Libri, autori e tanto altro

Category archive

AUTORI - page 2

Interviste agli autori, biografie storiche di autori nel tempo, lontano e più vicino

Michela Murgia e Azar Nafisi

AUTORI/CULTURA/EVENTI by

Quello che non si può più fare nella aule si fa nel privato, viaggio nell’immaginario di Nabokov.

Michela Murgia dialoga con Azar Nafisi.

Azar Nafisi: «Nello scrivere “Le cose che non ho detto” volevo vedere se sarei stata in grado di scrivere senza menzionare la Repubblica Islamica, uno dei poteri occulti del regime è portare le persone a pensarsi come prede, funziona come il panopticon, l’arte e la letteratura, sottratti al controllo, diventano spazi franchi. Ogni regime ha un obiettivo: assumere il controllo delle parole e delle narrazioni.

L’Italia per me è la Repubblica dell’immaginazione, l’Italia mi ha accolta, mi ha fatto sentire a casa. L’Italia parla al mio cuore. Io ho sentito e provato questa libertà attraverso la letteratura, a tre anni e mezzo papà mi raccontava delle storie e lo faceva in modo democratico. Quindi sì, pur stando nella mia stanzetta in Iran, il mondo veniva a me. La letteratura per me è stata un modo per percepire e vedere due delle caratteristiche umane del mondo:

Curiosità, perché è noioso pontificare su se stessi. La letteratura e l’arte devono essere fatti da altri, Nabokov disse che la curiosità insubordinazione nella sua forma più pura, originaria.

Empatia, non possiamo essere ovunque nel mondo, ma possiamo leggere di quello che accade. Il grande scrittore è colui che esprime la sua vita anche nel personaggio cattivo.

Noi sappiamo come nella Repubblica Islamica le carceri si sono riempite di artisti, dobbiamo chiederci, che potere hanno? L’unico potere è l’arte, le parole. Cos’è che ha spaventato tanto l’ayatollah? Perchè ha paura della penna? 

È qui che risiede il potere sovversivo dell’arte.

Donna, vita, libertà!

Quando il 16 settembre scorso è stata uccisa Amini abbiamo iniziato ad osservare l’Iran con occhi diversi, forse ancora più pregiudizievoli, come una pentola da cui è saltato un coperchio, naturalmente con i nostri filtri, ma man mano che il tempo passava la complessità ha iniziato a far capolino, nostro malgrado. Nel libro “Le cose che non ho detto” Nafisi parla dell’Iran, affermando che i bersagli del regime religioso non erano solo politici, ma qualunque cosa o persona promuovesse la diversità e l’individualità delle voci, ovvero le donne, la cultura e le minoranza.» 

«Ma perchè le donne sono un innesco di ribellione così efficace?» chiede Michela Murgia

«La mentalità iraniana e radicale non tollera le differenze, chi si esprime in modo diverso. In ogni Paese, le donne rappresentano la metà della popolazione, in Iran la religione le ha rese invisibili, parlando della minoranza e della cultura, questi non sono stati i primi obiettivi, i primi sono state proprio le donne. 

Il 9 marzo 1979 l’ayatollah ha obbligato le donne a indossare il velo, in migliaia si sono riversate in massa nelle strade dicendo che la libertà apparteneva al mondo nella sua totalità, come reazione da parte delle forze armate del regime ci sono stati diversi attacchi: con l’acido per sfigurarle, con forbici e coltelli per ferirle e annientarle. Ma le donne non si sono arrese, da sempre sono un gruppo privato di diritti, per questo sono sempre in prima linea, perchè sono le più oppresse. La lotta che c’è ora in Iran non è politica, ma esistenziale, quando ti viene dette che tu non sei quello che credi di essere, quando vogliono farti diventare un prodotto del regime, l’unica soluzione, seppur rischiosa, è reagire. La creazione di prodotti del regime era l’unica strada possibile da intraprendere per appiattire le personalità, per creare uniformità e imporsi come totalitarismo. Ma le donne hanno resistito, nessuno ha il diritto di sindacare come dobbiamo essere, io, ad esempio, ho sempre portato il trucco.» 

“Le donne sono diventate creature pericolose, ma è molto bello essere pericolose, non credete?”

«Donna vita libertà mi ha impressionata, l’ho sentita anche detta dagli uomini iraniani, questa rivoluzione è di tutti, la Repubblica iraniana reprime tutti. È impressionante sentire il genere maschile usare la parola donna come grido di libertà. Qual è il rapporto tra uomini liberi e regime?» chiede Michela Murgia.

«Uomini e donne insieme conquisteranno il successo, le donne non riusciranno a realizzarla senza il loro aiuto, c’erano degli uomini che indossavano l’hijab e donne che lo toglievano. Bisogna ricordarsi che i diritti delle donne sono diritti umani, ogni conquista rappresenta una conquista nei diritti di tutti. Io adoro quello slogan, ha un significato che va oltre la politica, riguarda il diritto di esistere a modo proprio, avendo una propria identità, che il regime vuole annullare. Stamattina è stato giustiziato un altro dimostrante, ma le donne trovano sempre dei modo creativi per opporsi alla violenza che cerca di zittirli. 

