GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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REGIONI - page 84

EUAM Iraq: il Consiglio proroga la missione fino al 2020

ASIA PACIFICO/EUROPA di

Il 15 ottobre 2018 il Consiglio dell’Unione Europea ha prorogato la missione consultiva dell’UE in Iraq EUAM – European Union Advisory Mission – fino al 17 aprile 2020. La missione consultiva dell’Unione europea si concentra sull’assistenza alle autorità irachene nell’attuazione degli aspetti civili della strategia di sicurezza nazionale irachena.

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Ricercatore di Amnesty International sequestrato in Inguscenzia (Russia)

EUROPA di

In Inguscezia, nella federazione Russa, migliaia di persone protestano contro un accordo relativo alla demarcazione amministrativa dei confini con la vicina Cecenia. I manifestanti sostengono che l’accordo – approvato dai due parlamenti locali e dai due presidenti – sia una sconfitta per gli ingusci e una vittoria per i ceceni. L’attuale accordo prevede di cedere alla Cecenia un pezzo di territorio che molti ingusci considerano loro: aree non residenziali e coperte di boschi vicino a Dattykh. L’accordo è stato firmato a fine settembre dai presidenti delle due repubbliche, il ceceno Ramzan Kadyrov e l’inguscio Junus-Bek Yevkurov. Lo scorso 4 ottobre i due parlamenti hanno votato la ratifica: i deputati del parlamento ceceno hanno votato in modo compatto, mentre dei 25 deputati che compongono il parlamento dell’Inguscezia 17 hanno votato a favore, 3 hanno votato contro e gli altri si sono astenuti. Le proteste a Magas, la capitale dell’Inguscezia, sono iniziate in occasione della firma dei presidenti e si sono intensificate dopo la ratifica del parlamento. Secondo i manifestanti, il presidente inguscio avrebbe agito in modo autoritario e senza prima una consultazione popolare: tra gli altri, è stato criticato anche il presidente Vladimir Putin, accusato di non essere intervenuto in favore dell’Inguscezia. In questo contesto Amnesty International ha inviato un suo ricercatore a seguire le manifestazioni ma è stato sequestrato, picchiato e sottoposto a terribili finte esecuzioni da uomini qualificatisi come membri dei servizi di sicurezza.

Alle 21 del 6 ottobre un uomo ha bussato alla porta della camera d’albergo di Oleg Kozlovsky sostenendo che uno degli organizzatori delle proteste voleva vederlo. L’uomo ha portato Oleg Kozlovsky all’angolo di una strada, dove c’era un’automobile in attesa. Una volta salito a bordo, due uomini dal volto coperto sono a loro volta entrati nell’automobile. Uno di loro ha chiesto a Oleg di spegnere il telefono, l’altro ha iniziato a colpirlo sul volto.  L’automobile si è diretta verso un campo. Per tutto il tempo Oleg è stato tenuto a capo chino. Giunti a destinazione, Oleg è stato denudato e minacciato di morte se avesse tentato di fuggire. Gli uomini dal volto coperto gli hanno chiesto chi fosse, cosa facesse a Magas e per chi lavorasse, poi hanno tentato di convincerlo a diventare un loro informatore. È stato picchiato a lungo, ha subito la frattura di una costola ed è stato sottoposto due volte a finte esecuzioni con una pistola puntata alla nuca, la seconda volta dopo un invito a dire una preghiera. È stato fotografato nudo e ammonito a non parlare altrimenti le fotografie sarebbero state rese pubbliche. Dopo il rifiuto di diventare loro informatore, i sequestratori gli hanno confiscato telefono e videocamera e lo hanno portato nella vicina Repubblica dell’Ossezia del Nord, dove lo hanno rilasciato nei pressi dell’aeroporto. Uno degli uomini lo ha avvisato: “Non tornare mai più e non scrivere porcherie sull’Inguscezia”.

