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La Minaccia della Radicalizzazione jihadista nei Balcani

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La storia dei Paesi Balcanici è inestricabilmente legata ad un conflitto etnico e religioso, che ha accompagnato la formazione delle identità nazionali fin dal Medioevo. Da circa vent’anni si ha una rappresentazione geografica dei Balcani divisa politicamente e territorialmente. Eppure, analizzando in profondità la composizione, ci si rendere conto di come ancora oggi la società slava-balcanica sia difficilmente identificabile come omogenea o stabile.

Oltre alla storica segmentazione e confusione etnica, che ha causato nello scorso secolo tragedie tristemente note, negli ultimi anni si sta assistendo ad un ulteriore frammentazione legata alla dimensione religiosa. Nella penisola balcanica ci sono paesi a maggioranza cattolica-ortodossa (la Serbia), e paesi a maggioranza musulmana (la Bosnia, l’Albania, il Kosovo). Ma è proprio in questi ultimi che si sta verificando ormai da tempo (ma della quale solo oggi se ne vedono i risultati) una frattura tra un tipo di Islam moderato-tradizionale, ed un nuovo tipo di Islam radicale, legato alla influenza diretta dai Paesi del Golfo Arabo: il Qatar, il Kuwait, l’Arabia Saudita. Ovvero: la scuola salafita e wahabita dell’Islam.

Le monarchie del Golfo arabico hanno ampliato costantemente la loro influenza nei Paesi balcanici, sfruttando ed estendendo la comune corrente sunnita. Essi hanno finanziato la ricostruzione dei paesi dopo le guerre civili, hanno costruito moschee ed educato i giovani studenti alla religione coranica e investito miliardi di dollari nelle rispettive economie.

Sebbene i Balcani siano territorialmente più vicini all’Europa (quindi all’Occidente), l’ombra e l’influenza islamica salafita si è progressivamente insinuata nelle crepe della società slava, sfruttando la poca attenzione posta dalle potenze occidentali. Per questo, oggi, i Paesi slavi tornano ad assumere una rilevanza strategica e essenziale per l’Occidente; la Serbia, la Bosnia, l’Albania e il Kosovo sono diventati non solo dei safe heaven per i terroristi, ma anche un importante hub di radicalizzazione e reclutamento di nuovi militanti.

Il caso Serbo:

Questa progressiva estensione delle monarchie arabe sulla penisola balcanica, ha fatto in modo che le correnti dell’islam radicale salafita e wahabita (e l’organizzazione terroristica al-Takfīr wa l-Hijra), si infiltrassero anche in un paese a maggioranza cattolica-ortodossa come la Serbia.

Già nel 1939 venne fondato il gruppo dei Mladi Muslimani (I Giovani Musulmani), e ad oggi risultano operanti dozzine di gruppi islamici radicali collegati alla cellula di al-Qaeda o di Jabath al-Nusra, per un totale di almeno 1500 persone appartenenti alla corrente wahabita e salafita. Nella Serbia centrale e nella regione di Belgrado il 90% dei serbi si dichiara cattolico ortodosso, ma le stime cambiano nella regione a Sud-ovest del Paese, ovvero nel Sangiaccato e al confine con il Kosovo. Qui infatti la religione prevalente è l’islam, grazie alla presenza dei Bosgnacchi e di albanesi. Ed è qui, nella cittadina di Novi Pazar, che si trova la moschea di Altun-Alem, da tutti considerato centro islamico sunnita del Sangiaccato, e spesso accusato di proselitismo e radicalizzazione della popolazione musulmana locale.

Se generalmente in Serbia le organizzazioni islamiche sono di piccole dimensioni, esse sono ben organizzate e legate a gruppi separatisti o nazionalisti albanesi e macedoni. Quest’ ultime sono attive particolarmente nel campo del traffico della droga e delle armi, in cooperazione con gruppi terroristici provenienti dal Medio Oriente.

In Siria ed Iraq sono stati individuati solamente 28 foreign fighters provenienti dalla Serbia, le cui partenze sono avvenute tra il 2013 e 2014, tra cui anche 2 donne. Di questi risulta che 11 siano rimasti uccisi sul fronte, mentre altri 10 sono sotto la stretta sorveglianza della polizia serba. Al 2016 non si sono contati altri casi di serbi partiti per arruolarsi nell’ISIS, fatta esclusione per 5 albanesi provenienti dalla regione del Sangiaccato.

