La Crisi del Nagorno-Karabakh: un’escalation senza fine 

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La ripresa dei combattimenti tra Armenia e Azerbaijan per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh, riconosciuta internazionalmente come territorio azero ma sotto il controllo di Yerevan, rischia di sprofondare in un conflitto di portata superiore rispetto alla guerra termina 26 anni fa. Le ostilità riprese il 27 settembre questa volta vedono un coinvolgimento nella vicenda di paesi terzi che rischia di far scattare una reazione a catena che sarebbe difficile da bloccare per la comunità internazionale. 

I due principali Paesi terzi coinvolti nella contesa sono la Russia e la Turchia, schierate rispettivamente con Armenia e Azerbaijan. L’Armenia fa parte dell’Unione Eurasiatica (EEU) e dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), entrambi nati dall’iniziativa russa nello spazio post-sovietico; mentre Baku è membro insieme ad Ankara del Consiglio Turco, un’organizzazione che raccoglie i paesi dell’Asia di cultura turca. Il coinvolgimento di questi due attori esterni nella disputa fa del Nagorno-Karabakh il terzo scenario internazionale in cui sono coinvolti dopo la Siria e la Libia. 

Non vi è certezza su chi abbia iniziato gli scontri a fine settembre. Ma dai primi giorni è apparso che l’esercito azero avesse le capacità militare per poter avanzare nella regione. Baku negli ultimi 20 anni ha fatto grossi investimenti militari, importando armi tra gli altri anche da Israele, e secondo fonti armene e internazionali tra le fila dell’esercito azero potrebbero esserci mercenari siriani trasportati dalla Turchia e consiglieri militari turchi che parteciperebbero alle operazioni militari. L’esercito azero è arrivato a conquistare parti importanti della regione contesa e delle provincie circostanti, soprattutto a sud al confine con l’Iran, e a mettere sotto assedio la capitale del Nagorno-Karabakh Stepanekert. In queste settimane l’Armenia ha bombardato alcune infrastrutture strategiche del nemico, tra le quali l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan e la diga di Ganca nel nord-est dell’Azerbaijan. Dall’inizio della crisi, la soluzione militare è stata più volte presentata come Presidente azero Aliyev come la principale opzione per una risoluzione definitiva della questione che si protrae dal 1988. L’unica opzione è quella di un ritiro unilaterale dell’Armenia dalla regione. Ma il Primo Ministro armeno Pashinian ha espresso più di una volta come il Nagorno-Karabakh sia storicamente territorio armeno a tutti gli effetti ed è arrivato a minacciare il riconoscimento dell’indipendenza della Repubblica dell’Artsakh -lo stato che governa de facto la regione.

In queste settimane l’azione diplomatica della Russia e della Turchia sono state completamente differenti. Tra le due è Mosca quella che ha più da perdere, mentre la Turchia ha tutto di guadagnare. La prima, fornisce armi a tutti e due i paesi e vorrebbe mantenere la stabilità nella regione per paura di un effetto spillover nel Caucaso del Nord, regione tradizionalmente turbolenta. Fin dai primi giorni, la sua azione diplomatica è stata quella di raffreddare gli animi: ha fatto appello più di una volta ad un cessate il fuoco, ha mantenuto i contatti con Aliyev e Pashinian, ha organizzato l’incontro che ha portato al primo cessate il fuoco entrato in vigore il 10 ottobre (rotto dopo poche ore), ed ha proseguito nel suo ruolo di mediatrice anche dopo che Armenia e Azerbaijan ha rotto la seconda tregua accordata una settimana più tardi. La Turchia invece ha spalleggiato fin dall’inizio l’azione di Baku sostenendo in più di una occasione che l’iniziativa militare degli azeri è del tutto legittima, essendo il Nagorno-Karabakh un territorio occupato. La seconda può inserirsi in un contesto geopolitico che rafforzerebbe la sua immagine di protettore della causa islamica ed avere un alleato con un importante accesso alle risorse energetiche del Mar Caspio. All’azione di questi due paesi ha cercato di affiancarsi anche la Georgia, il terzo paese sud-caucasico che guarda con preoccupazione allo scoppio della crisi sia per le conseguenze della regione, sia per le conseguenze sulle regioni autonomiste della Abkhazia e dell’Ossezia del Sud. Questo tentativo di mediazione è stato rifiutato sia da Yerevan che da Baku. 