    Marie Struthers, direttrice di Amnesty International per l’Europa orientale e l’Asia centrale, ha dichiarato “questo è un episodio scioccante e sconvolgente. Le autorità devono sapere che non ci piegheremo alle intimidazioni di chi agisce a volto coperto. Abbiamo sporto formale denuncia alle autorità russe”, ha dichiarato. Oleg Kozlovsky è stato sequestrato di fronte a personale di un albergo e alle telecamere di sorveglianza, in una Magas piena di forze di polizia. I responsabili di questo attacco codardo devono essere rapidamente individuati e portati di fronte alla giustizia”.

 

 

 NIGER: Concluso il primo corso dalla Missione Italiana

AFRICA di

Nei giorni scorsi a Niamey, presso la Scuola della Gendarmeria Nazionale nigerina, alla presenza del Comandante della MISIN (Missione Italiana in Niger), Generale di Brigata Antonio Maggi, e del Comandante della Legione della Gendarmeria Territoriale di Niamey, Ten. Col. Aboubacar Allahi, si è svolta la cerimonia di chiusura del Corso per istruttori di Ordine Pubblico, iniziato il 17 settembre scorso.

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Siria: Raqqa un anno dopo

MEDIO ORIENTE di

Il presidente siriano Bashar al Assad e il presidente russo Vladimir Putin hanno dichiarato che la guerra in Siria è finita ma ad oggi la guerra non si ferma affatto e con essa I massacri nei confronti dei civili. Lo scenario vede la proposta di tregue per l’evacuazione dei civili che vengono sistematicamente violate, la comunità internazionale che accusa Assad di condurre degli attacchi utilizzando armi chimiche che hanno provocato stragi di bambini, colloqui di pace che si arrestano e si concludono con un nulla di fatto. Sullo sfondo vi è lo scambio di accuse tra le superpotenze, USA e Russia, e a livello regionale tra Turchia, Iran, Arabia Saudita e Israele, che finora ha giocato in difesa della propria sopravvivenza più che per estendere la propria influenza in una regione che le è ostile. È passato un anno da quando, dopo una feroce battaglia di quattro mesi, le forze democratiche siriane annunciarono la vittoria nei confronti dello Stato islamico, che aveva usato gli abitanti di Raqqa come scudi umani e commesso altri crimini di guerra. Nell’offensiva la coalizione USA e le forze democratiche siriane hanno utilizzato una potenza di fuoco devastante. La situazione a Raqqa, ancora oggi, è di distruzione e totale devastazione umanitaria. La città è svuotata con edifici bombardati, poca acqua corrente ed elettricità. L’odore di morte è nell’aria.  Gli attacchi hanno ucciso centinaia di civili e provocato migliaia di sfollati che ora stanno tornando in una città di rovine o rimangono nei campi. I civili sopravvissuti in altre città, dove le forze armate siriane e russe hanno distrutto ospedali, presidi medici, scuole, infrastrutture, vivono una realtà simili. Una realtà in cui sono privati delle loro case e dei diritti fondamentali. Recentemente Amnesty International ha chiesto alla Russia, alla Turchia e all’Iran, che hanno creato una zona demilitarizzata che protegge solamente una parte della popolazione della provincia, di assicurare la protezione dell’intera zona e di prevenire un’altra catastrofe. Amnesty International ha documentato molti attacchi illegali ai danni di civili e di beni civili da parte del governo siriano, con il sostegno della Russia e dell’Iran, e di gruppi di opposizione armata che hanno il sostegno della Turchia e di altri stati. Decine di migliaia di civili sono rimasti uccisi e mutilati in attacchi illegali del governo siriano, decine di migliaia sono vittime di sparizione forzata, arbitrariamente detenuti e torturati.

