GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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INNOVAZIONE - page 14

Festival del giornalismo di Perugia, il live social network dell’informazione

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Il prossimo 15 aprile a Perugia l’annuale appuntamento con il mondo del giornalismo, cinque giorni di eventi, workshop e conferenze che diventano, grazie ai tanti visitatori, un momento di confronto e di formazione per chiunque operi nel settore o anche sia solo interessato al mondo della comunicazione.

Un ambiente stimolante e partecipativo che conferma con i sui numeri sempre crescenti di essere un punto di riferimento nel settore.

Nei cinque giorni si alterneranno in workshop e seminari tantissime voci internazionali che porteranno la loro esperienza e il loro vissuto giornalistico contribuendo alla crescita professionale e culturale dei visitatori.

Lo slogan di questa edizione è: #ijf15 everybody learning from everybody else. Tutti possono imparare da tutti” che in questa era di comunicazione digitale e globalizzata vuole essere un invito a condividere, fare network per poter crescere professionalmente e umanamente.

Arriveranno a Perugia da tutto il mondo sia i tanti volontari che aiutano la macchina organizzativa a realizzare l’evento ma  anche  studenti, aspiranti giornalisti, fotografi provenienti da 26 Paesi diversi: Albania, Belgio, Brasile, Bulgaria, Canada, Cina, Croazia, Etiopia, Germania, Guatemala, India, Iraq, Italia, Moldavia, Nuova Zelanda, Olanda, Repubblica Ceca, Russia, Slovacchia, Spagna, Sud Africa, Svezia, Ungheria, USA, Venezuela, Zambia.

Sponsor della manifestazione sono anche quest’anno  Google, Nestlè, Sky e come patrocinatori  istituzionali la Commissione Europea Rappresentanza in Italia.

Un impegno importante in questo periodo di crisi da parte di queste aziende che ha permesso di realizzare in 5 giorni, oltre 200 eventi, ospitare oltre 500 speaker da 34 paesi diversi, tutto rigorosamente a ingresso gratuito

Tra i tanti eventi segnaliamo:

Edward Snowden e il dibattito su sorveglianza e privacy

Per la prima volta, in Italia, si terrà un dibattito che vedrà la partecipazione degli stessi protagonisti: Edward Snowden, il whistleblower che ha rivelato l’enorme portata delle pratiche di sorveglianza della NSA e Laura Poitras, la regista recentemente vincitrice di un premio Oscar per il documentario Citizenfour, in cui ha ripreso le riunioni avvenute tra Snowden e i giornalisti, e di un premio Pulitzer per l’inchiesta giornalistica che ha divulgato la storia. L’avvocato di Snowden, Ben Wizner (ACLU), e il direttore della neonata Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili Andrea Menapace analizzeranno le implicazioni della vicenda sui diritti umani.

Alla ricerca di business model

Le redazioni si restringono, i lettori si spostano su più piattaforme ignorando l’eredità delle testate tradizionali, la pubblicità emigra: qual è il modo migliore per garantirsi la sostenibilità economica della propria testata? Tra esperimenti e analisi, l’esperienza di chi sta cercando una via d’uscita, dal crowdfunding alle soluzioni in stile iTunes. A discuterne tra gli altri, Raju Narisetti, senior vice president News Corp, Alexander Klopping, 27 anni, fondatore di Blendle, un sistema olandese per il giornalismo basato sul modello di iTunes e supportato dal New York Times e dall’editore tedesco Axel Springer, George Brock, che insegna giornalismo alla City University di Londra ed è autore del libro “Out of Print”.

Raccontare le nuove guerre

Le nuove tecnologie e l’attivismo online stanno trasformando in profondità il mestiere degli inviati di guerra: non più testimoni unici degli avvenimenti, ma in grado di lavorare in presa diretta su qualsiasi notizia. L’esperienza di chi sta vivendo questa rivoluzione, da Amedeo Ricucci del TG1, Daniele Ranieri del Foglio e Lucia Goracci della RAI al giornalista e scrittore americano Theo Padnos, ostaggio in Siria per due anni e rilasciato nell’agosto del 2014.

Cosa sta accadendo ai media in Francia e Spagna

Zoom su nuove realtà editoriali come Mediapart e Eldiario.es. Edwy Plenel, direttore di Mediapart, testata che ha co-fondato nel 2008. Ignacio Escolar, fondatore e direttore di eldiario.es, dove è autore di escolar.net, il più seguito blog politico spagnolo, vincitore di due Bitácoras (2008 e 2009).

Kickstarter per il giornalismo

Kickstarter è una delle principale piattaforme di crowdfunding al mondo, grazie alla quale sono nati e cresciuti moltissimi progetti creativi. Lo stesso vale per quelli legati al giornalismo: Nicole He di Kickstarter, specialista in progetti legati all’editoria, spiegherà come strutturare e programmare una campagna di lancio.

Tutto il programma è visibile sul sito del festival www.festivaldelgiornalismo.com

 

Alessandro Conte

Agenti Federali rubano  800.000 $ di moneta elettronica

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La tecnologia ha cambiato anche il mondo criminale, la moneta virtuale comincia a fare gola quanto il verde dei dollari.

Negli Stati Uniti una coppia di agenti federali sono stati accusati di riciclaggio e frode telematica perché durante una indagine  su una organizzazione criminale che operava on line si sono appropriati di ingenti volumi di Bitcoin,  la moneta virtuale molto utilizzata sul web.

Bitcoin è una moneta elettronica creata nel 2009 da un anonimo conosciuto con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto. A differenza della maggior parte delle valute tradizionali, Bitcoin non fa uso di un ente centrale: esso utilizza un database distribuito tra i nodi della rete che tengono traccia delle transazioni e sfrutta la crittografia per gestire gli aspetti funzionali come la generazione di nuova moneta e l’attribuzione di proprietà dei bitcoin.

I due agenti stavano indagando sulle attività illecite del famigerato sito SILKROAD nell’ambito delle indagini sul traffico di droga, armi tradizionali e di distruzione di massa, l’uomo accusato di gestire il sito, Ross Ulbricht, è stato condannato a febbraio, e i pubblici ministeri hanno sostenuto che aveva  guadagnato circa $ 18 milioni in Bitcoin dall’operazione.

Il Dipartimento di Giustizia (DoJ) americano  sostiene che Shaun Ponti rubato più di $ 800.000 (540.000 £) in Bitcoin invece il  suo collega, Carl Force  è stato accusato di riciclaggio di denaro e frode telematica.

L’agente  Force, che ha lavorato per la Drug Enforcement Administration (DEA), aveva il compito di infiltrarsi nell’organizzazione durante l’indagine  uno dei suoi compiti era quello di comunicare  con il capo dell’organizzazione,  Ulbricht,  conosciuto on-line come “Dread Pirate Roberts”.

Il DoJ sostiene che “senza autorità”, Force “ha sviluppato ulteriori personaggi online e impegnati in una vasta gamma di attività illegali calcolati per portarlo guadagno economico personale”.

“In tal modo,-  la denuncia sostiene – Force ha utilizzato diversi “personaggi “ digitali  che hanno realizzato  false transazioni on line molto complesse  con l’obiettivo di rubare la moneta virtuale.”

“In una tale operazione,- recita il comunicato stampa della DEA –  Force avrebbe venduto informazioni sulle indagini del governo al target delle indagini.” L’uomo di quarantasei anni  è accusato di frode telematica, il furto di proprietà del governo, il riciclaggio di denaro e  conflitto di interessi.

Shaun Bridges, che ha lavorato per i servizi segreti degli Stati Uniti, è accusato di frode filo e riciclaggio di denaro. L’accusa  sostiene che ha  trasferito più di $ 800.000 in Bitcoin in un conto presso MtGox, un cambio valuta giapponese digitale che ha presentato istanza di fallimento nel mese di febbraio.

“Ha avrebbe successivamente collegato i fondi ad un suo conto di investimento personale negli Stati Uniti. Entrambi gli uomini sono stati giudicati da un tribunale federale a San Francisco  e sono ora in custodia in un carcere federale americano.

 

Alessandro Conte

Commercio elettronico sotto la lente UE

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Ia Commissaria Vestager chiede un indagine di settore

La vendita on line è uno delle opportunità più importanti per le piccole e medie imprese europee che con questo nuovo canale di vendita possono affrontare il mercato globale.