Sa cosa rende le donne iraniane così potenti? Essere unite. Tenere le donne nascosta è un modo per garantire la sopravvivenza del regime, ma ora è il regime ad avere paura, per sopravvivere può solo uscire.»

«Nabokov scrive che la fantasia è fertile solo se futile. Lui non si schierò mai in politica, quando la prese la prese per battaglie conservatrici, Marcello Fois mi ha detto che l’abitudine di scrivere saggi di intervento politico è una sorta di adolescenza letteraria di scrittori che pensano di cambiare il mondo presente. La fiction è più efficace?» chiede Michela Murgia. 

«Tutti noi possiamo raccontare e descrivere storie, la letteratura, il romanzo, nello specifico, con la sua struttura democratica è ciò che incute timore. Un romanzo esprime una mentalità che poi porta all’elezione di certi politici.

Volevo raccontarvi un aneddoto riguardo una mia studentessa: ovunque sono andata ho raccontato questa storia, lo faccio perchè lei è morta il suo nome è Racid, frequentava le mie lezioni di “Novel” che tenevo nel salotto della mia abitazione. Racid era una musulmana praticante, veniva da una famiglia molto povera, il padre era morto e la madre era una colf, si occupava delle case delle famiglie più ricche. Nonostante questo, spiccava per la sua lintelligenza, mi raccontò di essere incantata dal mondo di Henry James.

Ora Racid non c’è più, un’altra mia studentessa mi ha raccontato di aver condiviso una cella di un lurido carcere con lei.

Pensando a queste carcere, l’idea di queste due ragazze che parlavano di letteratura e ridevano, dopo ho saputo che è stata giustiziata, ho pensato che James non l’ha salvata, ma la letteratura è stata qualcosa a cui si è potuta aggrappare in punto di morte. La letteratura non fa vincere le guerra, ma quando si è persa ogni speranza la letteratura dona speranza, nelle vette che può raggiungere l’umanità, nei suoi successi, è per questo che è così potente e importante. 

Io credo che le persone che vivono nei paesi democratici debbano leggere ciò che viene prodotto nel resto del mondo. Ogni volta che ho parlato di libertà per le donne in Iran qualcuno ha sempre detto “che sono occidentalizzata, perchè questo fa parte della nostra cultura”, quando qualcuno mi accusa di questo, questo mi ha fatto molto arrabbiare. 

L’Iran è una civiltà millenaria, nel XIX secolo anche noi ci siamo battiti per i diritti per le donne, nel 1979 c’erano due ministri donne. In un certo senso si pensa che queste critiche ci schiacciano, i diritti umani sono diritti universali non appartengono all’occidente, lo trovo un atteggiamento paternalista dal punto di vista culturale.

È come se io dicessi anche il fascismo e il comunismo nelle forme più efferate sono la loro cultura, ma la cultura occidentale non si riduce a questo, così come quella orientale. Voi avete il diritto di combattere il fascismo, ed è il diritto che rivendichiamo anche noi, il diritto di opporci a manifestazioni estreme. La libertà è globale, ma come dicevo io non ho paura delle critiche.»

La rivoluzione che sta avvenendo in Iran non è solo femminile, come ha detto Michela Murgia, è genderless.

Pier Paolo Pasolini un dantista eretico a Più libri più liberi.

AUTORI/CULTURA/EVENTI by

“Dante ha pagato con il rischio della condanna all’Inquisizione e alla morte la dirompente libertà del suo pensiero; Pasolini con il proprio assassinio nel 1975.”

Massimo Desideri, già docente nei licei, durante la prima giornata di Più libri più liberi, conduce un’attenta riflessione sul rapporto tra Dante e Pasolini, come si vedrà il dantismo pasoliniano è il più originale e fedele di tutto il Novecento.

Come emerge dagli studi di Federico Bellini e Massimo Desideri, credo si possa affermare con certezza che Dante è stato uno dei riferimenti centrali per la poetica e per l’intero corpus delle opere di Pier Paolo Pasolini. Ovviamente non parlo di uno scontato o tangenziale riflesso dell’opera dantesca nel lavoro del poeta friulano, cosa che suppongo riguardi tutti gli autori di lingua italiana successivi a Dante, quanto al legame praticamente inscindibile tra, almeno, la Commedia e l’opera pasoliniana. Ne è una prova, se non altro, l’arco temporale in cui si inserisce il tentativo di Pasolini di riscrivere una propria versione della Commedia, da La Mortaccia, scritto del 1959, fino a La Divina Mimesis, pubblicato poco prima della morte, nel 1975. 

