Armi etniche: cosa sono e perché dovremmo temerle

L’esplosione della pandemia del COVID-19 ha riportato alla luce la vulnerabilità dei nostri paesi a minacce di natura biologica e una sostanziale impreparazione e incapacità di attuare una risposta coordinata, repentina ed efficace al problema. Parallelamente, hanno trovato nuovo vigore numerose teorie del complotto, che vogliono ora il virus creato in laboratorio a Wuhan e diffuso intenzionalmente dagli Stati Uniti, ora un’operazione machiavellica della Cina volta a soddisfare i propri obiettivi geopolitici.

Che tali teorie abbiano un fondono di verità o meno, rimane il fatto che la possibilità che un agente, biologico o chimico, in grado di provocare una pandemia globale, venga creato in laboratorio esiste e già da molti anni. L’evoluzione tecnologica, accompagnata da una maggiore conoscenza del mondo chimico e biologico, infatti, ha permesso di raggiungere progressi importanti, soprattutto nel settore medico. Basti pensare allo sviluppo di macchinari per le TAC o le analisi del sangue, o lo studio del genoma umano. Ma se da un lato tale progresso ha aperto nuovi orizzonti scientifici, dall’altro lato, ha svelato un’altra faccia della medaglia, divenendo un potenziale strumento di impiego per fini pericolosi, come quelli bellici. Per quanto negli anni la legislazione internazionale abbia cercato di contenere un impiego illegale delle attività di ricerca nel campo degli agenti chimici e biologici (ad esempio la Convenzione sulle armi biologiche e la Convenzione sulle armi chimiche, che vietano rispettivamente lo sviluppo e la produzione di armi batteriologiche e chimiche), tali misure non sono sufficienti a garantire che la ricerca venga effettivamente perseguita esclusivamente per scopi pacifici, come l’utilizzo a scopo terapeutico o in agricoltura.

Una conseguenza alquanto preoccupante delle potenzialità della ricerca dual-use è data dalle cosiddette “armi etniche”. Negli anni, la combinazione di tecnologia e maggiore conoscenza del genoma umano (interamente mappato per la prima volta nel 2003) hanno permesso lo sviluppo di specifiche armi capaci di “colpire” determinati gruppi, individuati sulla base di caratteristiche etniche, razziali o genetiche, senza causare danno al resto della popolazione.

 

Spieghiamoci meglio. Negli anni ’50, a una famiglia giapponese venne riscontrata carenza di catalase, un enzima che divide gli atomi di perossido di idrogeno (più comunemente nota come acqua ossigenata) provocando la tipica schiuma bianca quando in contatto con sangue o ferite. Usando l’acqua ossigenata come disinfettante, la pelle della famiglia giapponese non produceva alcuna schiuma, attribuibile, appunto, alla mancanza genetica del catalase. Similmente, diversità di reazione a determinati agenti chimici sono state riscontrate tra popolazioni di aree geografiche distinte. Ad esempio, l’acetilazione, una reazione chimica che lega un gruppo acetile a un composto chimico, offre una linea di demarcazione tra due categorie di persone: la prima possiede degli attivatori rapidi di isoniazide, un antibiotico usato contro la tubercolosi; la seconda, invece, presenta un gene diverso, responsabile di attivatori più lenti e quindi meno efficaci nel convertire l’isoniazide in acetyl-isoniazide. Secondo gli studi effettuati, europei e americani di origine africana presenterebbero circa il 50% di attivatori lenti, mentre altre popolazioni, come Giapponesi ed Eschimesi solo il 10%.

 

Da questi esempi emerge come la differenza genetica di popolazioni esponga a reazioni diverse a contatto con determinate sostanze. Ne segue che, una volta individuata tale differenza, questa possa essere sfruttata sia per intenti benevoli, come arginare infezioni o malattie ma, altresì, per causare danni a specifici gruppi. La maggiore conoscenza del genoma umano ha permesso, infatti, di avere una visione più completa e precisa del corredo genetico, individuando tratti comuni, peculiarità e ”tasselli” che rimossi e sostituiti attraverso specifiche tecniche di laboratorio, provocano sostanziali differenze nell’organismo. Nel bene e nel male.

 

La biotecnologia e settori come l’ingegneria genetica hanno fatto enormi progressi negli ultimi decenni. Ad esempio, una tecnica nota come CRISPR (Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats) permette, tramite una proteina chiamata Cas9, di cercare, tagliare e infine alterare e distruggere il DNA dei virus, secondo un meccanismo di riconoscimento altamente specifico, permettendo, in questo modo, di correggere difetti genetici e di trattare o prevenire determinate malattie. Se è ben evidente il potenziale benefico che deriva da una simile tecnologia, è altrettanto chiaro come una simile conoscenza possa essere utilizzata per lo sviluppo di armi biologiche e chimiche, volte a colpire determinate categorie di persone.

 

Oggi, le maggiori conoscenze in ambito scientifico e la più facile accessibilità a materiali e tecnologie fanno sì che persino individui con una basilare formazione scientifica possano, potenzialmente, essere in grado di produrre sostanze capaci di provocare morte o danni gravi. La percezione del rischio aumenta, inoltre, se si considerano due ulteriori aspetti. In primis, come accennato, il framework legislativo non garantisce la protezione da tali minacce. Da un lato, infatti, esso è vincolante solo per attori statali e firmatari (escludendo, quindi, attori non statali come i gruppi terroristi). Dall’altro, gli stessi stati aderenti potrebbero decidere di violare tali disposizioni per interessi nazionali geopolitici.

In secondo luogo, tali conoscenze e tecnologie potrebbero finire nelle mani sbagliate, come quelle di un gruppo terroristico, offrendo un’arma “facile” per condurre eccidi o sfruttarne l’effetto “terrore” dato dalla possibilità di un suo reale impiego per il raggiungimento dei propri obiettivi.

 

Il tema delle armi etniche mette, dunque, nuovamente in luce la linea sottile tra ricerca e sviluppo per fini benevoli ma anche il loro potenziale impiego nell’ambito di quelle che sono le odierne forme di guerra. Le armi etniche, infatti, arricchiscono lo spettro di minacce alla sicurezza nazionale e umana, mostrando il carattere sempre più ibrido che un potenziale futuro conflitto potrebbe assumere.

 

 

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