Breve riflessione sul dialogo tra generazioni in Italia

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Il tema dell’articolo odierno è una breve riflessione suldialogo fra le generazioni nel nostro paese ovvero se è davvero vero che l’Italia è un paese per vecchi e non per giovani, come sostengono tanti opinionisti accreditati.

Ora Leopardi criticava aspramente l’opinione che il suo secolo l’800 fosse un secolo di transizione, perché ancora segnato da molte contraddizioni culturali, politiche e sociali(cfr. Dialogo di Tristano e di un amico), sostenendo inveceche il presente è per sua natura “di transizione” e tali contraddizioni sarebbero rimaste identiche in ogni epoca storica.

Quindi possiamo dire senz’altro a partire dalla riflessione Leopardiana, che tutte le generazione nel loro tempo sono di transizione, nel fluire del tempo e del progresso della civiltà umana.

Ma dicevamo l’Italia è davvero un paese per vecchi e non per giovani?? 

Tema che ha cercato di affrontare ad esempio la famosa idea politica della rottamazione che negli scorsi anni ha avuto un certo seguito nel nostro paese, ovvero quasi una sorta di regolamento di conti dei giovani nei confronti degli anziani, che in modo quasi geriatrico secondo questa tesi manterrebbero le leve del potere nel nostro paese, non lasciando spazio ai giovani. 

Diversamente obiettivamente da quanto accade negli altri paesi occidentali, dove ad esempio ci sono premier quarantenni e la classe dirigente è per lo più composta da questa generazione.

Riteniamo però che l’idea della rottamazione abbia contribuito in realtà ad alimentare il conflitto fra le generazioni e rendere più instabile il clima di pace sociale nel nostro paese.

Conflitto che è stato maggiormente acuito dalla cattiva attuazione di una legge (in teoria giusta) come il job act, che ha finito però per dividere da una parte le generazioni anziane che sono rimaste tutelate nella sicurezza del loro lavoro dall’articolo 18 e dall’altra i giovani sempre più soggetti a lavori precari se non a intermittenza e senza la garanzia del famoso posto fisso.

Certo è che una legge pur giusta come il job act (la flessibilità è stata richiesta all’italia dall’Europa se non dall’OCSE ed è una necessità del sistema industriale), per non creare gli effetti distorsivi di cui sopra avrebbe dovuta essere gestita, nelle sue forme di flessibilità e in particolare per i giovani, di comune accordo fra gli imprenditori e le loro rappresentanze e i sindacati.

In altro senso se i lavoratori e in particolare le giovani generazione perdevano parte dei loro diritti con l’abolizione dell’articolo 18 decretato dal job act, questo fatto doveva essere contro bilanciato da un rafforzamento dei diritti e garanzie sindacali.

Quanto sopra per evitare che la flessibilità, che è una giusta esigenza dei moderni sistemi industriali, si trasformasse inuna precarizzazione permanente del lavoro dei giovani, così come di fatto è avvenuto; da qui da più parti l’idea di riformare il job act (ma non è questa la pagina per approfondire questo tema di così  grande rilievo).

Osserviamo però che se negli altri paesi occidentali è dato giusto e ampio spazio ai giovani anche nel ricoprire posizioni di rilievo e responsabilità, contemporaneamente in quei paesi c’è anche una profonda cultura di rispetto e valorizzazione del contributo di esperienza delle generazioni anziane.

Generazioni anziane che costituiscono sempre un punto di riferimento per i giovani anche attraverso istituti e figure come quella del past president, presenti sia nelle imprese che nelle istituzioni pubbliche e in genere nella società politica, civile ed economica.

Inoltre le persone pensionate o pensionandi, in particolarenei paesi scandinavi, (come noto evoluti sul piano sociale),non escono dai sistemi produttivi delle imprese ma rimangono al loro interno, pur non essendo più impegnate in ruoli di responsabilità di line e gestionali, ma con compiti di pianificazione, formazione e in particolare ai giovani, controllo qualità e sicurezza lavoro.

Generazioni anziane che in quei paesi scandinavi cambianosemplicemente ruolo ma continuano ad essere utili e fondamentali per il contesto produttivo e sociale dell’impresa e del loro paese.

