La lezione realista sulla crisi ucraina
I negoziati di Minsk del 12 febbraio scorso, accolti dalla diplomazia europea e statunitense come un primo passo indispensabile verso l’auspicata soluzione della crisi ucraina, hanno messo a nudo il fragile accordo sul quale dovrebbero reggersi le sorti delle future relazioni est-ovest. Difficilmente la lunga linea di “faglia” che attraversa l’Europa e divide l’Ucraina in due fronti contrapposti, uno occidentale e uno ortodosso, avrebbe potuto essere più evidente. E non solo perché, ancora oggi, continua a grondare di sangue, ma perché è la storia stessa del paese a rimarcare le divisioni e i conflitti che lo hanno a lungo forgiato. Se da un lato secoli di difficile integrazione tra cultura occidentale e cultura slava hanno rappresentato, in seguito all’indipendenza dall’Unione Sovietica, un ostacolo insormontabile alla costruzione della nazione, dall’altro va rilevato come oggi, purtroppo, in Ucraina non esista più nemmeno lo Stato.
Per questi motivi, una corretta interpretazione degli accordi di Minsk, alla luce dei possibili scenari che si aprono per il paese e per i rapporti tra Usa, Ue e Russia, non può che passare per la constatazione del consumato fallimento della nazione e della attuale difficoltà della leadership ucraina a mantenere l’integrità dello Stato. L’esito del lungo e laborioso negoziato, che di fatto ha ripreso le coordinate generali dell’accordo già stilato a settembre, limitandosi ad entrare più in dettaglio su alcuni punti nevralgici, è stato quello di limitare temporaneamente la violenza e non di eliminarla, come confermano le ultime notizie dal fronte orientale di Donetsk e Mariupol. Nonostante gli accordi contemplassero almeno la fissazione del cessate-il-fuoco, la liberazione dei prigionieri, il ritiro delle armi pesanti e di tutte le truppe straniere e mercenarie dal suolo ucraino, allo stato attuale l’Osce, che secondo il punto 2 del documento avrebbe dovuto supervisionare con il sostegno delle parti interessate il processo di ritiro delle armi pesanti, non ha ancora avuto accesso alla zona dell’aeroporto di Donetsk, controllata dai separatisti filo-russi.
Sul piano strategico, le lacune, o se vogliamo le ambiguità più rilevanti, riguardano soprattutto i punti 9 e 11 dell’accordo, dove si parla rispettivamente di «ripristino del pieno controllo sui confini statali da parte del governo dell’Ucraina in tutta la zona del conflitto» e dell’entrata in vigore, entro il 2015, di «una nuova costituzione che abbia come elemento chiave una decentralizzazione», nonché l’approvazione di «una legislazione permanente sul futuro status di singole zone delle regioni di Donetsk e Lugansk».
Al momento, sul ripristino del pieno controllo dei confini statali da parte del governo ucraino è quanto mai lecito dubitare: come è noto, l’accordo tace diplomaticamente sulla pregressa annessione della Crimea da parte di Putin. Ed è proprio su questo silenzio che l’Occidente e la Russia, più o meno consapevolmente, dovranno ridisegnare la nuova mappa geopolitica dell’Europa. Mosca, infatti, ha per ora fornito un’efficace azione preventiva dinanzi allo spettro di un’Ucraina democratica e integrata nell’Ue e nella NATO, salvaguardando i propri interessi strategici nell’area e mantenendo il controllo delle basi militari dislocate sul Mar Nero. La fiacca risposta occidentale, come ha giustamente sottolineato Angelo Panebianco sulle pagine de Il Corriere della Sera, non solo ha aperto una crepa pericolosissima sulle prospettive di stabilizzazione dell’area, ma rischia addirittura di costituire il propellente ideale per tutte le rivendicazioni separatiste delle minoranze filo-russe dalla Bielorussia al Baltico.
Ne consegue che la ricostruzione del futuro assetto territoriale e politico dell’Ucraina non potrà assolutamente prescindere da un accordo preventivo tra Bruxelles, Washington e Mosca sulla collocazione strategica del paese. Se l’ipotesi di una divisione dell’Ucraina in due entità distinte, una filo-occidentale e una filo-russa, pur rappresentando una gravissima sconfitta per Kiev e i suoi alleati, potrebbe consentire ad entrambe le parti di seguire il proprio destino, è evidente che la soluzione federale, timidamente abbozzata a Minsk, necessiti di sforzi ulteriori per essere davvero praticabile. Anche chiudendo un occhio sulla Crimea e presupponendo, ottimisticamente, che si riesca a trovare un compromesso sullo status delle regioni orientali nell’ambito di un assetto federale, resta ancora da sciogliere il nodo dell’allineamento internazionale dell’Ucraina. Qualora dovesse eleggere democraticamente i propri rappresentanti, potrà entrare nell’Unione Europea e nella NATO? Sarà in grado di far fronte alla sua dipendenza economica ed energetica da Mosca?
Qualsiasi tentativo di eludere queste domande rischia di porre un altro mattone sul muro che già separa gli Stati Uniti e l’Europa dalla Russia. Il fatto che Putin continui a percepire questo muro come qualcosa di estremamente reale è confermato dai ripetuti avvertimenti lanciati contro l’allargamento della NATO e il sostegno occidentale ai movimenti democratici ucraini a partire dalla Rivoluzione arancione. Alla fine, la risposta russa è giunta. Il paradosso, se davvero può definirsi tale, sta nelle divisioni e nelle incertezze europee, nel discontinuo impegno americano, nella scarsa lungimiranza delle élites occidentali, le quali, parafrasando John Mearsheimer, nel XXI secolo ritengono di poter soppiantare la logica realista con i principi liberali dello stato di diritto, dell’interdipendenza economica e della democrazia per espandere la libertà e la sicurezza in Europa. Tuttavia, la logica realista non implica necessariamente il ricorso alla forza. Al contrario, presuppone sempre un’adeguata ponderazione degli interessi e delle risorse in campo per evitarla. Esattamente quello che, finora, è mancato.
Barbara Pisciotta è professore associato di Scienza politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre, dove insegna Relazioni internazionali e Politica internazionale. E’ autrice di tre volumi e numerosi saggi sugli aspetti interni e internazionali della democratizzazione dei paesi dell’Europa dell’Est.