Ma come mai il Professor Desideri definisce Pasolini eretico? Eretico per quella che è la nostra visione della vita, ma, soprattutto, della fede. Pasolini si è sempre professato un cristiano, non un cattolico, soprattutto non in senso fideistico, ma in senso umano. Pasolini rivaluta la parola umanità, la collega agli ultimi, agli emarginati, ai reietti, ai servi, per citare La rabbia del poeta apparso sul numero 38 della rivista “Vie Nuove”: 

Uomini umili,
vestiti di stracci o di abiti fatti in serie,
miseri, che vanno e vengono per strade
rigurgitanti e squallide, che passono
ore e ore a un lavoro senza speranza,
che si riuniscono umilmente in stadi
o in osterie, in casupole miserabili o
in tragici grattacieli: questi uomini dai
volti uguali a quelli dei morti, senza
connotati e senza luce se non quella
della vita, questi sono i servi.

Eretico dunque, perchè se in Dante i primi canti sono dedicati allo smarrimento, alla paura provata alla visione delle tre fiere: leone, lupa e lonza, in Pasolini i primi canti sono dedicati al degrado, alla povertà. La protagonista de La Mortaccia, una prostituta, si perde nella degradata periferia romana vicino Rebibbia, l’inferno non è una semplice visione, l’inferno è tra noi, nella periferia di Roma, nella mancanza di umanità. Questa povera ragazza non ha altre possibilità, si perde, esce dalla casa del suo protettore, luogo è buio e oscuro, perde l’orientamento, trova un piccolo monte, simbolo del colle dantesco, ma, a differenza di Dante, non ha una guida, non sa dove andare. Dopo essere stata intimorita da tre canacci neri, evocativi tanto delle fiere, quanto di Cerbero, ha una visione: una figura salvifica le appare per sottrarla da quel buio: Dante. Una sottrazione fittizia, in quanto la porta verso una grande costruzione, il carcere di Rebibbia, qui Pasolini interrompe l’opera. Il lettore si trova davanti ad una ragazza angosciata, consapevole del suo destino: sa di entrare, ma sa che non potrà uscire. Non c’è palingenesi o possibilità di riscatto, non c’è possibilità di un paradiso, di un riscatto. In Pasolini i “paradisi” sono fittizi, illusori, tra questi inserirà anche il consumismo: corrente più corruttrice e pericolosa del classico fascismo, rende il proletariato borghese. 

La Mortaccia finisce qui, ma non il suo rapporto con Dante. Il dantismo pasoliniano continua, Desideri indaga non solo l’ambito letterario, ma anche quello cinematografico. Come emerge da alcuni appunti: nella seconda bolgia di Petrolio, il Modello rappresenta la nuova criminalità con le sue nuove leggi e le sue nuove caratteristiche, qui Pasolini, ancora una volta, si rivolge a Dante per descrivere questi nuovi esseri disumani che hanno perso anche le apparenze del ben dell’intelletto, sono pure e semplici forme della Matta Bestialità. 

Massimo De Vico Fallani presenta a Roma la sua opera: Le cancellate romane Sette-Ottocentesche. 

AUTORI/EVENTI by

Lo scorso 24 novembre, Massimo De Vico Fallani ha presentato “Le cancellate romane Sette-Ottocentesche” all’interno dell’Archivio Storico Capitolino, una scelta tutt’altro che casuale.

Massimo De Vico Fallani, un nome che è un’autorità nell’ambito architettonico e paesaggistico. È stato funzionario architetto della Soprintendenza ai Monumenti di Firenze e Pistoia (1980-1986) e di quella Archeologica di Roma (1986-2008) con l’incarico di direttore dei parchi e giardini. Coordina il Corso di Restauro di Parchi e Giardini storici della Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio della ‘Sapienza,’ Università di Roma. È autore di diversi progetti di restauro di giardini storici e sistemazione di parchi archeologici, l’ultima “fatica letteraria” lo ri-porta a Roma, in particolar modo si sofferma sullo studio delle cancellate, dei portoni, dei cancelli singoli o multipli. 

Leggi tutto: Massimo De Vico Fallani presenta a Roma la sua opera: Le cancellate romane Sette-Ottocentesche. 

Non c’è trattatistica o metodo inerente allo studio delle cancellate, non in Italia, De Vico Fallani è un vero e proprio pioniere. Nella sua opera monumentale, frutto di un lavoro durato anni, il nostro Autore ha consultato archivi di Stato, biblioteche, ha approfondito la conoscenza di un tipo di manufatto artistico, di un tipo di artigianato che in Italia, a differenza di altri Paesi, non è adeguatamente preso in considerazione dalla letteratura professionale e dall’opinione pubblica. Dunque, fulcro dell’opera sono le cancellate romane, in particolar modo quelle settecentesche e ottocentesche. In realtà, l’Autore pone l’attenzione su cinque epoche: Medioevo, Rinascimento, ‘600 (ornato da cancellate gentilizie), ‘700 e ‘800 (animato da cancellate decorative). 

“Le cancellate romane” si presenta come un libro particolare, all’interno non è accademico, non è esclusivo, è un libro che nasce da una curiosità. A proposito di ciò è interessante partire da una recensione asprissima di Mario Praz nei confronti del Manierismo, uscì su “Il Tempo”. Praz vedeva la sua Roma come una città ancora affascinante, ma di fatto degradate, decaduta. Del resto credeva che l’arte, non fosse veramente arte, ma solo la documentazione di un’epoca. 