Grandi opportunità che possono svilupparsi solamente in un mercato unico digitale e per questo è necessario che siano abbattute tutte le barriere anticoncorrenziali che intralciano il commercio elettronico transfrontaliero.

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In Europa sono sempre più le merci e i servizi commercializzati via internet anche se le vendite on line crescono lentamente a causa delle barriere linguistiche, delle diverse normative vigenti negli stati membri oltre ad alcuni forti indizi rilevati dalla commissione europea sulla possibilità che certe imprese adottino misure che limitano il business on line.

L’indagine di settore si concentrerebbe sul modo per migliorare l’individuazione di tali pratiche e affrontarle, in linea con l’obiettivo prioritario della Commissione di creare un mercato unico digitale connesso. La Commissaria Vestager presenterà la proposta alla Commissione nelle prossime settimane.

“È giunta l’ora di abbattere gli ostacoli che ancora intralciano il commercio elettronico – ha dichiarato la Commissaria Vestager – che è uno degli elementi essenziali di un autentico mercato unico digitale in Europa. La prevista indagine di settore agevolerà la Commissione nella comprensione e nell’abbattimento delle barriere al commercio elettronico, con vantaggi sia per i cittadini sia per le imprese europee.”

Il commercio elettronico ha contagiato circa il 50% dei consumatori europei ma solo il 15% di loro si è rivolto a venditori al di fuori del proprio stato di residenza, questo dato indica che evidentemente permangono ostacoli tecnici che impediscono al consumatore di affidarsi a siti esteri.

L’indagine di settore verterà sugli ostacoli privati, e in particolare contrattuali, al commercio elettronico transfrontaliero dei contenuti digitali e delle merci. Nel corso dell’indagine la Commissione intende raccogliere informazioni presso numerosi portatori d’interesse di tutti gli Stati membri.

Le conoscenze acquisite con l’indagine di settore contribuiranno non solo al rispetto del diritto della concorrenza nel settore del commercio elettronico, ma anche alle varie iniziative legislative che la Commissione intende avviare per promuovere il mercato unico digitale.

Se dall’analisi dei risultati emergessero specifici problemi di concorrenza, la Commissione potrebbe avviare indagini su determinati casi specifici per assicurare la conformità con le norme dell’UE in materia di pratiche commerciali restrittive e di abuso di posizione dominante sul mercato (articoli 101 e 102 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea — TFUE).

 

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Alessandro Conte

Paypal paga multa da 7,7 milioni di dollari

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Accordo trovato tra la società e il dipartimento del Tesoro Statunitense

Non ha ammesso di aver violato le sanzioni che gli Stati Uniti hanno adottato contro Iran, Cuba e Sudan ma allo stesso tempo Paypal ha siglato un accordo extragiudiziale che nel diritto anglosassone crea un precedente importante.

Accusata di non aver controllato e bloccato pagamenti sospetti da e verso le nazioni segnalate dal dipartimento del tesoro, sistema utilizzato in particolare da un soggetto sospettato di commerciare in armi di distruzione di massa.

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Kursad Zafer Cire, inserito nella lista dei ricercati internazionali per commercio di armi dal Dipartimento di Stato Americano. Nonostante fosse indicato come pericolo dal sistema Paypal le sue operazioni non furono interrotte  proseguirono per ben 4 anni dal 2009 al 2013.

“PayPal – si legge in un comunicato del Dipartimento del Tesoro – ha apertamente ignorato le sanzioni economiche previste dagli Stati Uniti”.

In un comunicato PayPal riferisce di aver collaborato volontariamente alle indagini e di impegnarsi ad adottare le contromisure richieste per evitare il ripetersi delle situazioni imputategli.

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Alessandro Conte

Web marketing: storie di successo in rete, Berto Salotti

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Berto Salotti, da Meda a New York

Meda è un piccolo comune della Brianza in Italia, famoso per la produzione artigianale di mobili e per il design d’arredo.

Berto salotti è una di queste industrie artigianali nata nel 1972 dalla volontà e la passione dei fratelli Fioravante e Carlo Berto che per decenni hanno prodotto e venduto la loro migliore produzione nel punto vendita della loro fabbrica salotti, oggi si propone al mercato globale grazie al Web marketing.

Oggi l’azienda è guidata da Filippo Berto, giovane e capace imprenditore che ha saputo valorizzare l’azienda portandola sul mercato internazionale grazie ad una intuizione, l’uso del web per l’internazionalizzazione della propria azienda.

filippo-berto-“Il primo budget per la promozione on line è stato di poche centinaia di euro” ci confessa Filippo Berto durante la nostra intervista via Skype.

“Abbiamo iniziato come terzisti nel pieno del boom economico per realizzare poi una propria linea che viene venduta direttamente ai negozi e ai privati” ci racconta Berto, un percorso lungo anni che attraversa momenti diversi dell’economia del paese e di un mercato che impone ritmi sempre più impegnativi ma soprattutto che stà diventando globale.

Il mercato che cambia e la necessità di raggiungere un numero sempre maggiore di clienti ha spinto l’azienda a valutare nuovi modelli di comunicazione e nuovi canali tra cui internet

“Ci siamo chiesti come fare a mantenere il patrimonio di esperienza e professionalità accumulato nel tempo e soprattutto come fare a non perdere una storia che sicuramente poteva avere dignità di essere esportata in tutto il mondo. Internet a questo punto è diventato un ponte che ci ha permesso di collegare tutto questo con il resto del mondo”

Nel 2000 la prima versione del sito internet aziendale con quello che è stato il primo vero investimento “ il primo strumento di marketing è stato di analisi e ci ha dato la capacità di capire cosa stava succedendo nel sito – racconta Berto – e che molte persone ci stavano trovando grazie a delle parole chiave ed è stato facile capire che dovevamo utilizzare le piattaforme di advertising pay per click per fare della pubblicità a target”

Ma quali sono stati i risultati? “ il nostro obiettivo era di trasformare i contatti in visite nello showroom, cosa che si è avverata, i contatti sono stati cosi tanti che abbiamo avviato un processo di ristrutturazione organizzativa dell’azienda che ancora non è terminata”

Internet non è solo un nuovo canale di marketing ma un modello che in questo caso ha prodotto una vera e propria rivoluzione “ nel nostro caso il cambiamento è stato radicale, avevamo un piccolo showroom accanto alla produzione e il numero crescente di visite ci hanno spinto a fare degli investimenti, ad allargare l’esposizione e ad aprire il primo punto vendita monomarca” ci racconta Filippo Berto durante la nostra intervista “ abbiamo incrementato il personale nella produzione, nell’amministrazione, nelle vendite e strutturare una funzione di marketing”.

Un cambiamento continuo spinto dalle numerose richieste che provengono dal web, circa l’80% dei clienti oggi provengono dalla rete e hanno spinto l’azienda a distribuire il proprio prodotto negli USA e in Russia.

“Tutto questo grazie al nostro sito in sei lingue e alla capacità del nostro customer care che riesce a trasmettere ai nostri clienti la professionalità e la qualità della produzione Berto”.

Il modello seguito da Berto Salotti non è stato facile, ma è stato perseguito nel tempo con costanza, ai primi risultati positivi sono seguiti poi sperimentazioni che non sempre sono state positive e grazie anche agli errori che sono riusciti a sviluppare un modello vincente in un canale di marketing nuovo, in continua evoluzione che ancora non ha solide basi di esperienza da sfruttare per il proprio successo.

Molto importante lo sforzo di analisi, di pianificazione e studio del mezzo che si deve fare per ottenere risultati, un impegno a volte difficilmente valutabile, al contrario l’impegno economico inizialmente può essere anche basso.

“Abbiamo iniziato con un budget di poche centinaia di euro con Google Adwords, impegno che nel tempo e grazie ai risultati è cambiato notevolmente” ci confida Filippo Berto “ realizzare un blog non è costoso, ma tenerlo aggiornato e sviluppare relazioni in rete di una certa qualità, cercando di costruire valore attraverso un aggiornamento quotidiano non è facile” .

Il sito di Berto Salotti infatti è sempre costantemente aggiornato e le pagine sui social media offrono una visione dei prodotti e delle persone che lavorano in azienda che attrae attenzione da tutto il mondo, alcuni dei video su Youtube hanno raccolto anche 600.000 visualizzazioni che per un prodotto di questo tipo sono sicuramente un successo.