 

Bosnia-Erzegovina:

La situazione cambia radicalmente nello stato storicamente più legato al mondo musulmano della regione balcanica, ovvero la Bosnia. Secondo l’ultimo censimento effettuato nel 1991, nel paese il 44% della popolazione si dichiarava musulmana (i cosiddetti Bosgnacchi); facendo riferimento alle stime ONU del 2005, gli abitanti dello Stato di Sarajevo erano circa 3.890.972, di questi almeno la metà di religione islamica sunnita: circa 1.900.000 persone. In relazione all’ultimo censimento del 2013, la popolazione musulmana risulta essere il 54% del totale.

Già da questi numeri si coglie la grande differenza rispetto alla Serbia. Tali dati sono spiegati dallo storico radicamento dell’Impero Ottomano nella regione, le conversioni religiose legate ai vantaggi fiscali (chi si fosse convertito all’Islam non avrebbe infatti pagato le tasse all’Impero), e l’aiuto che la popolazione bosniaca-musulmana ricevette durante la guerra civile dai numerosi Mujaheddin provenienti dai paesi della Penisola arabica. Molti di loro dopo l’indipendenza della Bosnia-Erzegovina sono tornati nei loro paesi d’origine; mentre molti altri sono rimasti a Sarajevo e hanno aperto Moschee e scuole coraniche, finanziate dalle monarchie del Golfo, da organizzazioni “umanitarie” e ONG legate al mondo islamico. Hanno importato così un nuovo tipo di Islam, intollerante ed estremista, legato alla corrente wahabita, salafita e anche a quella ancor più radicale di al-Takfir ; il quale si scontrava con l’islam moderato e tollerante, storicamente presente nel paese.

Se è errato fare di tutta l’erba un fascio e identificare il Salafismo come una corrente di per sé violenta e radicale, la stessa cosa non si può dire dell’organizzazione di al-Takfir. Il Salafismo sfida le deboli istituzioni statuali, il concetto di famiglia, l’uguaglianza dei generi, il diritto all’educazione, e tutti i valori portanti per la società occidentale. I Takfiri, seppur minoritari nel paese, sono tuttavia intrinsecamente legati al Jihad, alla guerra religiosa, alla lotta contro gli infedeli e all’apostasia. Che non solo è indirizzata contro i cristiani, bensì anche contro l’islam pacifico presente in Bosnia da secoli. La già etnicamente segmentata società bosniaca viene quindi a frammentarsi ulteriormente, nel momento in cui le rivendicazioni politiche dei vari gruppi etnici vengono sostenute e giustificate da un elemento religioso radicale.

Si contano in Bosnia almeno 300 salafiti considerati pericolosi, la maggior parte legata alla famosa moschea del Re Fahd, completamente finanziata dall’Arabia Saudita, che è la più grande della penisola balcanica. Tuttavia molti sono i villaggi periferici che rischiano di diventare, o sono già diventati, dei veri “villaggi della Sharia”. In particolare l’area di Velika Kladusa, nel cuore dell’Europa, è diventata un vero e proprio hotspot per jihadisti. Secondo le stime però del Ministero della Sicurezza bosniaco, sarebbero all’incirca 64 le realtà islamiche sospettate di radicalismo.

Albania e Kosovo:

Il Kosovo e l’Albania sono, insieme alla Bosnia, la vera base logistica nei Balcani per i gruppi estremisti islamici che si avvicinano all’Europa. In Kosovo la popolazione è al 95% musulmana, in Albania al 60%. Da qui passano la maggior parte dei migranti provenienti dai paesi medio orientali e africani, e lungo la rotta balcanica hanno la possibilità di ottenere aiuti di ogni genere: sia di finanze che di armi. La condizione socioeconomica dei due paesi è molto simile: hanno entrambi una popolazione mediamente molto giovane e molto povera. Mentre il tasso di disoccupazione è al 14,50%, la disoccupazione giovanile è al 28%. Nel 2014 circa 46.000 persone hanno lasciato il paese, e 16.000 cittadini hanno chiesto asilo in altri paesi europei. Se questo è possibile, la situazione è perfino peggiore in Kosovo. Il paese ha una delle economie meno sviluppate d’Europa: il tasso di disoccupazione è al 32%, quella giovanile addirittura al 60%.