Quanto detto da Praz è tanto illuminante, quanto criticabile, basti solo chiudere gli occhi e tornare indietro nel tempo, in particolar modo al pontificato di Alessandro VII: il Pontefice amava lo scintillio dell’acqua, amava osservarla dalle spallette sul Ponte di Castel Sant’Angelo (spallette che crollarono nel 1450, anno del Giubileo cristiano a causa di un numero esorbitante di persone). Per evitare un’altra tragedia chiese a Bernini di ampliare la sezione delle spallette, di decorarle, la Musa ispiratrice del noto architetto fu la maglia delle reti da pesca. Dio viene riscoperto partendo da un elemento che, solitamente, si dà per scontato: la grata di ferro. Il ferro, materiale duro, violento, diventa malleabile, si lascia plasmare, si trasforma in un filo con il quale ricamare la città. Come il baco da seta ha un capo da tirare per svolgerlo e dipanarlo, così il libro ha un filo dorato che bisogna seguire per immergersi nell’evoluzione delle cancellate, un itinerario per percorrere anche l’evoluzione del gusto artistico

In conclusione, De Vico Fallani pone l’accento su una specifica tipologia di portoni: l’analisi critica di circa 17.0 cancellate ha portato a individuare il particolare valore e l’identità figurativa di questa produzione artistica. Soffermandosi sulle origini, lo sviluppo, i rapporti con paesi esteri quali Francia e Gran Bretagna; le innovazioni tecnologiche e produttive legate alle nascenti industrie siderurgiche e metallurgiche hanno portato allo sviluppo di un nuovo artigiano: il fabbro ferraio, a lui il merito della realizzazione della cancellate romane.

Incandescente di Lucrezia De Lellis

AUTORI/LIBRI by

La poesia attraversa la distanza tra significati e significanti. Ha il compito di dissolvere, dal participio passato latino DIS-SOLUTUS: disfare, separando e disordinando le parti che compongono un tutto o mandando questo in frantumi. Le metafore, incandescenti, infuocate, ripristinano più veri e più lucenti i legami tra le parole, e delle parole con il nostro personale vissuto. Essa germoglia tra le macerie dell’anima dopo che, imprudente, si sporge a osservare la profondità del divario tra sé e il mondo. All’origine non vi è mai una pace interiore ma una vertigine di fronte al paradosso che fonda il senso.

Edoardo Buroni affermava che nella poesia e nell’essere poeti si individuano spunti semantici, enciclopedici o metalinguistici molto interessanti, che sovente si intersecano con altri temi cari all’autrice quali la dimensione spirituale, l’amore, la sofferenza, la carnalità, la pazzia e la vita. Sono tentativi di definizione evocativi, icastici, a volte ben circoscritti, a volte aperti a ulteriori pensieri non delimitabili in un orizzonte chiaramente definito; lo si può vedere già a proposito della poesia stessa. 

É quello che emerge in “Incadescente”, raccolta poetica di Lucrezia De Lellis, in grado di trasportare il lettore all’interno di una magia. La magia, secondo François Truffaut, non è quella dell’ipnologo tradizionalmente inteso, il quale è supposto a cercare, in vari modi, di veicolare il proprio ‘senso’ nella mente altrui, ma è il contrario! La magia non è altro che il sapere aprire l’accesso al ‘non-senso’ e a equipaggiare lo spettatore, a godere di esso invece di soffrirne. Scrivere versi non è dunque qualcosa che astrae dal mondo, ma qualcosa che conduce all’interno di una duplice dimensione: essere e non-essere, reale e non-reale.

“Scopro nuovi modi

Di essere me stessa,

Non trovo il fondo

Di questa mia essenza.”

Basta chiudere gli occhi, immergersi nelle parole della poetessa, abbandonarsi al proprio immaginario, al proprio reale. Lucrezia De Lellis regale un viaggio introspettivo, un viaggio di comprensione e accettazione di sé, del proprio essere, del proprio non-essere. Alda Merini diceva che la poesia è vita e la vita è poesia. Bisogna soprattutto vivere, stare fra la gente, avere contatti con le persone che ci interessano, magari andare a vedere un buon film altrimenti si parla solo di sé stessi. La prima condizione della poesia è la libertà, la gioia. La poesia è gioia, è transfert; non si può fare poesia in un luogo ristretto della dimora del proprio essere. La poesia è totale. 

Totale.

É questa la parola che descrive “Incandescente”.

Una poesia totale, matura, incredibilmente vera.

Il poeta altro non è che un uomo isola che viaggia tra sogno e realtà, che vive in quegli spazi fantastici dell’immaginario. La verità che emerge dai versi è una verità cruda, memorabile, talvolta sofferente, ma che si racconta come storia, come aneddoto, come appiglio alla vita, alla sopravvivenza. Il poeta è un buon giocatore, le sue bische clandestine sono le sue parole. È un giocatore “truccato”, fuorilegge della realtà.