Nel 2014 Google, insieme al Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali ha creato nell’ambito dell’iniziativa Made in Italy: eccellenze in digitale la piattaforma google.it/madeinitaly, realizzata dal Google Cultural Insitute e tra le aziende italiane selezionate vi si trova anche Berto Salotti, un riconoscimento basato sulla qualità del prodotto e sulla capacità di utilizzo delle nuove tecnologie per lo sviluppo della propria azienda.

“ Utilizziamo la piattaforma Google dal 2002 – continua Filippo Berto – e siamo forse tra i primissimi inserzionisti in Italia nel settore dell’arredamento dandoci un vantaggio che definisco evolutivo di specie” che ha generato un vantaggio competitivo nel mercato e che ha permesso a Google di conoscerci a fondo fin dagli inizi.” Un riconoscimento importante per una azienda che oggi è cresciuta puntando sul mercato globale utilizzando il web marketing come strumento di crescita e di comunicazione con successo.

 

L’arma laser è realtà, ed è a stelle e strisce

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Non si tratta di un test, l’arma funziona ed è operativa. Così l’Ammiraglio Kunder risponde definitivamente alle domande che sorgono spontaneamente a chi legge queste righe. Operativa significa, per inciso, che è pronta ad essere usata se le condizioni lo richiedono. A fine 2014 la nuova arma, che fino a pochi anni fa sembrava solo finzione, è stata impiegata con successo dalla marina militare a stelle e strisce in una simulazione a bordo del’imbarcazione da trasporto anfibio USS Ponce a largo delle coste dell’Iran, nel Golfo Persico.

L’arma (infinitamente più potente di un semplice puntatore laser) è in grado di colpire e distruggere velivoli ed imbarcazioni con una precisione elevatissima se utilizzata alla sua massima potenza. Il suo utilizzo però può essere anche diverso dall’abbattimento di un drone o di una postazione missilistica navale: può essere infatti impiegato per distruggere o danneggiare strumenti e sensori se utilizzato a potenza ridotta. Ha dimostrato di essere molto affidabile e di non risentire particolarmente delle condizioni meteorologiche. Il sistema LaWS, Laser Weapon System può essere montato utilizzando un proprio generatore per il sostentamento oppure collegandosi alla rete elettrica dell’apparato su cui viene installato.

Le dimensioni sono piuttosto ridotte, il che lascia presumere che in futuro potrà essere fatto alloggiare su velivoli e mezzi di terra. In più garantisce un impiego a costo quasi zero. Diversamente dall’impiego di un razzo, che richiede manutenzione tecnica, meccanica, aggiornamenti e modifiche oltre che spese notevoli in carburante, il sistema LaWS comporta costi ridicoli se paragonato a quelli delle armi in commercio. In periodi di continui tagli ai budget della difesa, costruire in larga scala un apparato di questo tipo sarebbe un’ottima soluzione per rispettare i sempre più rigidi parametri di costo ed efficienza. Lo sviluppo e la realizzazione di una chimera rincorsa da tutti i governi è in realtà una nuova porta verso l’ignoto. Un altro passo importante nel campo tecnologico che gli Stati Uniti sicuramente sapranno ben combinare con quello della robotica.

Forse non è un caso che l’operazione si sia svolta vicino l’Iran, sebbene fonti ufficiali riportino che si trattava di uno scenario che permetteva un test in condizioni di operatività ottimali e non. Le tempistiche del test potrebbero non rivelare particolari interessanti, per quanto restino importanti. Sicuro è che resta un messaggio per questo Stato che non può fare a meno di pretendere per se stesso la tecnologia nucleare e che ora dovrà stare attento anche a quelli che sembravano prodotti in scadenza. Si perchè la Ponce vanta già qualche decennio di carriera e nonostante ciò, grazie a questo sistema, può rivelarsi una seria minaccia. Stiamo pur sempre parlando di un’arma che necessita solamente di un generatore per funzionare.

Forse non è un caso, ma ci ritroviamo di fronte all’ultimo paradosso (in ordine di tempo) delle sfide militari e tecnologiche. Proprio l’Iran ci offre una sponda interessante: il nucleare, una tecnologia letale contenuta in un piccolo spazio che si riduce (se utilizzata) nella totale distruzione di uomini, fauna e flora. Essendo un’arma di tipo massivo e distruttivo non occorre che sia precisa. Occorre però un elevato grado di sviluppo tecnologico per la sua produzione, il suo trasporto e l’utilizzo da terra, acqua e mare. Il confronto in questo caso è con una tecnologia talmente avanzata da essere in grado di stimolare gli elettroni e farli viaggiare insieme, convogliandoli in un fascio che, dal semplice uso come puntatore per armi, elusore o guida per missili si trasforma in un’arma capace di essere millimetricamente mortale anche chilometri di distanza (l’utilizzo contro persone è vietato). I nuovi test hanno dimostrato che l’arma è estremamente affidabile in termini di precisione ed energia richiesta per l’utilizzo. In più non risente di fattori in grado di modificarne la potenza sulle lunghe distanza come polvere o sabbia.

La sfida che spetta al Pentagono ora è anche una sfida di ritorno, tutelare il segreto di questa strabiliante ed efficientissima nuova arma. E non sarà cosa da poco.

 

La nostra casa nello spazio

EUROPA/INNOVAZIONE di

Concepita come un grande laboratorio di ricerca e studio, raccoglie i contributi tecnici e scientifici di sedici Paesi partners che dal 1998 hanno letteralmente costruito sulla Terra parti, moduli, impianti per poi montare la Stazione Spaziale direttamente in orbita a circa 400 km dalla superficie terrestre.  Un peso di centinaia di tonnellate ed un ridotto spazio pressurizzato in cui muoversi e lavorare disposti su una superficie pari ad un campo da rugby americano permettono la vita di un equipaggio permanente di sei astronauti in continuo avvicendamento. Una grande missione senza una data di fine all’interno della quale sono racchiuse le speranze di tutto il nostro pianeta. Si perchè la SSI non è una semplice missione ma un grande laboratorio in cui si conducono numerosi studi scientifici in ambiente a gravità zero. Una piattaforma di ricerca internazionale per lo sviluppo di tecnologie e pianificazione della vita umana nello spazio in missioni di durata sempre maggiore.

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Rappresenta, non è certo poco, un modello unico di cooperazione internazionale in cui i Paesi partecipanti condividono la loro esperienza in campo scientifico e collaborano nei più svariati ambiti di ricerca: medicina, biologia, fisica, ricerca spaziale, osservazione spaziale, ingegneria medica, dei materiali, robotica ecc. Si tratta forse dell’esperimento a lungo termine più importante della storia dell’umanità, di un ambizioso programma spaziale in grado di unire voli a cui prendono parte equipaggi internazionali e complessi lanci di velivoli spaziali da piattaforme collocate in diverse zone del pianeta. Una gigantesca e pionieristica missione di architettura umana nello spazio che ha preso vita grazie ai continui voli di navicelle che portavano in orbita moduli contenenti parti meccaniche, sistemi di bordo, riserve d’ossigeno, cibo, acqua, astronauti ecc. Il primo equipaggio è stato lanciato nel 2000 grazie allo sviluppo e all’implementazione dei programmi Skylab, Shuttle-Mir e Space Shuttle e da allora le missioni spaziali hanno continuato incessantemente ad alternarsi. In questi primi anni d’importante sperimentazione il nostro Paese vanta una partecipazione tecnica e professionale importantissima, la cui ultima rappresentante in ordine di tempo è Samantha Cristoforetti.

I costi per il finanziamento di questo progetto sono altissimi, come altissimo è il valore tecnico scientifico che hanno le singole missioni. L’esperienza della Stazione Spaziale va però vista anche come un impegno internazionale in vista di obiettivi che nello spazio vedranno la loro realizzazione. Si spera che l’esempio della cooperazione spaziale possa portare benefici ai rapporti tra quei Paesi che spesso sulla Terra sono molto distanti e che in un modulo spaziale riescono invece a trovare piena e positiva concretizzazione.