Questa situazione socioeconomica rende ovviamente i giovani albanesi e kosovari di fede musulmana, fortemente attratti e spinti ad avvicinarsi a gruppi estremisti, che promettono loro soldi e prospettive di vita migliori legate al jihadismo, ma l’insediamento delle comunità islamiche è avvenuto a partire dal crollo del comunismo. Molteplici ONG e fondazioni legate ai paesi arabi si sono avvicinate ed hanno investito milioni di dollari nella ricostruzione dei due Paesi, ed in aiuti umanitari alle popolazioni albanese e kosovara. Importanti aiuti sono arrivati anche dai Fratelli Musulmani e da gruppi economici vicini all’Iran. Riguardo a questi finanziamenti ed investimenti da parte di ONG e Stati nazionali, non è mai stato effettuato un controllo approfondito.

Se già nel 1992 l’Albania entrò a far parte della Conferenza Islamica, e ad oggi si contano circa 700 moschee, di cui almeno una dozzina sono considerate fuori il controllo dello Stato, in Kosovo il fenomeno di insediamento salafita e wahabita è ovviamente più recente. Dopo il conflitto nel 1999, numerose Organizzazioni umanitarie provenienti da Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Emirati Arabi, hanno partecipato alla ricostruzione del paese che nel 2008 ha dichiarato la sua indipendenza. La Turchia ha costruito 20 nuove moschee, ristrutturandone 13 appartenenti all’Impero Ottomano.

Anche qui le correnti salafita e wahabita non sono le uniche presenti; si ripresenta infatti la corrente dei Takfiri, tra le più radicali ed estremiste del panorama sunnita. Ovviamente le organizzazioni terroristiche trovano terreno fertile nei due paesi balcanici, a causa della drammatica condizione economica e sociale. In Medio Oriente si contano circa 115 foreign fighters provenienti dall’Albania, di cui 30 ancora attivi in Siria. Le cifre date dal Ministero dell’Interno del Kosovo sono ancora più impressionanti: su una popolazione di 1,8 milioni di abitanti sono 360 le persone che si sono spostate in Siria ed Iraq, di cui 60 sono donne.

Conclusioni:

Storicamente i Balcani hanno sempre giocato un ruolo centrale nello scacchiere geopolitico, ponendosi a metà strada tra Europa ed Asia. In questi ultimi anni l’attenzione occidentale si è spostata su altre regioni, e le conseguenze stanno risultando drammaticamente evidenti. La Bosnia, l’Albania ed il Kosovo sono i casi più pericolosi, ma in generale tutta la penisola balcanica è diventata una base logistica per numerosi gruppi terroristici, che stanno rafforzando la loro presenza, grazie ai finanziamenti e i rifornimenti di armi; ciò può interessare però anche i cd. lone wolves, individui non formalmente collegabili ad organizzazioni, ma soggetti al pensiero fondamentalista islamico. Non può essere un caso che dalla Rotta Balcanica siano passati armi e persone ricollegabili agli attentati in Europa.

Per anni l’Unione Europea e l’Occidente hanno erroneamente dimenticato l’importanza strategica della penisola balcanica, lasciando che interessi contrapposti penetrassero e si rinforzassero nella regione. Non più solo la storica influenza russa sulla Serbia, ma anche l’aumento della presenza araba (Arabia, Qatar, Kuwait e Turchia), pericolosa per l’instabilità della regione e per l’Europa intera. Solo dal 2014 l’UE ha adottato un piano di collaborazione con i paesi balcanici per la difesa e la sicurezza di quest’ultimi. Bisogna tuttavia ricordare che il Kosovo, oggi il più pericoloso hub per organizzazioni terroristiche nei Balcani, non è parte dell’Interpol: ciò ostacola fortemente la nascita di una collaborazione di intelligence e polizia.

Dalla analisi dei diversi Paesi risulta determinante un minimo fattore comune: la drammatica situazione socio-economica. In queste società già storicamente frastagliate, il crollo delle condizioni economiche, l’aumento esponenziale della disoccupazione soprattutto giovanile, la debolezza intrinseca delle istituzioni politiche sono fattori di attrazione e acceleramento della penetrazione islamica nei Paesi.