“Cado negli 
Odori 
Dell’universo

Livido
Lo spessore 
Del silenzio 

Lascio sciogliere 
In questo buio 

Corpo senza scheletro, 
Cedo le mie ossa.”

“Ad una voce”, tra Purgatorio e Paradiso.

AUTORI/CULTURA/LIBRI by

Ilaria Gallinaro mette su carta la “voce”; la “voce” di cui si occupano questi saggi è quella di Dante, intesa come spia autobiografica o metaletteraria nascosta dietro le voci dei suoi personaggi, soprattutto quella di Pia e Piccarda: la prima per il suo rapido cenno alla fatica del viaggio, che è anche viaggio di scrittore e di scrittura; la seconda per l’allusione al concetto del voto, che non è solo voto religioso, ma anche promessa, sfida, sacrificio, per raggiungere il compimento della propria opera.

Percorrere i sentieri del mondo poetico di Dante è sempre un’avventura seducente, affascinante, specialmente se questo mondo è quello della sua Commedia. Il lettore si trova infatti davanti personaggi, paesaggi, situazioni, dialoghi, che nel loro variare, catturano la sua attenzione, parlano alla sua ragione, alla sua fantasia e soprattutto al suo cuore; e il poeta deve soprattutto parlare al cuore del lettore con cui deve dialogare per suscitare in lui sentimenti e, possibilmente, creare sintonia di affetti oltre che di idee. In questo grandioso affresco della Commedia, realizzato da Ilaria Gallinaro, emergono due personaggi femminili: Pia de Tolomei e Piccarda Donati.

Come emerge dagli studi condotti da Giuseppe Ledda, si tratta di due figure femminili che Dante ha posto sul suo cammino, quasi come un preludio, un’ouverture di una grande sinfonia poetica dove le note non sono segni musicali, ma parole cariche di armonia atte a suscitare idee, immagini e sentimenti nel cuore del lettore. Pia fu una nobile donna della famiglia senese dei Tolomei andata in sposa a un signore guelfo del castello maremmano della Pietra, podestà di Volterra, Nello dei Pannocchieschi definito come “bello e savio cavaliere”, ma altrettanto “vile uomo e poco leale.” 

La figura di Pia appare alla fine del Canto V del Purgatorio, dove si trovano le anime di coloro che morirono di morte violenta ed è la prima donna che Dante incontra nel Purgatorio. 

“Deh, quando tu sarai tornato al mondo, 
e riposato della lunga via 
seguitò il terzo spirito al secondo, 
ricorditi di me, che son la Pia”

Come ricorda Sermonti, la sua è un’apparizione molto breve, ma di forte intensità, in quanto prega Dante di ricordarsi di pregare per la sua anima una volta arrivato in Terra e riassume in questo piccolo discorso la sua tragica sorte, ossia indica il luogo di nascita e di morte, conosciuti da chi nell’atto di sposarla le fece infilare l’anello nuziale al dito. Pia ricorda solamente l’amore verso colui che ha sposato e il momento delle nozze ci indica l’amore verso il marito, anche se l’ha uccisa. L’emozione che trasmettono le sue parole brevi è il riflesso della violenza patita, a causa della quale essa riposa nell’eternità della morte. La presenza di Pia nell’antipurgatorio, tra le anime pentitesi in fin di vita, giustifica forse l’ipotesi della sua infedeltà coniugale. Se anche fosse accaduta, Pia si sarebbe pentita all’ultimo momento. Pia con le sue dolci parole esprime la preoccupazione per la fatica di Dante nello scalare la montagna del Purgatorio ed è il primo personaggio di tutto il poema che mostra affetto per la condizione di Dante, in quanto uomo vivo in un mondo ultraterreno “Deh, quando tu sarai tornato al mondo, e riposato della lunga via.” 

Come ha notato la Gallinaro, attraverso gli studi della Chiavacci Leonardi, la vicenda di Pia rappresenta il momento fondamentale della fine della vita di ogni cristiano: il distacco, sempre terribile, dalla vita; il pentimento e il perdono, dato a chi ha fatto del male e ricevuto per il pentimento stesso.

Piccarda, figura dominante del Canto III del Paradiso. A causa della trasfigurazione celeste della fisionomia delle anime, Dante non riconosce subito Piccarda, che gli si mostra nella dimensione mistica e corale della vita terrena come una figura trasparente. Con la sua disponibilità al colloquio con Dante, la Donati diventa la concreta realtà di quella carità che è l’essenza del Paradiso. Essa diventa l’emblema dell’amore verso il prossimo e verso Dio nel quale solamente si può godere la pace e la felicità piena, quasi come immersi in un naufragio di beatitudine immensa. Per Dante, Piccarda è bellissima, così tanto da non averla riconosciuta all’istante e si scusa in quanto non fu a “rimembrar festino”, perché le anime assumono un aspetto diverso da quello che avevano in vita. 