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Corporate security e protezione della rete: il caso F 35

Difesa/INNOVAZIONE di

Le intrusioni e i furti di dati aziendali non potranno che crescere data l’importanza che il web riveste nel commercio, nei servizi, nelle comunicazioni. Questo genere di argomento, però, risulta tanto attraente quanto poco apprezzato sotto il profilo dell’importanza che riveste.

Mossi dalla consapevolezza dell’esistenza di nuove minacce, Stati ed aziende hanno iniziato a prendere contromisure dotandosi, per così dire, di pool di esperti informatici. E’ ragionevole pensare che attacchi di una certa importanza avvengano di continuo e l’ipotesi che attori statali ne siano coinvolti in veste di attaccanti ed attaccati  non è né remota né fantascientifica. Ne è esempio il caso dell’ormai famigerato velivolo da combattimento F 35.

Il progetto di questo caccia di nuova generazione è stato al centro di un vero e proprio attacco informatico nel 2012, un’azione di spionaggio condotta a regola d’arte, che ha causato non poco imbarazzo tra le alte sfere militari ed aziendali coinvolte. La serie di eventi verificatisi ha messo in serio pericolo alcune delle armi più avanzate sul mercato, esponendo l’intero apparato ad azioni di sabotaggio e quindi di interruzione dei progetti stessi, infiltrazione all’interno dei sistemi di rete di un elevato numero di computers appartenenti ad aziende che hanno sottoscritto contratti di milioni di dollari con il governo degli Stati Uniti e quindi alla potenziale penetrazione dei sistemi informatici degli stessi apparati istituzionali.

Quella che ha descritto Shane Harris sulla base di fidate fonti d’intelligence è a tutti gli effetti un’operazione di guerra condotta da un gruppo di informatici nelle maglie di una parte del sistema industriale e della difesa statunitense. La quantità di dati rubati è impressionante: si stima sia stato sottratto l’equivalente del 2% dell’intera biblioteca del Congresso americano. Decine di progetti, migliaia di files riservati relativi allo sviluppo di tecnologia, mezzi, armamenti.

Diversamente da quanto accade per i sistemi informatici governativi che per ovvie ragioni sono altamente sorvegliati e protetti (molto spesso le informazioni classificate non sono tenute in sistemi connessi alla rete), questo non accadeva con le aziende che collaboravano con il governo. Di conseguenza accedere a queste ultime è stato più semplice. Le indagini scontratesi con il primo ostacolo di una tardiva scoperta dell’attacco hanno dovuto affrontare poi la difficoltà di dover risalire alla fonte da cui l’infiltrazione era partita.

La complessità dell’apparato dei contractors industriali statunitensi ha reso l’operazione titanica, ed il tutto era complicato dalla particolarità del progetto del caccia stesso: l’utilizzo massiccio di alta tecnologia che permette al velivolo di compiere anche un semplice volo fa affidamento su milioni di codici che riguardano la logistica, l’avviamento dei sistemi di bordo, delle comunicazioni ecc. Un sistema così complesso ed interconnesso si è dimostrato una vera e propria spina nel fianco per gli investigatori, che hanno dovuto compiere un lavoro enorme per identificare la faglia tra le centinaia di imprese che a vario titolo erano impiegate nel progetto F 35. Insomma, continua Harris, le spie si sono trovate in quello che potrebbe definirsi un target-rich environment, un ambiente ricco di obiettivi.

Molti esperti definiscono il progetto dello Joint Strike Fighter juicy, ossia succoso per molti hackers; alcuni commentatori ritengono che il sistema alla base del funzionamento dell’aeroplano (un cervello elettronico) lo renda simile ad un drone, asserendo che il pilota più che pilotarlo si limiti a copilotarlo.  Il caccia utilizza quello che viene definito sistema fly by wire, un complesso impianto che commuta i comandi e qualunque altro tipo di indicazione in segnali elettrici, i quali intervengono in ogni istante modificando, stabilizzando, correggendo gli assetti, fornendo informazioni, dati rilevati ed occupandosi di tutto ciò che riguarda il volo ed il velivolo. Questo sistema, in uso da anni ma sempre più presente e pervasivo, gestisce e permette qualunque attività e richiede un continuo controllo e monitoraggio: proprio tale dipendenza renderebbe questa formidabile arma molto più vulnerabile ad attacchi cyber.

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Quello che stupì maggiormente i tecnici militari e dell’ FBI quando bussarono alla porta delle aziende coinvolte non deve sorprendere: alcuni manager delle compagnie i cui sistemi di sicurezza erano sottoposti ad investigazione ignoravano l’esistenza dell’aspetto cyber nella logica di protezione aziendale, sebbene la totalità delle informazioni fosse conservata online o facilmente accessibile attraverso la rete. Assieme a progetti ed informazioni sottratte riguardanti l’ F 35, le ricerche hanno portato alla luce attacchi relativi al programma missilistico Patriot, all’elicottero Black Hawk ed al famoso precursore della nuova generazione di aerei militari made in USA, l’ F 22 Raptor.

Questa vera e propria emergenza nazionale ha sollevato importanti dubbi sulle modalità di concepire e realizzare un sistema di sicurezza aziendale. L’indagine si è spinta fino ad ispezionare quali tipi di computers e quali programmi utilizzassero gli impiegati ed i dirigenti delle aziende a vario titolo coinvolte, quali dati di accesso fossero necessari, quali e quanti sistemi di sicurezza ogni impianto contemplava per la salvaguardia delle informazioni. Uno dei timori maggiori era infatti che tra i dati sottratti vi fossero quelli relativi ai sistemi di difesa ed attacco del velivolo, il che avrebbe potuto portare in caso di utilizzo dello stesso ad una perdita totale di efficacia del mezzo in caso di combattimento. In sintesi, la paura era che il caccia si trovasse ad affrontare altri velivoli in combattimento in una condizione di totale inferiorità.

L’indagine ha potuto evidenziare i punti deboli dei sistemi di sicurezza e quali colli di bottiglia presentavano le varie catene di realizzazione dei progetti portando grandi benefici alla cooperazione tra apparato governativo ed aziende. A seguito dell’inchiesta si è dato il via ad un processo di riscrittura dei codici software del velivolo che ha portato ad oltre un anno di ritardo sul progetto iniziale ed un aumento dei costi di circa il 50%.

Stando alle informazioni che la fonte di Harris rivela è verosimile che tale serie di attacchi provenisse dalla Cina, sebbene non se ne possa avere la totale certezza. Perché proprio la Repubblica Popolare? Due plausibili spiegazioni: la crescita e lo sviluppo tecnologico strabiliante conosciuto dal governo di Pechino (che secondo autorevoli membri dell’ FBI è da ritenere un risultato in parte ottenuto grazie alle informazioni sottratte) e la forte somiglianza che lega l’ F 35 e l’ F 22 con il J 20 ed il J 31 cinesi (vedi foto sopra).

Al momento la tecnologia americana resta la più avanzata ed in caso di confronto i caccia americani avrebbero di gran lunga la meglio sui rispettivi asiatici. Il punto però è anche questo: sottrarre informazioni, ammette l’FBI, permette ai competitors di superare limiti temporali legati alle tempistiche dello sviluppo di nuova tecnologia necessaria accorciando il divario con le grandi potenze e permette di ottenere guadagni significativi sui costi di sviluppo e ricerca.

La pericolosità e la gravità di tale evento ha avuto come risultato l’immediata convocazione di un tavolo di esperti del settore pubblico e privato che ha portato ad un saggio scambio di dati, pareri, buone prassi; la collaborazione ha fatto si che fossero diffusi all’interno della rete così creatasi dati relativi ad appalti, forniture, personale impiegato, software ed infrastrutture utilizzate. Ciò detto, occorre precisare che proprio gli Stati Uniti da anni sono tra gli attori principali nella guerra cibernetica e che non è recente l’utilizzo massiccio di tale tecnologia per i fini più disparati che riguardano da un lato la protezione di dati relativi ad interessi industriali e dall’altro la sacrosante sicurezza nazionale, per continuare con azioni di sabotaggio industriale ed economico nei più svariati settori.

 

Rivoluzione DAO News, un nuovo modello di business per editori e autori digitali

INNOVAZIONE di

Cambiano i modelli di business nell’editoria contemporanea che si rivolge al web sempre più spesso.

