Che la Gran Bretagna non sia mai stata sostenitrice di un’Europa senza frontiere non è una novità. Ma ciò a cui stiamo assistendo nell’ultimo periodo è una frattura sempre maggiore tra l’atteggiamento adottato dal governo inglese in materia di asilo e di immigrazione e quello degli altri membri UE, con critiche provenienti sia da questi ultimi sia dalle forze interne al paese.
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La Corona inglese, che non aderisce a Schengen, ha una posizione particolare circa l’arrivo di stranieri sul suolo nazionale. Una politica definita rigida, che non dice un no categorico all’immigrazione ma la accetta in forma controllata. Viene favorito l’ingresso dei cosiddetti skilled workers e degli studenti, potenziali risorse per il futuro. Il principio chiave dei conservatori è semplice: tutelare gli interessi e la sicurezza del paese. Di conseguenza, chi ha voglia di lavorare sodo e contribuire a questo obiettivo è benvenuto, per gli altri non vi è posto.
Se un simile approccio in tempi normali non desta particolare scalpore, le prospettive cambiano quando una massiccia ondata migratoria va a colpire il territorio europeo, alterando gli equilibri interni dei vari paesi. Considerando gli ultimi anni, l’Europa è stata testimone di due ondate maggiori. La prima proveniente dalla Libia e l’altra dalla Siria; entrambe ancora in corso (seppur con modalità ed intensità diverse) ed entrambe legate all’esplosione di conflitti nei rispettivi paesi, che hanno spinto la popolazione a cercare un futuro al di là del Mediterraneo.
Queste ondate di rifugiati hanno determinato situazioni di emergenza nei paesi di primo arrivo – soprattutto Italia, Grecia e Spagna- che si sono ritrovati ad accogliere una quantità di persone superiore alle capacità delle strutture di accoglienza esistenti. Da qui la richiesta d’aiuto ai partner europei, nel tentativo di dividere più equamente le persone da accogliere, per poter garantire loro condizioni di vita accettabili senza compromettere la sicurezza e l’ordine del paese stesso.
La Gran Bretagna sembra fare orecchie da mercante. Durante la crisi libica, Cameron aveva messo a disposizione la Royal Navy per operazioni di salvataggio in mare, escludendo categoricamente la creazione di centri di accoglienza in territorio inglese. Ma l’aiuto che serviva non era in mare, bensì a terra, nel post-salvataggio. L’emergenza Siria non ha reso il governo inglese più incline a supportare gli alleati europei. Opt-out inglese, infatti, per il sistema delle quote, che prevede la ridistribuzione di 160.000 rifugiati, già in Grecia, Italia, o Ungheria tra i vari paesi membri UE, in modo proporzionale alle capacità del paese. Tuttavia, il PM inglese promette di accogliere 20.000 rifugiati nell’arco di 5 anni: cifra alquanto irrisoria se paragonata ai numeri di paesi come la Germania, disposta ad accettare fino a 800.000 rifugiati entro la fine del 2015. L’offerta inglese, inoltre, è rivolta soltanto ai rifugiati tutt’ora in Medio Oriente e non a quelli già in Europa, soluzione che, come fanno notare i membri UE, serve ben poco ad alleviare la situazione d’emergenza nei paesi d’arrivo.
Punto caldo in sede UE, il tema immigrazione è elemento di tensione tra le forze politiche e sociali del paese.
Le critiche maggiori provengono dal partito labourista, che giudica insufficiente l’aiuto offerto dal governo Cameron. Si richiamano i diritti umani, principi cardine dell’Unione Europea e il passato del paese, santuario di ospitalità e speranza all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Che fine ha fatto questa tradizione? Che significato hanno quei diritti sanciti nella Magna Carta o nella Dichiarazione Universale?
Ed è proprio in riferimento a questi diritti che nascono critiche anche da un altro settore, quello delle Charities inglesi. Il disaccordo maggiore è legato alle riunioni familiari, previste dal sistema in vigore ma con limitazioni. Soltanto i coniugi e i figli minorenni possono entrare nel paese e ricongiungersi ai familiari. Maggiorenni e altri parenti sono esclusi dalla rosa dei “fortunati”. Perché? Non vivono forse la stessa sofferenza? Se si guarda ai bambini la situazione forse è anche peggiore. I minori non accompagnati, non hanno il diritto di richiamare alcun familiare, neanche i genitori. Non bastano, dunque, i traumi di una guerra, di una fuga, dell’arrivo in un paese straniero di cui non si conosce neanche la lingua. A ciò si aggiunge anche la distanza dai propri cari, la consapevolezza di non poterli vedere e l’incertezza circa il loro futuro o la loro stessa vita. E i diritti umani?
La domanda è: si può fare qualcosa in più? Forse sì. E allora ci si chiede perché un paese come la Gran Bretagna, fondato su determinati valori e principi e con una capacità economica tale da potersi permettere uno sforzo maggiore, si tiri indietro, voltando le palle agli alleati europei proprio quando ve n’è bisogno, ma anche compromettendo quell’immagine di garante dei diritti che si è costruita nel corso dei secoli. Un Regno Unito che sembra voler prendere sempre di più le distanze dall’Europa al fine di proteggere i propri confini. Ma fino a che punto si può arrivare prima che un simile atteggiamento diventi controproducente? No è più solo una questione di Brexit o non Brexit; si corre il rischio di mettere in discussione valori fondamentali della Nazione, con le relative ripercussioni che ciò può avere in termini di stabilità interna.
Paola Fratantoni
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