     In una lettera inviata ad Amnesty International il 10 settembre 2018, il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, le cui forze lanciarono la maggior parte degli attacchi aerei e con l’artiglieria contro Raqqa, ha scritto che non accetta alcuna responsabilità per le vittime civili, che la Coalizione non intende risarcire i sopravvissuti e i parenti dei civili uccisi, e che rifiuta di fornire ulteriori informazioni sulle circostanze degli attacchi che hanno fatto morti e feriti nella popolazione civile. Ad oggi, la coalizione a guida statunitense continua a negare e a non fornire indagini adeguate sulla dimensione delle vittime civili e delle distruzioni provocate a Raqqa. Il pentagono neanche sembra intenzionato ad offrire le proprie scuse per le centinaia di vittime della sua guerra di “annichilimento” contro Raqqa. Ciò è una vessazione per le famiglie che hanno sofferto prima sotto il dominio dello stato islamico e dopo sotto gli attacchi catastrofici della coalizione USA. La coalizione rifiuta di riconoscere il ruolo avuto per la maggior parte delle perdite civili e laddove lo ha ammesso le proprie responsabilità, non ha accettato di avere obblighi nei confronti delle vittime. Siamo di fronte a un sistema inadeguato di registrazione delle vittime civili che non si chiede perchè sia successo e come evitare in futuro altre vittime civili. La coalizione, venendo meno all’impegno preso di compiere indagini circa l’impatto dei suoi attacchi aerei, ha un conteggio implausibilmente basso. Nel giugno 2018 la coalizione aveva ammesso di aver causato solo 23 vittime civili. Conteggio al ribasso che vede protagonista anche la gran bretagna che dichiara di non aver causato vittime con i propri attacchi aerei. Solo dopo una serie di dinieghi da parte dell’esercito e degli esponenti politici, a fine giugno, la coalizione ha dichiarato di aver causato altre 77 vittimi civili. Vi è l’ammissione ma la coalizione continua a negare informazioni sulle circostanze in cui questi civili sono stati uccisi, il pentagono dichiara di non sentirsi obbligato a rispondere ad ulteriori domande circa le circostanze sulle ragioni degli attacchi. La situazione vede il dipartimento della Difesa statunitense sostenere che I ricercatori, gli esperti militari e I legali di Amnesty International non conoscano il diritto internazionale umanitario e che l’organizzazione abbia parlato di violazioni solo quando ci sono state vittime civili. Presentando così le cose, il Pentagono ha ignorato le prove che, nei casi documentati da Amnesty International, nei luoghi colpiti dagli attacchi aerei che provocarono tanti morti e feriti tra i civili non vi era presenza di uomini dello Stato islamico. Questo elemento ha portato Amnesty International ha concludere che si sia trattato di violazioni del diritto internazionale umanitario.  Su questo punto il segretario generale di Amnesty International Kumi Naidoo ha dichiarato che “la questione centrale sollevata dalle nostre ricerche è questa: la Coalizione prese le precauzioni necessarie per ridurre al minimo ogni potenziale danno ai civili, come richiedono le leggi di guerra? Anche se la Coalizione rifiuta di rispondere, le prove ci dicono che non lo ha fatto. Per proteggere le popolazioni civili non bastano gli impegni e le belle parole. Occorrono indagini sulle vittime civili, trasparenza e disponibilità ad apprendere la lezione e a modificare quelle procedure che non hanno minimizzato i danni ai civili. Occorre infine riconoscere l’effettiva entità dei danni causati ai civili e fare in modo che le vittime sappiano chi sono stati i responsabili e ottengano giustizia e riparazione. Il segretario alla Difesa Usa James Mattis ha detto che le forze Usa sono ‘bravi ragazzi’. Ma sarebbero davvero tali se rispettassero le leggi di guerra e facessero tutto il necessario per assicurare ai civili innocenti che hanno sofferto a causa delle loro azioni la giustizia che meritano”.