Sono infatti moltissime le nuove testate giornalistiche, i blog e i magazine che si rivolgono ai nuovi media come canale di comunicazione. Blog, podcast web tv sono ormai una realtà affermata che permette a tanti autori di mettersi alla prova e a volte di raggiungere un successo inaspettato.

Spesso però manca una capacità di fare network tra i tanti autori e gli editori grandi o piccoli che siano ed è a questo problema che DAO News vuole dare una risposta.

“La nostra storia comincia quasi cinque anni fa – raccontano sul loro sito i ragazzi di DAO Square –  quando DaoNews prende forma da un’idea: riunire i professionisti dell’informazione online in un progetto comune, ben strutturato e che permettesse ai suoi protagonisti – giornalisti 2.0, blogger, copywriter – di guadagnare attraverso la propria vocazione per la scrittura, rendendo al contempo un servizio di qualità al pubblico del web. “

Questa piattaforma risponde alle esigenze degli editori di avere un serbatoio di notizia a cui attingere per il proprio lavoro ma ancora più importante di remunerare gli autori che si iscrivono per i pezzi che scrivono sulla base della qualità del loro lavoro.

Allora DaoNews era un network di blog tematici che si affacciava sul web con un’ambizione importante: consolidarsi, crescere e diventare un punto di riferimento per l’informazione di qualità.

Non solo, la piattaforma mette a disposizione una area di community dove si realizza una vera e propria piazza dedicata agli operatori della comunicazione dove si incontrano professionisti e aspiranti del settore

Agli editori e ai brand, le aziende che usano contenuti per i propri siti, DAO propone anche una piattaforma editoriale ottimizzata per le azioni di web & social marketing fondamentali per la promozione del proprio sito.

“Con la nostra piattaforma è possibile creare in poche mosse un magazine online e mobile, un blog e perfino un social network dedicato, e popolare questi canali con articoli e contenuti multitematici, originali e di qualità, studiati e scritti “su misura” da blogger, giornalisti e copywriter”

Una rivoluzione del settore giornalistico e dei nuovi modelli di marketing on line che riserva ancora molte sorprese.

 

Alessandro Conte

 

REPORT: Lo stato islamico come minaccia alla civiltà’; evoluzione, reclutamento ed utilizzo dei media

INNOVAZIONE/Varie di

 

Alcuni elementi dello Stato Islamico. 

Da gruppo armato ad impresa, da localizzata minaccia a pericolo internazionale, l’ISIS ha conosciuto un interessante progresso. Secondo alcuni rappresenta un’evoluzione di organizzazioni come al Qaeda (opinione condivisibile dal punto di vista della modifica del percorso personale di alcuni dei suoi membri inizialmente affiliati a Bin Laden), secondo altri un fenomeno distinto (vero e ragionevole nella vision strategica e tattica, nella composizione e condotta delle operazioni, nella sua nascita e sviluppo di tecniche ed ideologie che lo differenziava da al Qaeda già quando i suoi leader combattevano all’interno del gruppo di al Qaeda in Iraq AQI).

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Veterano delle guerre seguite all’intervento militare americano in Iraq il gruppo ha proseguito lungo una traiettoria che lo ha portato a scontrarsi con altri gruppi integralisti fino a prendere una strada propria (anche a causa di una politica miope dell’allora governo al Maliki), inizialmente per combattere il regime di Assad in Siria e poi per il proprio fine politico. E’ stato a questo punto che ha iniziato a considerarsi un’entità diversa e separata, perseguendo propri obiettivi. Economicamente, militarmente, socialmente, politicamente e mediaticamente rappresenta a tutti gli effetti un business per i suoi leader (più di quanto non lo fosse al Qaeda per Bin Laden), che oggi non disdegnano di coinvolgere fra le giustificate vittime a servizio della causa islamica anche fedeli musulmani. Rappresenta, prima che una minaccia per l’occidente (un mantra nel mondo del fondamentalismo che spesso è fine a se stesso, un forte fattore coagulante che in molti casi serve a nascondere le atrocità che si commettono nel suo nome) una minaccia per i territori in cui agisce. Mira ad una conquista diretta a guadagnare territorio senza alcun tipo di compromesso, diversamente dal gruppo al Nusra (un tempo suo alleato sul fronte siriano) che preferisce un approccio più votato alla mediazione territoriale. Alcune differenze tra la politica seguita dall’ISIS e gli altri gruppi salafiti (che ne hanno causato la separazione ideologica e sul campo) risiedono nelle metodologie di conduzione della guerra sotto un punto di vista politico e militare come le tempistiche di conversione dei territori, nelle basi ideologiche dell’infedeltà al dio Maometto, nell’accettazione della violenza e della pena di morte. Lo Stato Islamico si è trasformato da movimento terrorista ad organizzazione finanziaria in grado di sviluppare un business di oltre 2 milioni al giorno, rivelandosi una vera e propria macchina governativa che ha tra le sue fonti d’introito in pieno stile medioevale saccheggi, estorsioni, commercio di petrolio e donazioni. La fonte primaria resta però il petrolio. Controllando numerosi stabilimenti di estrazione e raffinerie, l’ISIS fa dell’oro nero un utile alleato nel finanziamento sia dei combattenti sia degli agglomerati sociali che va conquistando. Organizzato su base territoriale con corti, polizie e province realizza un vero e proprio modello di stato sociale esigendo tributi ed occupandosi del sostentamento delle famiglie dei soldati, comprando armi e munizioni e raccogliendo attraverso il reclutamento anche estero le competenze necessarie a mantenere la macchina governativa.

E’ pur vero che l’odierno ISIS può usufruire di una serie di esperienze pratiche sul territorio che derivano dalle diverse provenienze dei membri che lo compongono, soprattutto quelle derivanti dallo smembramento dell’esercito iracheno, che hanno permesso a questo fenomeno di esplodere in maniera così evidente. Le componenti dell’esercito dell’ISIS sono infatti un miscuglio di combattenti ed agenti provenienti dalla polizia, ex militari, ex membri dei servizi e sono, proprio come in un regolare esercito, divisi tra ufficiali e truppa. D’altro canto l’esercito dello Stato Islamico, evolutosi sia grazie alle vittorie sul terreno riportate contro le forze governative sia  grazie a quelle riportate contro le altre organizzazioni fondamentaliste, si costituisce come una compagine all’esterno apparentemente compatta, all’interno ricca di complessità e sfaccettature. I suoi membri, prima ancora che occidentali convertiti, simpatizzanti o musulmani, sembrano avere in comune il desiderio di qualcosa di diverso dal modello governativo in cui sono cresciuti e che spesso non è chiaro nemmeno nelle loro menti (ne è la prova il fatto che alcuni, una volta avuta coscienza della scommessa fatta desiderino rimpatriare). La macchina di propaganda elaborata dall’ISIS permette di vendere all’esterno una seducente ed efficiente immagine dello stesso. Il fenomeno migratorio di occidentali arricchisce le fila dell’esercito islamico, e di questo ne sono ben consapevoli i suoi comandanti: dall’estero infatti giungono soggetti con provenienza culturale diversa ed un grado d’istruzione sicuramente più elevato della media dei combattenti locali. Questo permette di selezionare una classe nuova, con competenze, cui spesso vengono affidati ruoli anche abbastanza delicati: dal reclutamento all’addestramento alle cariche ministeriali piuttosto che di governo sul territorio, tutto è gerarchicamente e severamente regolato e gestito. Dal reclutamento di chi si sente emarginato o si auto emargina (una delle motivazioni che spingono i cosiddetti foreign fighters ad abbracciare la causa del Califfato) e quindi grazie all’indottrinamento fai da te piuttosto che ad una conversione classica costruisce un immaginario più o meno reale di quello che lo aspetterà, a chi semplicemente ritiene che la condotta militare sia la vera via di ogni degno musulmano e che quindi naturalmente prefigura per sé una condotta di stampo fondamentalista. Questa conversione a distanza frutto dell’utilizzo massiccio dei media, crea giusti timori e perplessità alle forze dell’ordine che sono chiamate ad intervenire, poichè svela la mancanza di controllo e gestione da parte dello Stato Islamico che in alcuni casi si nasconde dietro il percorso personale del futuro soldato di Allah. Mentre infatti la configurazione di al Qaeda – che non a caso significa la Base, la Regola – era per alcuni aspetti rudimentale (anche perchè costituiva il primo serio passo verso la nascita di un califfato) ma sviluppata su una struttura rigida e controllata, con un centro di comando e varie postazioni logistiche nel mondo, ora si prospetta un rapporto differente tra l'”esterno” e l'”interno” del nuovo Califfato. La rete di decine di stati che costituivano il brodo di coltura della classe di combattenti che avevano in Bin Laden la loro guida, aveva la caratteristica classica di un’organizzazione solida e ramificata, dai cui centri di Londra, Ginevra, New York e non solo venivano gestite le operazioni sul territorio finalizzate alla creazione di cellule dormienti, arruolamento per l’indottrinamento e l’invio in campi di addestramento. La presenza fisica del reclutatore piuttosto che del curatore d’affari era un aspetto importantissimo che doveva necessariamente essere condotto sul territorio, quasi come si trattasse di un processo di selezione (come in effetti era) in cui la presenza di un “uomo” dell’organizzazione era indispensabile. Poco insomma veniva lasciato alla fantasia. Questo è vero anche perchè Bin Laden conduceva le sue attività inizialmente non dall’Afghanistan e quando ci si è stabilito era nell’impossibilità oggettiva di organizzare un esercito ed una comunità esposti e pronti a sfidare apertamente i nemici dell’Islam radicale. Al Qaeda, insomma, resta un’importante step ma al contempo era confinato nella sua condizione di gruppo terroristico che non era riuscito a fare quel salto di qualità che invece si rileva nell’ISIS. L’asimmetria con cui combatte l’ISIS (e che si riconosce più al di fuori dei confini stabiliti da al Baghdadi soprattutto nella figura dei cosiddetti lupi solitari, soggetti che agiscono in maniera autonoma) è invece, a suo modo, più arbitraria e quindi più pericolosa. Al di fuori delle aree controllate dalle formazioni dello Stato Islamico (anche qui andrebbe considerata l’estrema dispersione del territorio al centro degli scontri, in buona parte desertico, privo di centri urbani) continua a regnare un caos più o meno regolamentato.

