffon de papier”. Uso non a caso il termine in questa lingua (anche se il primo a definire così un trattato fu un generale tedesco, proprio contro la Francia) perché’ il nuovo Presidente francese ha cercato di emarginarci anche in Libia, ponendosi come mediatore tra le parti per ipotecarvi il futuro.

Nonostante i “cugini”, il nostro ritrovato rapporto con il Cairo sarà utilissimo pure per i negoziati con Tobruk, poiché’ Haftar non può certo negarsi ad un invito in questo senso che gli arrivasse dall’Egitto.

La politica internazionale è una questione molto complessa per le innumerevoli varianti che entrano in gioco e l’abilità diplomatica consiste sempre in un difficile equilibrio tra forza vera, forza apparente, bluff, menzogne, verità, idealismo e realismo. Ogni Governo che persegua gli interessi del suo popolo deve sapere, all’occasione, usare tutte le armi a sua disposizione senza velleitarismi o fanatismi. Che ci piaccia o no per molti altri motivi, nel caso dei rapporti con l’Egitto Gentiloni ha fatto quanto poteva e quanto doveva, niente di più ma anche niente di meno.

 

Dario Rivolta

 

TRUMP CAMBIA STRATEGIA, NESSUN RITIRO FINO ALLA VITTORIA

MEDIO ORIENTE/POLITICA di

WASHINGTON, 21 agosto 2017 – Il presidente Donald J. Trump ha presentato una nuova strategia espansiva per l’Asia meridionale, in netta contrapossizione con le sue precedenti dichiarazione, volta a rafforzare la sicurezza americana.

La nuova strategia comprende l’Afghanistan, il Pakistan, l’India, le nazioni dell’Asia centrale e si estende in Sud-Est asiatico.

Ai soldati presenti all’incontro presso la Joint Baser Myer –Henderson Ha sottolineato che la strategia non avrà linee naascoste tra le pieghe .

Trump ha detto che “il popolo americano è frustrato dalla guerra più lunga della nazione in Afghanistan, chiamandola una guerra senza vittoria” e che la nuova strategia “è un cammino verso la vittoria e si allontana da una politica di costruzione della nazione”.

‘Le truppe hanno bisogno di piani per la vittoria, la nuova strategia, ha detto Trump, è il risultato di uno studio che ha ordinato subito dopo l’insediaziamento gennaio e si basa su tre precetti.

“In primo luogo, la nostra nazione deve cercare un risultato onorato e duratura degno dei tremendi sacrifici che sono stati fatti, specialmente i sacrifici delle vite”, ha detto Trump. “Gli uomini e le donne che servono la nostra nazione in combattimento meritano un piano per la vittoria. Meritano gli strumenti necessari e la fiducia che hanno guadagnato per combattere e vincere “.

Il secondo concetto che deve essere chiaro ha ricordato il Presidente è che una uscita frettolosa dall’Afghanistan permetterebbe il ritrono dei terroristi nel paese.

Il terzo punto, ha affermato, riguarda le minacce provenienti dalla regione, che sono immense e devono essere affrontate.

“Oggi, 20 organizzazioni terroristiche straniere designate dagli Usa sono attive in Afghanistan e in Pakistan, la più alta concentrazione in qualsiasi regione in tutto il mondo”, ha detto il presidente. “Da parte sua, il Pakistan spesso offre rifugio sicuro agli agenti di caos, violenza e terrore. La minaccia è peggiore perché Pakistan e India sono due stati armati nucleari i cui rapporti tesi minacciano di spiralarsi in conflitto. E questo potrebbe accadere “.

Gli Stati Uniti, i suoi alleati e i loro partner si sono impegnati a sconfiggere questi gruppi terroristici, ha detto Trump.

Di Redazione European Affairs

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