Quella che oggi insanguina il territorio siriano è una guerra del “tutti contro tutti”. L’esercito siriano libero è ormai disintegrato in tante sigle diverse e oltre ai ribelli si devono fare I conti anche con I miliziani dell’Isis. Poi ci sono I curdi che combattono per uno stato indipendente, anche se le cose ultimamente sembrano andare nella direzione opposta e il vero nemico per loro è la Turchia. A ciò si aggiunge che nella guerra siriana le ingerenze straniere sono sempre state presenti: Usa, Qatar, Arabia Saudita e Turchia in chiave anti-Assad e con molte ambiguità anti-Isis; Iran, Russia e Cina a sostegno di Damasco. Le ragioni di questa guerra che va avanti da oltre sette anni e che ha mietuto un numero impressionante di vittime e generato un numero impressionante di profughi e sfollati vanno oltre le istanze di riforme e democrazia che hanno caratterizzato le prime proteste. In mezzo ai vari attori, a morire e a essere portati allo stremo, ci sono I civili. Il cessate il fuoco per il popolo siriano è ancora molto lontano.

Visti umanitari per i rifugiati: la proposta alla Commissione UE

EUROPA di

Il Parlamento europeo è composto da diverse commissioni di eurodeputati, permanenti e temporanee, ed ognuna ha una propria specializzazione.

La commissione LIBE – Libertà civili, giustizia e affari interni – è responsabile della maggioranza della legislazione e del controllo democratico delle politiche di giustizia e affari interni a livello europeo. Con ciò, garantisce il pieno rispetto della Carta dei diritti fondamentali all’interno dell’Unione Europea, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e del rafforzamento della cittadinanza europea. Tale commissione svolge il suo lavoro interagendo con la Commissione europea e il Consiglio dei ministri, per poi cooperare strettamente con i parlamenti nazionali.

Le politiche in materia di giustizia e affari interni sono volte ad affrontare questioni di interesse comune a livello europeo, quali la lotta contro la criminalità internazionale e il terrorismo, la protezione dei diritti fondamentali, la protezione dei dati e della vita privata nell’era digitale, la lotta contro la discriminazione basata sull’origine etnica, la religione, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale.
Nella riunione della commissione LIBE del 10 ottobre 2018, i membri hanno affrontato diverse questioni: il progetto di relazione sulle norme per le minoranze nell’UE, con il relatore József Nagy (PPE) e i visti umanitari, con il relatore Juan Fernando López Aguilar (S&D); l’uso dei dati degli utenti di Facebook da parte di Cambridge Analytica e l’impatto sulla protezione dei dati, con il relatore Claude Moraes (S&D).

In particolare, nell’ambito dei visti umanitari, è emerso che:

– i detentori dei visti avrebbero accesso al territorio dell’Unione al solo scopo di richiedere protezione internazionale;

– i visti sarebbero da rilasciare presso le ambasciate e i consolati dell’UE all’estero;

– il 90% di quelli che hanno ottenuto protezione internazionale nell’UE è arrivato con mezzi irregolari;

– circa 30.000 persone sono morte cercando di raggiungere l’Europa dal 2000.

Dunque, con 39 voti favorevoli e 10 voti contrari, il Comitato per le libertà civili ha approvato la richiesta alla Commissione europea di presentare entro il 31 marzo 2019 una proposta legislativa che istituisca un visto umanitario europeo, che dia accesso al territorio europeo, in particolare allo Stato membro che rilascia il visto, al fine di presentare una domanda di protezione internazionale.

Nel corso dell’incontro, i deputati hanno sottolineato che, nonostante numerosi annunci e richieste di percorsi sicuri e legali per i richiedenti asilo in Europa, l’Unione Europea non dispone di un quadro preciso di procedure di ingresso. I rifugiati, attraverso i visti umanitari, avrebbero accesso al territorio dell’Unione Europea così da poter richiedere protezione internazionale.

Si ritiene infatti che i paesi dell’Unione Europea dovrebbero essere in grado di rilasciare visti umanitari presso ambasciate e consolati all’estero, così da consentire ai rifugiati in cerca di protezione di accedere all’Europa senza rischiare la vita.