“E io all’ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza‟ mi, e cominciai, 
quasi com‟uom cui troppa voglia smaga”

Piccarda risponde al primo dubbio di Dante con occhi sorridenti, che è la condizione dei beati e gli spiega la gerarchia di beatitudine del Paradiso. Non esiste rammarico nelle anime beate siccome la parte essenziale della loro beatitudine è la concordanza perfetta della volontà loro e divina. Nel linguaggio usato da Piccarda si fonde la dottrina teologica e l’espressione dei sentimenti e dell’ardore che le anime beate esprimono, evidente nelle parole come: affetti, infiammati, letizian, carità, piace,’nvoglia. In seguito, Dante vuole conoscere la vita privata di Piccarda. La sua risposta è l’esempio della differenza tra la narrazione della vita dei beati, dei dannati e delle anime purganti. L’esperienza terrena viene collocata nella prospettiva dell’eternità e i momenti più ardenti vengono osservati con distanza. Piccarda racconta a Dante di essere stata in vita una suora ed è posta sul grado più basso di beatitudine assieme alle altre anime, perché i loro voti non furono adempiuti. 

Dunque, non solo memoria e rielaborazione di ciò che la precede, Piccarda è anche prefigurazione di ciò a cui il viaggio della Commedia tende. La domanda che Dante pone a Forese Donati, nel canto XXIV del Purgatorio “Ma dimmi, se tu sai, dov’è Piccarda”, potrebbe apparire pleonastica, perché la donna viene, comunque, rievocata nel cielo della Luna, ma la sua eco giunge fino alla rosa dei beati, fino all’ultimo sorriso di Beatrice. 

Proprio in questa Beata visio, costellata prettamente di figure femminili, Dante incontra le due donne che arricchiscono ancor di più il suo viaggio. Attraverso queste l pensiero politico-ecclesiale dantesco si consolida di ulteriori convinzioni, relativamente alla necessità di una totale rigenerazione del genere umano e al compito, che in tal senso è affidato alla parola stessa del poeta, di preannunciare i tempi e i modi d’una nuovissima età cristiana. 

“Ad una voce” cantano le anime appena giunte sulla spiaggia del Purgatorio. “Ad una voce” con Dante parlano, se le si ascolta attraverso i molteplici echi che contengono la lunga storia di Piccarda e il brevissimo intervento di Pia. Un unisono significativo nel grande coro del poema, dove le voci si inseguono e si rispondono, disegnando consonanze e dissonanze.

La scienza come dovere civile. Due scritti di Angelo Messedaglia.

AUTORI/CULTURA by

La straordinaria attualità di Angelo Messedaglia risiede nella sua apparente complessità, nel suo essere a un tempo cielo e terra, razionalità scientifica, senso della realtà e aspirazione all’interesse generale. Un’epistemologia, capace a un tempo di scongiurare irrealistici salti in avanti – conseguenza inevitabile di approcci esclusivamente teorici – e inconcludenti analisi meramente pratiche, orientata e subordinata al bene civile e collettivo del proprio Paese. E questo bisogno, più di ogni altro, giustifica ad abundatiam la pubblicazione del presente lavoro.

Leggi tutto: La scienza come dovere civile. Due scritti di Angelo Messedaglia.

Economista, statistico, parlamentare, eruditissimo uomo di scienza, nativo di Villafranca Veronese, con la sua vita e le sue opere lasciò una traccia profondissima nella storia italiana. Autorità indiscussa e indiscutibile in Italia e all’estero ai suoi tempi, unanimemente ritenuto il fondatore della scienza statistica accademica in Italia, ancor oggi si erge grande tra i grandi, per un insuperato insegnamento metodologico ed epistemologico applicato all’economia. Primo, autentico ed esemplare sostenitore dell’utilizzo del metodo matematico alle scienze sociali, ebbe tuttavia chiarissimi i limiti, oltre che i pregi, di una teoria economica espressa in formule matematiche. Infatti, mentre già nella prima metà del XIX secolo dimostrò che il metodo matematico avrebbe consentito all’economia di conseguire risultati insperati, simultaneamente insegnò che l’estensione acritica di quest’ultimo alla descrizione di ogni fenomeno, sarebbe stata la negazione stessa del valore scientifico della dismal science. Quanto sia ancor oggi tragicamente attuale questo insegnamento – il richiamo alla necessità di un confronto permanente tra i modelli teorici e la realtà effettiva dei fenomeni economici, in cui alla fine è la teoria a doversi conformare ai fatti e non il contrario – è sotto gli occhi di tutti. Anche in virtù del suo approccio globale e sovranazionale alla ricerca scientifica, il primato della sua metodologia fu riconosciuto universalmente e gli guadagnò fama e riconoscimenti ben oltre i confini nazionali. Notissimo tra i maggiori economisti del tempo, ossequiato come studioso, fu chiamato a ricoprire prestigiosi incarichi in ognuno degli ambiti in cui operò, alla luce di un prestigio internazionale espresso dai più illustri tra i suoi colleghi europei, contemporanei e postumi. Tutto ciò ricordato – nonostante quindi l’importanza straordinaria del suo apporto teorico – in realtà ciò che conferisce grandezza, originalità e sempiterna memoria alla sua opera di studioso è innanzi tutto la sua concezione politica e civile. Infatti, per Messedaglia – nella vita e nelle opere – non esiste una scienza puramente astratta e teorica, tantomeno se si discute di economia. La vera scienza è solo ciò che contribuisce al miglioramento concreto della vita delle persone e della società legittimamente organizzata, e chi vuole essere un buono scienziato deve sapere e deve ricordare di essere prima di ogni altra cosa un buon cittadino: «la scienza non è soltanto il vostro compito professionale; essa è altresi il debito vostro di patria». L’originalità, la rilevanza, l’attualità di questa visione etica e civile del lavoro dello scienziato giustificano certo, ma – crediamo – rendono urgente la riproposizione, a oltre duecento anni dalla nascita, dell’esempio di questo grande studioso, parlamentare, Presidente dei Lincei e gloria della cultura italiana, anche attraverso la pubblicazione di alcune – introvabili – tra le sue opere più significative.