L’afflusso massiccio avvenuto in questi ultimi tempi, le direzioni di provenienza dei combattenti stranieri e le modalità di azione dello Stato Islamico svelano una nuova caratteristica che oggi incorpora l’ISIS (un domani sarà sicuramente parte integrante di qualunque altro movimento fondamentalista) di cui invece al Qaeda non poteva godere o disporre in queste forme. Oggi l’ISIS non deve obbligatoriamente andare nel mondo attraverso soggetti fisici per acquistare legittimazione, seppur il reclutamento continui a costituire un fenomeno importante. Può agire direttamente da casa aspettando che, per l’incuria di alcuni governi o per meriti dei reclutatori, le nuove reclute si uniscano ai ranghi di combattenti quasi come se si trattasse di un semplice ritorno a casa. Il Califfato anche nella sua dimensione spaziale e geografica più o meno circoscritta dai confini dei territori sotto il controllo dell’ISIS, rappresenta un richiamo ben definito che non ha bisogno di esporsi ma che deve solo attendere che nuovi membri giungano.

Inoltre, sebbene il proselitismo sembri non essere più così diffuso attraverso i canali classici cui ci aveva abituati Bin Laden come le moschee, resta ancora molto attivo il canale delle carceri. Sicuramente, però, a perdere il controllo dell’odierno Stato Islamico non sono stati solo i governi che ne hanno appoggiato le operazioni (alcuni sostengono che finanziamenti governativi siano giunti da Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti) quanto alcuni leader che in passato avevano svolto ruoli importanti di mediazione e che ora ne denunciano la condotta in maniera aperta. E’ vero, però, che mai come oggi il sistema che rende così appetibile l’aggregarsi di giovani attorno all’ideale di al Baghdadi ha una diffusione vasta al punto da poter fare a meno di un così massiccio uso della figura del reclutatore. Il ruolo dei lupi solitari in questo campo ha una valenza che supera quella del semplice potenziale attentatore. Essi svolgono più ruoli che direttamente o indirettamente ne rendono l’ISIS beneficiario. Prima di tutto descrivono un simbolo ed un sintomo di come il messaggio messianico riesca ad arrivare e ad avere presa anche oltre oceano. In questo essi rappresentano sia un’arma al servizio della causa, sia un metro di paragone nell’evoluzione dello stesso fuori dal califfato.

Possiamo quindi evidenziare alcuni punti importanti a partire proprio dalla situazione politica ed etnica, dalla debolezza del governo al Maliki oltre che la disillusione portata prima dall’intervento americano nelle operazioni contro Bin Laden e Saddam Hussein e poi dalla sua graduale ritirata, che ha permesso all’organizzazione di al Baghdadi di fomentare scontri interetnici al fine di creare disgregazione sociale e sfruttare l’acuirsi delle rivalità settarie. Inseritisi in quest’amalgama hanno adottato una politica di compromesso a livello locale in cui, sebbene sia chiaro l’intento omicida di ognuno dei suoi componenti, la loro abilità di offrire servizi sociali alla popolazione e di garantirne la continuità li rende un’alternativa migliore ai governi che si sono succeduti in questi ultimi anni. Ancora, la metamorfosi della struttura di al Baghdadi e il distaccamento dall’originaria visione caratterizzata da percorsi paralleli tra al Qaeda ed al Qaeda in Iraq (AQI) è un sodalizio che si è spezzato per due ragioni: il cambio di politica seguito al cambio dei leader interni; le continue vittorie riportate contro gli attuali rivali sul fronte interno. Questo ha causato: un cambio di rotta politica e militare, di gestione interna ed esterna; un riposizionamento sul campo di una forza alleata inizialmente con gruppi siriani di opposizione al regime Asad (al Nusra) ed ora intenzionata alla conquista e sottomissione di tutti i territori appartenenti ai vecchi califfati.

 

Internet come chiave di lettura del proselitismo e dell’adesione alla causa dell’Isis e del Califfato in Italia

Il fenomeno del reclutamento di cittadini occidentali da parte dell’Isis ora, di al Qaeda prima e di cellule a loro collegate è piuttosto complesso e di lunga durata. Per quanto concerne il caso italiano, la parola chiave per capire questo processo è “internet”. La massimizzazione del suo utilizzo nel corso degli ultimi anni, soprattutto attraverso i social network, ha provocato una sorta di corto circuito, diventando primaria rispetto all’opera di proselitismo che avviene nelle moschee e nei centri religiosi islamici presenti nel nostro Paese.

Secondo i dati riportati dal ministro degli Interni Alfano a fine agosto 2014, gli italiani reclutati dall’Isis per la Guerra in Siria sarebbero molte decine, mentre coloro che sono già rientrati per curare la base logistica in Italia sarebbero circa 200. Un fenomeno circoscritto, soprattutto se guardiamo il primo dato e lo confrontiamo con i numeri, nell’ordine delle migliaia, del resto d’Europa. Ma il punto, che si tratti di italiani o di immigrati di seconda generazione, è la tecnica e il linguaggio utilizzati non solo per la conversione all’Islam, ma per l’appoggio incondizionato alla Sharia.

Il reclutamento attraverso internet è fatto attraverso la manipolazione psicologica dell’individuo. Una manipolazione che tocca non tutti, ma in particolar modo quelle persone ai margini del contesto sociale in cui vivono: parliamo, pertanto, di chi è più vulnerabile. E per sfruttare ciò, i contenuti ad alto tasso di violenza (video di esecuzioni o trailer di videogiochi) vengono fatti circolare in modo ripetitivo, creando un loop con coloro che siedono davanti al pc. Questo permette di creare un processo d’identificazione e una reazione emotiva che, paradossalmente, porta a simpatizzare con il cattivo. È un processo che in psicologia viene definito di “regressione”: il nemico da combattere divengono così gli Stati Uniti e l’Occidente.

Diversi sono stati i casi di italiani o italiani seconda generazione che hanno deciso di arruolarsi tra le fila di al Qaeda prima e dell’Isis poi, o che più semplicemente condividono gli ideali e i metodi violenti perpetrati dai combattenti in Siria e Iraq. Nel libro di Lorenzo Vidino, “Il jihadismo autoctono in Italia”, ed. Ispi, si distinguono due fasi di questo proselitismo. La prima, negli anni ’90, quando nel nostro Paese si assiste ad un fervente attivismo e Milano diventa il punto di partenza per la Guerra Santa nella ex Jugoslavia, soprattutto Bosnia, e in altri paesi. La seconda, invece, è databile ai primi anni 2000 e vede una situazione più tranquilla rispetto ad altre realtà europee: infatti, malgrado un evento spartiacque come l’11 settembre, la scarsa presenza di quartieri ghetto sfavorisce la nascita di cellule organizzate.