Gli obiettivi di tale richiesta sono: tagliare il bilancio delle vittime, combattere il contrabbando e migliorare l’uso dei fondi di migrazione. Secondo la commissione LIBE, i visti umanitari contribuirebbero a far fronte al numero intollerabile di vittime nel mar Mediterraneo e quindi nelle rotte migratorie verso l’Unione Europea; inoltre, i visti servirebbero per combattere il contrabbando di esseri umani che si è creato e per gestire gli arrivi, l’accoglienza e il trattamento delle domande di asilo in un modo migliore. Attraverso i visti umanitari, si dovrebbe anche contribuire all’ottimizzazione da parte degli Stati membri e del bilancio dell’Unione Europea in materia di asilo, per le procedure di applicazione della legge, il controllo delle frontiere, la sorveglianza, la ricerca ed infine il soccorso.

Per poter ottenere il visto umanitario, i rifugiati beneficiari dovranno dimostrare un’esposizione o un rischio di persecuzione nel paese di origine ben fondati e non essere già parte di un processo di reinsediamento; prima di ottenere il visto, ogni candidato verrà sottoposto ad uno screening di sicurezza, attraverso le relative banche dati nazionali ed europee, per garantire che questo non costituisca un rischio per la sicurezza.

Il relatore Juan Fernando López Aguilar (S&D) ha dichiarato: “Nel contesto di un bilancio delle vittime inaccettabile nel Mediterraneo, il Parlamento Europeo deve dare risultati. Il voto di oggi è un passo limitato, ma comunque un segnale politico molto importante per la Commissione europea. Dobbiamo fare di più per aiutare quegli esseri umani bisognosi, poiché attualmente non esistono abbastanza percorsi legali e sicuri per l’UE per coloro che cercano protezione internazionale”.

Per ciò che riguarda i prossimi step, questa iniziativa legislativa sarà sottoposta a votazione da parte del Parlamento europeo nella seduta plenaria di novembre. Se adottata in seduta plenaria a maggioranza qualificata, la Commissione dovrà fornire una risposta motivata alla richiesta del Parlamento.

Amnesty in vista dell’abolizione totale della pena di morte: che cessi il trattamento crudele dei condannati!

EUROPA di

In occasione della giornata mondiale contro la pena di morte, che si tiene il 10 ottobre, Amnesty International ha dichiarato che i prigionieri condannati a morte devono essere trattati con umanità e dignità, oltre che ad essere detenuti in condizioni rispettose delle norme e degli standard internazionali dei diritti umani. In occasione del 10 ottobre Amnesty ha lanciato una campagna in Bielorussia, Ghana, Giappone, Iran e Malaysia affinché i rispettivi governi pongano fine alle inumane condizioni dei condannati a morte e assumano iniziative in favore dell’abolizione totale della pena capitale.

Nel 2017 Amnesty International ha registrato 993 esecuzioni in 23 paesi, il quattro per cento in meno rispetto al 2016 e il 39 per cento in meno rispetto al 2015. La maggior parte delle esecuzioni ha avuto luogo in Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan ma questo dato non tiene conto delle migliaia di esecuzioni avvenute in Cina, dove le informazioni sull’uso della pena di morte restano un segreto di stato.  Stephen Cockburn, vicedirettore del programma Temi globali di Amnesty International, ha dichiarato che “A prescindere dal crimine che possa aver commesso, nessuno dovrebbe essere costretto a subire condizioni inumane di detenzione. Invece, in molti casi, i condannati a morte sono tenuti in rigido isolamento, vengono privati delle cure mediche di cui necessitano e vivono nella costante ansia di un’imminente esecuzione. Il fatto che alcuni governi notifichino l’esecuzione ai prigionieri e ai loro familiari pochi giorni, se non addirittura pochi minuti prima, aggiunge crudeltà alla situazione. Tutti i governi che ancora mantengono la pena di morte dovrebbero abolirla immediatamente e porre fine alle drammatiche condizioni di detenzione che troppi condannati alla pena capitale sono costretti a subire”.