Considerato uno dei padri della metodologia statistica in Italia, Messedaglia si oppose al prevalente indirizzo deduttivo nella scienza economica, invitando a procedere, secondo lo specimen galileiano, con il metodo dell’osservazione, elaborando i fatti per preparare con essi i fondamenti delle teorie. Avversario del meccanicismo e dell’evoluzionismo di Buckle e di  Darwin, chiarì il significato della regola in base alla quale i fenomeni statistico-demografici o demologici si ripetevano, scoprendo da un lato l’esistenza di un “ordine” nell’insorgere dei fenomeni e dall’altro che la scansione ripetitiva (o ricorrente) degli accadimenti era riferibile alla collettività indistinta, non all’individuo, perché l’individuo, anzi, per meglio dire, l’uomo, nella singolarità del suo essere, conservava la libertà e la responsabilità dell’agire. Lo studio del metodo come mezzo di progresso delle scienze sociali rappresentò uno dei temi centrali della sua attività scientifica. Seguace del positivismo come metodo di ricerca, non come sistema filosofico, Messedaglia ebbe come norma costante d’indagine di non concludere che nei limiti dei fatti osservati. La continua ricerca della perfezione scientifica, i numerosi lavori interrotti o ritirati quando erano ormai in corso di stampa, la necessità di provare e riprovare, la curiosità intellettuale, che lo portava a spaziare in tutti i campi dello scibile, condizionarono sul piano quantitativo, non qualitativo, la sua produzione.

E la scienza, nel modo e cogli intenti con cui si professa in generale nell’età nostra, sarà, o signori, il soggetto del mio discorso. Io vorrei dirvi dei caratteri che distinguono l’odierna cultura scientifica, mostrarvene la pratica efficacia, fermare più specialmente la vostra attenzione su quella che io considero come la condizione essenziale di tutto il resto, il culto, cioè, e l’onore della scienza pura, della scienza per sé medesima.

Elisabetta. La più amata.

AUTORI/LIBRI by

Aveva da poco festeggiato il Giubileo di platino, il 70esimo anniversario dello storico regno della regina Elisabetta II è terminato qualche giorno fa. Cala il sipario su Buckingham Palace, i riflettori si spostano sul Castello di Balmoral, luogo in cui la regina si è spenta. È stata la sovrana più amata, e pensare che non doveva neanche diventare regina, ma è stata l’unica capace di unire il Paese in momenti difficili. Uno stile molto riservato, un sorriso poco abbozzato. Carattere forte da vero conservatore british. La regina Elisabetta II è il simbolo del Regno Unito e anche di tutto il Commonwealth, l’organizzazione che si occupa di tutte le ex colonie e i possedimenti britannici oltre l’Isola. Nonostante un’immagine severa e di rigore, è assai amata, osannata a ogni passaggio, salutata dai suoi sudditi. Regina estremamente popolare, non risparmia la sua presenza in pubblico, con una devozione alla “causa” veramente encomiabile e molto apprezzata dai suoi sudditi. 


Quando Elisabetta salì al trono, nel 1952, Truman governava gli Usa e Stalin guidava l’Urss. Sette decenni più tardi, dopo la fine dell’Impero britannico, il crollo del comunismo, diverse tragedie collettive e da ultimo perfino la peggiore pandemia da un secolo in qua, lei è ancora al suo posto, anacronistica nei suoi completi pastello come nella sua rigida etichetta, impassibile di fronte alle tempeste e agli scandali che si sono accumulati nella vita della famiglia reale: dai vari divorzi alla morte di Diana, dai sex affair del principe Andrea alla ribellione di Harry e Meghan. Se gli avvenimenti sollevano più di un interrogativo sulla sopravvivenza della Corona, è innegabile però che la regina, dopo aver consacrato la sua lunga vita alla monarchia, sia ormai universalmente il simbolo del suo Paese.