Le due fasi raccontate da Vidino hanno come protagoniste soprattutto al Qaeda che, tra fine anni ’90 e inizio millennio, raggiunge il suo apice organizzativo a livello mondiale. La terza fase, quella contemporanea, vede la nascita di un altro soggetto l’Isis e due prospettive geopolitiche che, attraverso la propaganda sui social network citata prima, divengono dirompenti: la guerra in Siria e la costituzione del Califfato in Iraq.

Tra i casi di italiani che hanno scelto la causa della Guerra Santa, quello più famoso riguarda Giuliano Del Nevo. Arruolatosi per sei mesi tra i ribelli siriani, nell’estate 2013 si perdono le sue tracce. Attraverso una ostinata ricerca del corpo e dei suoi oggetti da parte della madre, vengono alla luce un diario (l’originale è nelle mani della Procura di Genova) e le testimonianze dei colleghi del figlio. Negli scritti di Ibrahim (il nome dopo la conversione), si fa parla di un netto contrasto tra la suggestione della guerra e della lotta in nome di Allah e la crudeltà della realtà sul campo. Ma quello che più avvicilisce Giuliano è il fatto che, come in Occidente, anche nella jihad c’è disparità: infatti, mentre la maggior parte dei combattenti resta sul terreno di battaglia, i capi rimangono al sicuro in albergo.

La presunta morte di Del Nevo per mano di un cecchino viene raccontata dalla madre, dopo aver raccolto le testimonianze di alcuni suoi amici jihadisti: “Un cecchino si divertiva a ferire e ad infierire sulle vittime. Mio figlio, stanco di vedere un suo compagno ridotto in fin di vita, è uscito a soccorrerlo ed è rimasto ferito. Dopo, è stato ricoverato in ospedale e adesso è morto o si trova in una delle prigioni di Assad”.

Del Nevo, convertitosi anni fa all’Islam, è diventato protagonista diretto della jihad, sposando la causa dei ribelli siriani. Ma ci sono altri italiani, convertiti a loro volta, che restano nel nostro Paese, pur simpatizzando, in alcune occasioni, con il Califfato iracheno. Stefano Porcelli, dipendente della Regione Lazio, musulmano dal 1990, minimizza l’immagine dell’Isis dipinta dai media occidentali e azzarda un originale paragone storico: “Non bisogna avere paura dell’Isis perché un movimento di liberazione dalla dittatura sanguinaria in Siria, che si è naturalmente propagato in Italia e in Europa. È un movimento paragonabile a quello della Resistenza che ha liberato il nostro Paese dal fascismo”.

Ancora più forti sono le parole di Livio Umar Tomasini, friulano convertitosi cinque anni fa dopo un viaggio ad Istanbul: “La vittoria del Califfato è solo questione di tempo. Noi credenti abbiamo il dovere di consolidarlo. Per quanto riguarda i crimini, è normale che in guerra avvengano massacri, ma la propaganda occidentale li esaspera”.

Queste frasi cariche di esasperazione, rivelano un problema dell’islamismo in Italia. L’ambiguità di fondo tra i contrari ala deriva fondamentalista e alle violenze e chi simpatizza o addirittura si arruola nella jihad. Questo aspetto viene sollevato in maniera lucida nell’articolo “Il califfo italiano”, di Cristina Giudici, apparso su “Il Foglio” il 2 novembre 2014. L’analisi proposta, infatti, rivela che esistono due galassie parallele: la prima, quella delle moschee e dei centri ufficiali di preghiera; la seconda, quello delle moschee abusive, soprattutto di matrice salafita, moltiplicatesi in maniera esponenziale negli ultimi tre anni.

Nel corso dell’articolo, vengono citati i distinguo, rispetto alle violenze in Siria e in Iraq, da parte dei rappresentanti di alcune delle moschee più importanti in Italia. Ma è un distinguo fatto in ritardo e non da parte di tutti e che, come rivela Abdellah Redouane, Segretario della Moschea di Roma, “può rivelarsi un boomerang per i musulmani non fondamentalisti che vivono in Italia”. La nascita di questi nuovi centri abusivi ha fatto scattare l’allarme negli investigatori: “Più che cellule dormienti, per ora sembrano cellule addormentate – rivelano a “Il Foglio” -. Li seguiamo, ma non riusciamo ancora a capire se e come si muoveranno. Con la nascita del Califfato in Iraq, abbiamo dovuto ricominciare da capo perché non esiste ancora un filiera, simile a quella creata da al Qaeda, sulla base di una gerarchia e di un processo graduale: il proselitismo e il reclutamento avvengono in tempi brevissimi”.

Il proselitismo, oltre che negli italiani, fa presa negli immigrati di prima e seconda generazione. Ma, quello che più risalta, è il fatto che ciò avvenga all’improvviso, in contesti sociali non contraddistinti dall’odio, dove la parte da leone la fa ancora una volta internet. Il mutamento di comportamento non è solo finalizzato al reclutamento sul campo in Siria. Ma anche finalizzato ad azioni dimostrative in Italia o semplicemente alla creazione di basi italiane delle cellule che operano in Medio Oriente.

In questo senso, possiamo citare il caso di Mohamed Jarmoune, marocchino di 20 anni residente in Italia, sorto agli onori della cronaca per la propaganda rap attraverso i social network, arrestato nel marzo 2012 perché aveva progettato un attacco terroristico ai danni della comunità ebraica di Milano. Oppure, Anas el-Abboubi, anch’egli marocchino, accusato di avere cercato di creare una base per la cellula terroristica Sharia4, con l’intento di colpire a Brescia, cioè la città dove abita. Dopo l’assoluzione, si è arruolato con i combattenti dell’Isis in Siria.

Ma ci sono anche le cronache, molto spesso dimenticate dai giornali, di famiglie spezzate. Di padri che dall’oggi al domani cambiano, sposando la causa del Califfato, portando con sé i propri figli a combattere, lasciando le madri a piangere sugli oggetti e le foto rimaste a casa. Ci sono poi casi di alcuni ragazzi che modificano improvvisamente le loro abitudini, suggestionati da internet e dai loro coetanei convertiti alla causa della Guerra Santa.

Nei casi, invece, degli italiani di seconda generazione che dicono sì alla jihad, l’età media va dai 16 ai 30 anni. Molto spesso parlano poco arabo e vivono nel Nord Italia. Sono convertiti e sempre connessi alla rete. Oppure fanno parte delle nuove moschee, non autorizzate, sorte con regolarità dallo scoppio della guerra in Siria nel 2011. Partire è facile, grazie ai voli low cost per Gaziantep, nella Turchia Meridionale. La vera difficoltà sta nel trovare la cellula di combattenti in Siria perché il rischio è di essere scambiati per spie.

Il computo totale dei musulmani presenti in Italia ammonta a un milione e 200 mila persone (il 2% della popolazione). Come visto, internet in primis e centri di preghiera abusivi poi costituiscono i mezzi attraverso cui avviene il reclutamento di alcuni di loro. Il fenomeno della partenza per andare a combattere in Siria è ancora ridotto rispetto a chi sceglie di rimanere in Italia. E, anche se l’Isis ha occupato le prime pagine dei giornali nel corso degli ultimi tre anni, è ancora forte anche l’influenza di al Qaeda. La differenza, nella comunicazione e nella campagna sia di conversione sia di indottrinamento, sta nell’utilizzo intensivo dei social network da parte dei primi e l’avere imparato che solo un linguaggio di tipo occidentale può fare veramente breccia anche in quegli italiani, o europei, di seconda generazione cresciuti con i costumi europei.

Oltre ai contesti siriano e iracheno, ha influenza, sul nostro Paese, la crisi di ormai lunga durata presente in Libia. La decapitazione di due giovani, 19 e 21, attivisti per i diritti umani (rapiti il 6 novembre) per mano dell’Isis a Derna è l’ultima parte di una cronaca fatta di guerra civile e della rivendicazione, da parte di questa organizzazione terroristica, della conquista della Cirenaica.