La dichiarazione universale dei diritti umani all’articolo 3 dice che “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”. Il diritto alla vita è inerente alla persona umana e deve essere protetto dalla legge in quanto nessuno può e deve essere privato arbitrariamente della vita.  La Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) con il protocollo numero 6 ha fatto enormi passi in avanti verso l’abolizione della pena di morte. All’articolo 1 dichiara che la pena di morte è abolita in quanto nessuno può essere condannato alla pena capitale o essere giustiziato. Rimaneva però la possibilità per lo  stato di prevedere nella propria legislazione la pena di morte per atti commessi in tempo di guerra o di pericolo imminenti di guerra solo nei casi previsti dalla legislazione. A questo si accompagnava l’obbligo di comunicare al segretario generale del Consiglio d’Europa le disposizioni in materia della legislazione nazionale. Il protocollo numero 6 è stato il primo strumento giuridico obbligatorio in Europa e nel mondo che ha sancito l’abolizione della pena di morte in tempo di pace, non essendo permesse deroghe in situazioni di emergenza né riserve. L’ulteriore passo in avanti è stato fatto con il protocollo numero 13 relativo all’abolizione della pena di morte in qualsiasi circostanza (maggio 2002). Gli stati firmatari del protocollo, determinati a compiere il passo definitivo al fine di abolire la pena di morte in qualsiasi circostanza, hanno vietato qualsiasi deroga e riserva alla norma sull’abolizione della pena di morte. In Italia la pena di morte, invece, era stata abolita già nel 1948 all’articolo 27 della costituzione, per reati comuni e per i reati commessi in tempo di pace. Poi con la legge 589 del 1994 è stata disposta l’abolizione dal codice militare di guerra e dalle leggi militari di guerra. Ad oggi, l’articolo 27 della costituzione, semplicemente, stabilisce che “non è ammessa la pena di morte”.

In Ghana i condannati a morte denunciano che spesso non ricevono le cure mediche necessarie per curare malattie o disturbi di lunga durata. Decine di prigionieri del braccio della morte, compresi sei con disabilità psicointellettiva certificata, hanno dovuto affrontare condizioni carcerarie deplorevoli, caratterizzate da sovraffollamento e da mancanza di assistenza medica e di opportunità educative e ricreative. Meno del 25 per cento dei reclusi del braccio della morte, intervistati da Amnesty International, era riuscito a presentare un ricorso in appello contro il verdetto di colpevolezza o la propria condanna. Pochi dei prigionieri intervistati sapevano come presentare appello o accedere a una rappresentanza legale d’ufficio, mentre la maggior parte di loro non poteva permettersi economicamente una consulenza legale privata. In Iran, Mohammad Reza Haddadi, nel braccio della morte da quando aveva 15 anni, ha dovuto subire la tortura di vedersi fissata e poi rinviata l’esecuzione almeno sei volte negli ultimi 14 anni. Le autorità iraniane continuano ad effettuare centinaia di esecuzioni di persone condannate al termine di processi iniqui e alcune delle esecuzioni sono avvenute in pubblico. A ciò si accosta una propaganda che definisce “antislamiche” le campagne pacifiche contro la pena di morte e le vessazioni e incarcerazioni di attivisti contrari alla pena di morte. Hoo Yew Wah ha presentato una richiesta di clemenza alle autorità della Malaysia nel 2014 ed è ancora in attesa di una risposta. La pena di morte è obbligatoria per alcuni reati tra cui il traffico di droga, l’omicidio e l’uso di armi da fuoco con l’intenzione di uccidere o di far del male in determinate circostanze. A novembre, il parlamento ha emendato la legge sulle droghe pericolose, dando alla magistratura la facoltà di decidere sull’obbligatorietà della pena di morte, nel caso in cui l’accusato fosse un corriere della droga e avesse cooperato con la polizia nel “fermare le attività del traffico di droga” anche se la disposizione includeva obbligatoriamente 15 colpi di frusta. Il clima di segretezza che circonda l’uso della pena di morte in Bielorussia fa sì che le esecuzioni non siano note all’opinione pubblica e vengano portate a termine senza alcuna comunicazione preventiva ai prigionieri, alle loro famiglie o agli avvocati. Per esempio, ad aprile è stata effettuata l’esecuzione di Siarhei Vostrykau, che era nel braccio della morte da maggio 2016 e la a corte regionale di Homel ha ricevuto conferma della sua esecuzione il 29 aprile. L’ultima sua lettera ricevuta dalla madre era datata 13 aprile. Nel frattempo, Matsumoto Kenji, in Giappone, soffre di delirio molto probabilmente a causa del prolungato isolamento in cui trascorre l’attesa dell’esecuzione.