Ci sono però due attori internazionali che nell’ultimo mese sono stati coinvolti nella crisi e che sono preoccupati dell’attivismo turco: l’Iran e gli Stati Uniti. Il suo governo ha fatto appello più di una volta affinché i combattimenti non avessero ripercussioni sulla popolazione iraniana che vive nelle zone confinanti con Azerbaijan e Armenia. Il governo di Teheran ha un approccio neutrale al conflitto ed ha come linea quella del proseguimento del dialogo tra le parti, pur riconoscendo la sovranità di Baku sul Nagorno-Karabakh. Le ragioni di questo approccio, molto più soft di quello dell’Ayatollah Khamenei -iraniano ma di etnia azera- che ha sostenuto più volte l’entrata in guerra per difendere un paese musulmano, sono essenzialmente due: la prima evitare che lo scontro abbia ripercussioni sulle minoranze armene e azere nel paese, la seconda è quella di evitare che paesi terzi incrementino il loro peso nel Caucaso. La paura più grande è che dopo che l’Azerbaijan ha comprato da Israele armi nella fase precedente alla escalation, quest’ultimo possa aumentare il suo peso politico in uno stato confinante. Il secondo attore internazionale sono gli Stati Uniti, che a differenza della Russia e della Turchia si sono tenuti al di fuori della questione nelle prime settimane del conflitto. Il Segretario di Stato Mike Pompeo ha organizzato degli incontri bilaterali con i Ministri degli Esteri dei due paesi solo il 23 ottobre, dopo che anche la seconda tregua mediata da Mosca era fallita. L’operato di Pompeo ha portato ad una tregua umanitaria approvata dalle parti il 26 ottobre, con lo scopo di riconsegnare i corpi dei soldati alle rispettive parti. Anche questa tregua però è stata nuovamente rotta nelle ore successive alla sua entrata in vigore.

Russia e Stati Uniti erano gli unici Paesi che avevano la capacità di poter portare i governi dei Paesi sud-caucasici al tavolo delle trattative perché sono due dei tre componenti del Gruppo di Minsk -il terzo Paese è la Francia, che nei primi giorni ha fatto appello per una risoluzione pacifica del conflitto, ma che poi ha mosso le sue critiche quasi esclusivamente sul coinvolgimento di Ankara. Il Gruppo di Minsk è stato creato in seno all’OSCE per risolvere il conflitto del 1994 ma non prende decisioni concrete riguardo la crisi regionale dal 2010. Durante il mese di ottobre è stato fortemente criticato dal Turchia e Iran che hanno espresso la richiesta di entrarne a far parte per superarne l’immobilismo e renderlo più attivo diplomaticamente. Ma queste critiche sembrano non aver avuto conseguenze sul suo operato per il semplice fatto che, dopo gli incontri tenutisi a Washington, il Gruppo è tornato a riunirsi a fine ottobre solo per discutere la creazione di un piano di pace e la stesura di una tabella di marcia per attuarlo

In questa cornice, l’Unione Europea, nella persona del suo Altro Rappresentante per la politica estera Borrel, non ha potuto fare altro che appellarsi ad una risoluzione pacifica del conflitto e a criticare la violazione delle tregue. Non sembra avere le capacità per poter imporsi come un attore di cui le parti possano fidarsi. L’unica organizzazione che potrebbe attivamente intervenire per una risoluzione della crisi più o meno stabile è la CSTO. Durante i primi giorni, l’intervento di questa organizzazione era stato escluso da Putin e da Pashinian, l’idea di un suo intervento è tornata in auge con due differenti proposte: la prima quella di inviare un corpo di 3.600 peacekeepers –soluzione che deve essere approvata dall’ONU– e che rappresenta l’evoluzione di una proposta fatta precedentemente da Lavrov; la seconda è quella di un intervento della CSTO come alleanza militare in difesa di un suo membro e della sua integrità territoriale. Il problema di questa opzione è che l’invio di soldati del CSTO obbligherebbe anche Kazakistan e Kirghizistan ad intervenire in una crisi prendendo le parti contro Azerbaijan e Turchia, come loro membri del Consiglio Turco. Neanche l’alternativa delle forze di peacekeeping risulta totalmente fattibile.  All’inizio della crisi, la posizione delle Nazioni Unite è stata espressa dal Segretario General Guterres e dal Consiglio di Sicurezza, ma in entrambi i casi, sono arrivate solo parole di condanna delle violenze. Violenze, commesse da entrambi le parti, che potrebbero essere considerate crimini di guerra ha reso noto l’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite Michelle Bachelet

Di Cosimo Graziani

Alessandro Conte

Bookreporter Settembre

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