E, in questo senso, le parole del ministro della Difesa Pinotti, danno il senso di come in Italia l’adesione alla causa della Guerra Santa possa crescere: “Ci preoccupa molto la situazione in Libia, dove il conflitto fra le fazioni in campo non sembra riuscire a trovare una composizione, malgrado gli sforzi di tanti attori internazionali e delle Nazioni Unite. Percepiamo distintamente il pericolo che in Libia il conflitto si aggravi e che entrino nelle sue dinamiche ulteriori elementi perturbatori, in particolare il radicamento di componenti fondamentaliste con la capacità di proiettare le loro azioni terroristiche anche verso i Paesi europei”, ha riferito la titolare del Dicastero in una conferenza interparlamentare.

 

Antropologia della comunicazione globale dell’ISIS – cultura di massa e reclutamento di terroristi 2.0 in Occidente

Mezzi comunicativi

Il 30 maggio 2014, armato di kalashnikov e pistola, Mehdi Nemmouche, un francese di 29 anni, è stato arrestato alla stazione ferroviaria marsigliese di Saint-Charles dai servizi doganali. Era ricercato per l’eccidio al Museo Ebraico di Bruxelles il 24 maggio scorso dove sono morti una coppia di israeliani, una volontaria francese e un impiegato belga. Nemmouche è francese, nato a Roubaix, nord della Francia.

Ecco come si combatte la nuova jihad: non è più necessario asservirsi di militanti organizzati, cellule gerarchiche con una organizzazione interna precisa, strutturata: bastano degli individui  intenzionati a colpire per immettere paura e insicurezza nel cuore dei paesi occidentali, a volte, i loro paesi d’origine.

Il rischio principale, il tallone d’Achille dei Servizi di Sicurezza, sta nell’imprevedibilità di attivisti “isolati”, come nel caso riportato. Fanatici reclutati prevalentemente sul web dai terroristi 2.0, veri esperti di nuove tecnologie della comunicazione. Esistono, di fatto, numerosi siti del filone Sharia4UK, Shari4Holland, Sharia4America e così via.

La giustizia europea si muove freneticamente alla ricerca, scoperta e smantellamento di cellule di reclutamento con base ne paesi dell’UE. Il 16 giugno scorso, le autorità spagnole hanno scovato quella diretta da tal Lahcen Ikarrien, ex detenuto di Guantanamo. Le  modalità di sorveglianza e le misure di sicurezza adoperate in caso di sospetta attività terroristica, sono agevolate nei paesi in cui è previsto il reato di “associazione a delinquere finalizzato al terrorismo”.

Tuttavia, il successo mediatico dell’ISIS nel mondo supera ogni ipotesi semplificata in relazione ai video delle efferate decapitazioni. Va ben al di la dell’apologia alla guerra santa. Vediamo i due aspetti che ne delineano l’azione: la strategia del terrore e il reclutamento continuo di nuovi militanti.

Osama Bin Laden otteneva la sua visibilità tramite video periodici mandati in onda in mondo visione: primo piano fisso, sfondo assettico, discorso, fine. Oggi, ogni terrorista, è in possesso di uno smartphone, un account Twitter, proprio come chiunque, in modo da poter raggiungere chiunque. Niente di più efficace.

La strategia comunicativa dell’ISIS pare sia stata messa a punto da Ahmad Abousamra, un 32-enne di Boston. Oltre ai video delle decapitazioni, v’è stata una evoluzione nella strategia comunicativa, una intuizione raffinata che si ravvisa nella rappresentazione virale delle “gioie del combattente”. Che sia un selfie, una piscina lussuosa, una sguardo fiero, foto o video, andrà condiviso sulla rete social. E il gioco è fatto. Propaganda studiata a tavolino. Twitter, hashtags (#Baghdad_is_liberated), Youtube, App, hacker in grado di sbloccare divieti.

Intercettazione dei soggetti da reclutare

Scatenare reazioni emotive forti quali l’indignazione, il senso di impotenza nella vita quotidiana, frustrazione e senso di ingiustizia porta a identificarsi con chi si ribella contro tutto questo. Diventare “martire” viene rappresentato come un riscatto della propria misera vita.

E la violenza? La pura violenza? Senza che sia necessario essere un soggetto socialmente fragile, per motivi economici, psicologici, famigliari etc, v’è una categoria di individui, principalmente giovani, a volte, molto giovani, i quali, facendo riferimento alle cronache, “per noia” esercitano violenza o vorrebbero esercitarla. Musica e videogame intercettano questa estrema “volontà di potenza” esaltandone l’eccitazione.

Ultimamente se ne ravvisa un terzo filone della comunicazione: “Is, da un mese, ha incominciato a produrre brochure e volantini bellissimi per far vedere come sia bello andare a vivere nello Stato Islamico. Non ci sono fucili: ci sono campi di grano, fiumi che scorrono e panetterie che sfornano pani fumanti. Servono ad attrarre le famiglie. Sono tre linee comunicative in parallelo, strategicamente organizzate, che Is sta utilizzando per organizzare al meglio e stabilizzare al meglio il suo “califfato”. I media fanno parte del gioco, vengono spesso utilizzati – i media occidentali – per le loro caratteristiche, dalle strategie mediatiche del terrorismo (Fonte: Marco Lombardi, professore di Sociologia e comunicazione presso l’Università Cattolica e direttore del centro per lo studio del terrorismo dell’ateneo milanese.)

Secondo le autorità britanniche, sarebbero oltre 500 i cittadini partiti per combattere in Siria.

Secondo l’Economist, sono 3000 gli europei convertiti e in preparazione per la jihad.

ISIS e la Società dello Spettacolo

Chiaro che la “guerra santa”, oggi, non è esclusivamente araba. L’ISIS comunica in arabo, inglese, tedesco. Come la cultura occidentale non è più esclusivamente tale. I foreign fighters sono occidentali e militanti ISIS e parlano di jihad globale.

Comunicazione spettacolare perfettamente in sintonia con la “Società dello Spettacolo” (Autore G. Debord) più attuale e totalizzante che mai. Gli esperti di comunicazione studiano la comunicazione dell’ISIS, i media studiano la comunicazione dell’ISIS, non considerando che è l’ISIS ad aver studiato e assorbito pienamente loro.

Secondo Der Spiegel, la strategia di reclutamento dell’ISIS si appella, non solo a soldati pronti a morire nella jihad, ma specificamente a tecnici, ingegneri. Sono 400 i cittadini tedeschi arruolati, ad oggi, nelle fila dello Stato Islamico. Ricordiamo che tali appelli vengono fatti in tedesco. Altro esempio efficace a comprendere la complessità della strategia di reclutamento di occidentali, è la canzone “Let’s go for jihad”, cantata in tedesco e sottotitolata in inglese. Niente arabo.

In definitiva, il fascino subito dagli occidentali nei confronti dell’ISIS, ha un carattere complesso. Avendo studiato e perfezionato e fatte proprie le opportunità della comunicazione globale; continuando sistematicamente a dare in pasto al mondo la profezia della concretizzazione del Califfato, lo Stato Islamico  opera con un mix di esercizio del terrore, della spettacolarizzazione della violenza e della narrativa epica (martiri celebrati in video).

Lo fa con un linguaggio altrettanto globale, lo fa rappresentando la profezia, facendola vedere. Parla di Stato, autorità costituità, ma svuotandolo delle categorie del diritto comuni nei paesi occidentali. Parla di ricchezza (com’è finanziato l’ISIS?), ma combatte il liberalismo.

Può tutto questo influenzare l’audience globale e, soprattutto, riesce questo a garantire regolari adepti, non solo dal mondo arabo, all’ISIS?

Ad oggi, la risposta è sì. Come e quanto durerà la propaganda del sogno del Califffato sarà nelle mire degli analisti, ma un segno profondo è stato lasciato. L’ISIS oggi è un brand.

“Big corporations wish they were as good at this as ISIS is” (Le grandi corporations vorrebbero essere bravi almeno quanto lo sono quelli dell’ISIS), sostiene J.M Berger, il più importante osservatore delle tecniche di comunicazione dei gruppi terroristi in medio-oriente.

 

di
Francesco Danzi
Giacomo Pratali
Sabiena Stefanaji

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Alessandro Conte
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