Amnesty International si oppone sempre alla pena di morte, senza eccezione e a prescindere dalla natura o dalle circostanze del reato, dalla colpevolezza, dall’innocenza o da altre caratteristiche del condannato e dal metodo usato per eseguire le condanne a morte. La pena di morte è una violazione del diritto alla vita,  è l’estrema punizione crudele, inumana e degradante.

Trump, The Donald

AMERICHE di

Donald Trump è uomo con indubbie qualità. Ha dimostrato di essere un imprenditore furbo e capace di fare soldi, ha condotto con successo un programma televisivo ed ha sedotto, da outsider, milioni di americani con un gradimento che, nonostante feroci attacchi di stampa e oppositori, sembra essere costantemente in ascesa.

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La Macedonia al voto per un futuro in UE e NATO

EUROPA di

Il 30 settembre 2018 i macedoni sono stati chiamati a votare sul cambio del nome del paese e non solo, poiché il risultato ha avuto conseguenze anche sul piano politico europeo: i cittadini che hanno partecipato al referendum  si sono trovati a dover scegliere per l’ingresso nell’Unione Europea e nella Nato della Macedonia, accettando l’accordo con la Grecia sul cambio del nome del paese. In particolare, la domanda sulle schede referendarie è stata «Sei favorevole a entrare nella NATO e nell’Unione Europea, e accetti l’accordo tra Repubblica di Macedonia e Grecia?».

La questione è tutt’altro che semplice: l’instabilità che caratterizza il paese dei Balcani è dovuta anche alla disputa con la Grecia per il nome. Dall’indipendenza della Macedonia nel 1991, vi è stato un continuo scontro con la Grecia sul nome del paese, territorio dell’ex Jugoslavia. In particolare, Atene non accettava il nome “Macedonia” a causa della possibilità che poi la Macedonia potesse nutrire ambizioni espansionistiche sulla provincia greca. Il paese è stato indicato con l’espressione “Repubblica ex jugoslava di Macedonia”, e la Grecia ha sempre posto il veto su ogni accenno di volontà di Skopje di entrare a far parte dell’Unione europea o della Nato. La situazione sembra essere migliorata grazie al raggiungimento di un compromesso con l’accordo di Prespa nel giugno 2018 tra i due paesi, nel quale si è utilizzato il nome “Repubblica di Macedonia del Nord”, così da distinguere lo Stato con la provincia greca.

Con il referendum del 30 settembre è stato proposto di sostituire i nomi “Repubblica di Macedonia” ed “Ex repubblica jugoslava di Macedonia” – Fyrom, usato nelle organizzazioni internazionali – con “Repubblica della Macedonia del Nord”. Sebbene si sia raggiunto un accordo che sembra essere una soluzione alla questione ultradecennale, all’interno di entrambi i paesi la situazione è tutt’altro che tranquilla.