Keep Reading

Mario Desiati ricorda la vita e la letteratura di Mariateresa Di Lascia: un inno agli irregolari, ai balordi, agli esiliati, a tutti coloro che hanno desiderato almeno una volta nella vita di cambiare casa e identità.

A Rocchetta Sant’Antonio, sabato 27 agosto, una serata per celebrare la letteratura pugliese: nel piccolo borgo nasce un percorso di arte pubblica con murales dell’artista e fotoreporter Alessandro Tricarico. «Dedico questo premio agli scrittori pugliesi e in particolare a Mariateresa Di Lascia che vinse lo Strega nel 1995 ma non poté ritirare il premio perché morì alcuni mesi prima» ha detto Mario Desiati, lo scorso luglio, quando ha ritirato il Premio Strega 2022 per Spatriati, un romanzo che vede al centro la sua Puglia; un’opera sui legami che vincono la distanza, sulla scelta di andare lontano per riuscire a trovarsi. 

Keep Reading

Lorenzo Sassoli De Bianchi: la necessità di tornare a sperare.

AUTORI/LIBRI by

Lorenzo Sassoli De Bianchi torna in libreria con un nuovo libro: La luna argento, edito da Sperling&Kupfer, un nuovo inno ai poeti dimenticati, all’arte, spesso dimenticata. Se il suo romanzo di esordio può essere considerato un musical che ha provato ad unire musica e letteratura, “La luna argento” tenta di mescolare anziani artisti e giovani emarginati. Un romanzo di grande attualità che permette di riflettere e cambiare modus pensandi, un romanzo dalla trama interessante che parte da Santa Tea. 

Keep Reading

Convalescenza: spiare rettangoli di vita

AUTORI/LIBRI by

Talento, dal greco τάλαντον, letteralmente piatto della bilancia, somma di denaro, moneta, ma il talento è anche dote. Il significato più arcaico di unità di peso e importo monetario evidenzia l’importante connotazione della parola. Dal momento che la moneta stessa era un metallo prezioso, il talento era una risorsa enorme, una ricchezza senza precedenti.

Nicola Curti è un autore emergente talentuoso, nel senso letterale del termine, ricco di sfumature, di sfaccettature pronte a farti immergere in quei tratti di inchiostro puri, ameni. Scrivere poesie oggi è per pochi e, sicuramente, Nicola fa parte di questa élite. La sua poesia è un anticorpo contro il dilagare della sterilità, contro la sfiducia nella vita, come diceva Montale, uno spiraglio in grado di avvicinare l’io alla parte più intima e sensibile del sé. 

Mi piacciono le noti dolci, tristi,
le meste armonie che disegnano
sprazzi notturni. Dentro i ricordi
di luci lontane, dimesse, stridono
di bianca asprezza gli accordi
dissonanti del cosmo.
Anche
con gli orecchi si può alzare
il mento, anche con la pelle si può.
Tutto il nostro essere umani,
a volerlo spremere, si condensa
in questo: alzare il mento.

“Convalescenza”, dal latino tardo convalescentia, derivato di covalèscere: riprendere forza, ristabilirsi, ma anche acquistare valore, opera di esordio, un sogno scoperto nell’ossessione, il lettore resta inchiodato sul sedile di un’auto in accelerazione, schiacciato dall’indecisione. Una raccolta di poesia che può essere definita come il prolungamento di una carezza alla vita

Georges Ivanovič Gurdjieff ha affermato che la vita è reale solo quando io sono.

“Convalescenza” conduce il lettore in un’esplorazione dell’io. Un’esplorazione recondita e rediviva, attenta e naturalistica. Procedimento di un ostacolo e superamento dello stesso, modalità attraverso cui l’io oltrepassa sé stesso, vincendo contro la realtà reale, vincendosi di continuo. Con le sue parole, il Poeta, ha interrogato il passato, gli angoli bui della mente, unico modo per potersi specchiare nel futuro, per attingere l’inattingibile. Poesia snelle e musicali, versi asciutti, puliti, puri, una purezza che fa emergere il tema della raccolta: la malattia mentale. Parlare di malattia mentale non è mai facile, ma Nicola lo fa. Intraprendendo un viaggio catartico si fa timoniere nella tempesta, affronta con delicatezza ogni morbo, ogni diversità, scende nei marci tuguri dove si secca e fa la muffa il cuore, nonostante l’io poetico cerchi il mare. Sepolcri d’amore, specchi assassini, montagne che accolgono. Onde strane, onde brune, adagiate tra tratti neri e angoli taglienti. Onde strane, onde lucenti, adagiate tra tratti giallognoli e angoli di volta celeste. Bisogna ascoltarle, accarezzarle, farsi ammaliare, è così che si diventa pescatori di versi, lasciandosi sedurre da loro, come accadde a Ulisse con Circe.

[…]
Ci vogliono polmoni grandi
per raggiungere il mare aperto. 
Lì, dopo i frangiflutti, 
nel deserto blu, si può 
tornare a respirare.

Redazione
0 0,00
Go to Top
WhatsApp chat
× Come posso aiutarti?