In tale etico e virtuoso modo in quelle società scandinave non si disperde il patrimonio di know how, esperienze e sapere delle generazioni anziane ma questo viene trasferito così alle giovani generazioni.

Generazioni anziane che inoltre continuano a dare il loro prezioso contributo nel mondo delle associazioni, volontariato e del terzo settore in genere, fondamentale a mio parere per la crescita civile e umana di un paese.

Certo a differenza dell’Italia in quei paesi scandinavi e occidentali in genere, nel contempo i giovani sono valorizzati e trovano adeguati spazi, opportunità e progetti, con redditi e ruolo sociale adeguati, non solo nel mondo delle imprese ma anche in quello della politica, ricerca e imprenditoriale.

In Italia diversamente ai giovani che arrivano nelle imprese, avendo maturato competenze eccellenti negli studi scolastici e universitari, viene letteralmente detto in sostanza “ qui non si fanno bombe atomiche”, con il risultato di venire assegnati a ruoli inferiori alle proprie capacità e senza possibilità di sviluppo e con percorsi di carriera lunghi e incerti.

Inoltre i redditi di lavoro per i nostri giovani sono drammaticamente insufficienti a differenza degli altri paese europei che hanno assistito a notevoli incrementi del reddito medio negli ultimi trenta anni; reddito medio che invece nel nostro paese nel medesimo periodo è diminuito del 3% alordo dell’effetto inflazione (da qui la polemica di questi giorni nel nostro paese sull’introduzione del reddito minino, istituto economico presente in tutti gli altri paesi europei).

Giovani italiani quindi precarizzati, senza un orizzonte di sicurezza del lavoro e con redditi da fame e senza ruolo sociale e questo malgrado competenze professionali e culturali eccellenti, che non riescono per conseguenza a pianificare il loro futuro familiare e da qui le famiglie che non si formano e l’inverno demografico del nostro paese.

Morale della storia i nostri giovani sempre più lasciano il nostro paese, in direzione non solo degli altri paesi europei e occidentali, ma anche mete più esotiche come ad esempio Dubai, dove ottimamente pagati e riconosciuti socialmente trovano porte aperte e opportunità/progetti per fare i manager, gli startupper e imprenditori, i ricercatori, i professori, gli scienziati e via discorrendo, con la possibilità di creare valore e ricchezza (appunto le famose bombe atomiche) ma per quei paesi e non certo per la nostra Italia.

Sottolineamo che a emigrare all’estero sono le nostre migliori risorse, quelle con eccellenti competenze, visto che le statistiche attestano che ad esempio nel 2020 nella fascia d’età 25-39 anni su 2,6 milioni di laureati, ne sono emigrati quasi 23 mila (ovvero 8,6 ogni mille laureati).

Si tratta quindi di un fenomeno drammatico di depauperamento del patrimonio risorse umane del nostro paese e in particolare del sud, che nulla a che vedere con la contrapposizione fra vecchi e giovani.

Il problema è che il nostro sistema paese non ha cultura di impresa e politiche di gestione delle risorse umane antiquate e burocratiche che non valorizzano adeguatamente le persone e i lavoratori sia essi giovani che anziani.

E sì il nostro paese non è un paese per giovani ma certamente neanche per vecchi!

Infatti se è sacrosanto che ci deve essere una politica sociale per la valorizzazione e giusto spazio per i giovani e anche è vero che si vive più a lungo e che anche dopo la pensione si ha diritto a mantenere un capacità intellettuale e l’orgoglio di continuare ad essere utili per la nostra società e paese.

Insomma quello che drammaticamente manca nel nostro paese è una politica per le risorse umane (e anche le famiglia), cosa che invece è pianificata e attuta negli altri paesi europei e non solo quelli scandinavi, basti pensare all’esempio e modello francese.

E’ evidente che questo è compito fondamentale della nostra classe dirigente non solo quella politica ma anche imprenditoriale e sindacale e di tutti gli stakeholders del nostro paese.

E forse quanto illustrato in questo breve articolo la ragione del declino storico, politico, economico e culturale del nostro paese? E saremo in grado di arrestarlo?

Guido Massimiano (consigliere AISL_O – Associazione Studio Lavoro)

 

Bookreporter Settembre

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