Solo nel dicembre 2015 è stato firmato dall’UE il piano d’azione coordinata con i governi dei Paesi balcanici, il Western Balkan counter-terrorism initiative 2015-2017, a cui farà seguito la Integrative Plan of Action 2018-2020. Attraverso queste iniziative l’Unione sta cercando di riavvicinare la regione al mondo europeo, collaborando nella ricerca, nell’attività di intelligence e nella repressione delle organizzazioni terroristiche. Correntemente è passato troppo poco tempo per avere prova soddisfacente dei risultati ottenuti (la stessa UE non ha ancora pubblicato un report ufficiale di valutazione dell’impatto dell’iniziativa); tuttavia è palese la mancanza di indicatori del successo del programma. Non è ben chiaro quale vuole e deve essere il risultato di questi programmi, e come fare a valutare il suo successo.

Ciò che comunque dovrà fare l’Europa in futuro per aumentare la prevenzione sarà iniziare il dialogo, non più solo con i rappresentanti del governo, ma soprattutto con i rappresentanti della società civile. È fuori discussione che per avere un efficace programma di prevenzione del terrorismo, sia necessario includere tutti gli attori sociali all’interno del dibattito. Bisognerà capire chi sono i veri alleati all’interno di questo processo, ed escludere quindi i false friends; sarà fondamentale non limitare il procedimento alla semplice repressione, implementazione e adozione di leggi repressive, ma allargarlo bensì all’inclusione economica e politica dei Balcani nell’influenza dell’Europa.

La sfida della prevenzione e della stabilizzazione della regione balcanica sarà cruciale per la credibilità dell’Unione, e forse, della sua stessa esistenza. Avere una simile base logistica alle porte dell’Europa per i terroristi, è qualcosa che non può più essere ignorato. L’Italia, per la sua vicinanza geografica e storica alla regione, deve farsi capo di questo programma di lotta al terrorismo e di cooperazione economica coi Paesi balcanici. Questo obiettivo però potrà essere raggiunto solo se a questa azione collaborino tutti gli attori rilevanti nell’area: gli Stati balcanici, l’Unione Europa e la NATO.

 Adriano Cerquetti

Crisi profughi: l’attività di Msf in Grecia

EUROPA di

La Grecia è il Paese europeo da cui transitano il maggior numero di migranti, in special modo profughi siriani e iracheni. Negli ultimi due mesi, essi hanno approfittato del lasciapassare dai confini turchi. Le isole del Mar Egeo costituiscono la prima tappa per raggiungere gli altri Paesi dell’Ue attraverso la rotta balcanica: 244 855 persone sono infatti transitate dalla Turchia alla Grecia da gennaio ad oggi. Per esaminare al meglio questa emergenza umanitaria, European Affairs ha intervistato Constance Theisen, Responsabile degli Affari Umanitari di Msf in Grecia. Tra i temi affrontati, le attività in loco della Ong, tra cui cure mediche e distribuzione di generi di prima necessità ai migranti.

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Quali funzioni svolge Msf in Grecia?

“Il nostro scopo in Grecia e lungo la rotta dei Balcani (infatti, siamo attivi anche in Serbia), è di cercare di aiutare i migranti e i rifugiati appena arrivati, dove ce n’è necessità:

– Isola di Lesbo: acqua e servizi igienico-sanitari nel campo di Kara Tepe e nel campo informale di Moria. Abbiamo messo a disposizione due squadre mediche per le cliniche mobili nei campi e nel porto Mitilene, dove la gente dorme all’aperto. Abbiamo predisposto anche un servizio di sostegno alla salute mentale attraverso uno psicologo. In più, essite un servizio navetta dal nord al sud dell’isola, in modo che le persone non debbano percorrere 65 chilometri a piedi sotto il sole;
– Isola di Kos: rifugio, acqua, servizi igienici e cliniche mobili nel campo dell’hotel Captain e ovunque nel centro abitato di Kos, dove la gente dorme all’aperto. È stato istituito un sostegno alla salute mentale tramite uno psicologo. È stata inoltre allestita la distribuzione di kit con coperta, torcia, spazzolino da denti, dentifricio, barrette energetiche;
– Isole del Dodecanneso: una squadra medica è di base su una barca per cliniche mobili nelle isole di Simi, Leros, Tilos, Kalymnos. Esiste un centro di distribuzione di generi non alimentari: kit con coperta, torcia, spazzolino da denti, dentifricio, barrette energetiche. Abbiamo istituito un supporto, in tutte le isole, di attivisti locali e mediante il ricovero (tende di reti ombra) per creare uno spazio in cui le persone possano dormire;
– Atene: abbiamo un progetto per aiutare le persone che hanno subito maltrattamenti (torture …) con un supporto medico e psicologico e un assistente sociale;
– Al confine settentrionale tra la Grecia e la Macedonia: lavoriamo al valico di Idomeni, dove la gente viaggerà fino alla destinazione finale attraverso la croce balcanica in Macedonia. Qui esiste un gruppo di medici per le consultazioni, uno psicologo e abbiamo installato servizi igienici e docce. Il nostro team distribuisce anche articoli non alimentari: it kcon coperta, torcia, spazzolino da denti, dentifricio, barrette energetiche”.

 

La Grecia è divenuta a tutti gli effetti il punto principale di passaggio verso Germania, Svezia e Norvegia?

“La Grecia è divenuta la principale porta d’accesso all’Europa: 244855 persone sono arrivate finora (attraversando il tratto di mare dalla Turchia alle isole del Mar Egeo) contro i 119500 arrivi in Italia dall’inizio del 2015 (secondo le stime dell’Unhcr diffuse l’8 settembre 2015)”.

 

Qual è l’atteggiamento del governo greco nei confronti dei profughi?

“Il governo non ha dimostrato di possedere nessuna capacità di comando per rispondere alla crisi in modo costruttivo. L’unico modo per risolvere il problema di tante persone che arrivano sulle isole, costretti a dormire fuori per giorni prima che la polizia locale li registri e dare loro la carta necessaria per lasciare l’isola, è quello di avere più polizia di frontiera che operi nei campi di accoglienza/di transito in tutte le isole. Invece, le autorità greche hanno inviato più polizia antisommossa e non hanno messo in campo nessuna iniziativa per individuare spazi (campi, stadi …) in cui la ricezione a lungo termine possa essere organizzata. Essi hanno disatteso le proprie responsabilità: nessuna distribuzione di cibo organizzata nella maggior parte delle isole (Kos, Leros, Symi, Kalymnos) o insufficienti in tutti gli altri (Lesbo, per esempio). E hanno abusato dei migranti con un uso eccessivo della forza di polizia (la scorsa settimana, a Lesvos, il nostro team medico ha trattato oltre 10 persone che hanno riferito di essere stato picchiato da polizia)”.

 

Secondo il vostro punto di vista, quali sono le differenze con l’operato del governo italiano?

“Non posso parlare in maniera esaustiva del sistema italiano d’accoglienza, poiché non lo conosco così da vicino. Tuttavia, credo che l’Italia abbia messo in atto un sistema nazionale di accoglienza, in conformità con le norme dell’UE, fornendo due cose: all’arrivo uno screening medico e lo screening per le vulnerabilità a tutte le persone che arrivano; riparo (centri) e cibo in tutto il paese.

Invece, in Grecia:
– nessuno screening sanitario sistematico;
– nessuno screening per le vulnerabilità;
– nessun rifugio, eccetto in alcuni posti nelle isole di Lesbo e Chios;
– nessun approvvigionamento sistematico degli alimenti;
– nessun accesso ai servizi igienico-sanitari, tranne in alcuni posti nelle isole di Lesbo e Chios.

 

Quanto le rotte terrestri sono preferite a quelle marittime?

“La via utilizzata dai Siriani per raggiungere l’Unione europea è cambiata per una serie di motivi. La situazione attuale in Libia. Le restrizioni sui visti per i siriani in viaggio verso l’Egitto. Il soggiorno sempre più difficile in Giordania, Libano e Turchia, come riportato dall’Unhcr sull’accesso ai servizi di protezione e al mercato del lavoro locale. In Grecia, dal momento che i controlli negli aeroporti sono aumentati, sempre più persone scelgono la via di terra attraverso i Balcani per raggiungere la loro destinazione finale”.
Quali sono le vostre statistiche relative al 2015?

“ Gli interventi fino al 31 luglio sono stati:
– 3236 a Kos;
– 300 nelle vicine isole del Dodecaneso;
– 3000 a Idomeni.

I kit distribuiti fino al 31 luglio sono stati più di 20 000 in tutto il Paese”.

Giacomo Pratali

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