Fin dall’inizio, l’opposizione al governo socialdemocratico di Zoran Zaev si è schierata contro l’accordo e quindi anche contro il referendum in questione, facendo leva sull’identità nazionale in funzione antieuropeista, mentre il governo di centro sinistra, autore dell’accordo con la Grecia, ha fatto campagna per il sì, sperando che un superamento del quorum potesse essere anche una legittimazione popolare per il suo operato. Non si è arrivati ad un vero e proprio boicottaggio da parte dell’opposizione, tuttavia si è spinto verso un astensionismo che ha inciso molto sul risultato referendario. Il referendum è consultivo e non vincolante, dunque per ratificare l’accordo con la Grecia sarebbe comunque necessaria l’approvazione parlamentare con una maggioranza di due terzi. Tale referendum ha molta importanza anche a livello europeo: a dimostrazione di ciò, molte figure importanti dell’Unione Europea e della Nato hanno visitato Skopje durante la campagna referendaria.

All’indomani del voto, ci si rende conto di come il referendum sia stato un vero e proprio flop: l’affluenza alle urne non ha raggiunto il quorum necessario – 50% +1 – con una partecipazione ferma circa al 35%. Tra i voti ottenuti, il 90,8% degli elettori ha votato a favore del cambio del nome del Paese – e di tutto ciò che ne consegue – mentre vi è stato solo il 6,18% di voti contrari, poiché chi voleva esprimere una posizione contraria ha preferito astenersi, così da non far raggiungere il quorum per la validità del referendum. Secondo il primo ministro macedone, è stato il boicottaggio operato dall’opposizione a provocare una così bassa affluenza, causata anche dalle dichiarazioni del Presidente della Repubblica, il nazionalista Gjorgje Ivanov, il quale considera l’accordo di Prespa come una violazione della sovranità nazionale macedone.

Si può quindi parlare di una vera e propria vittoria della destra e del centrodestra, ma il primo ministro Zaev sembra tutt’altro che scoraggiato: europeista convinto e fautore del referendum in questione, promette di continuare a lottare per garantire al paese balcanico l’integrazione in UE e NATO. La questione del referendum macedone ha avuto delle reazioni anche a livello europeo; l’Alto rappresentante dell’Unione Europea Federica Mogherini e il commissario europeo per l’Allargamento Johannes Hahn hanno infatti dichiarato che “la stragrande maggioranza di coloro che hanno esercitato il proprio diritto di voto ha votato sì all’accordo Grecia e al percorso europeo; ciò è un’opportunità storica per il Paese verso l’Unione Europea”. I due esponenti dell’UE hanno poi confermato il pieno sostegno di Bruxelles alla Macedonia, aggiungendo che “ora spetta a tutti gli attori politici e istituzionali agire seguendo le loro responsabilità costituzionali al di là delle linee politiche”.

Resta un dato di fatto che il referendum non è andato nel verso giusto rispetto a chi lo aveva proposto e promosso, poiché l’affluenza è rimasta molto al di sotto delle aspettative, mentre a festeggiare è stato il Partito Democratico per l’Unità nazionale (Vmro-Dpmne). Tuttavia, il premier Zaev si sofferma sull’importanza del risultato raggiunto, affermando che la volontà degli elettori dovrebbe trasformarsi in un’attività politica del Parlamento macedone; in caso contrario, si è disposti a procedere con delle elezioni anticipate. La già complessa situazione potrebbe allora continuare a complicarsi, alla luce del fatto che alle elezioni del 2016, il Vmro-Dpmne e i Socialdemocratici dovettero negoziare sette mesi per poter formare il governo.

La Macedonia potrebbe trovarsi di nuovo in una difficile campagna elettorale e la possibilità di entrare nell’UE e nella NATO si allontanerebbe ulteriormente.

La sfida UE sulle emissioni CO2: nuovi obiettivi delineati dal Parlamento Europeo

EUROPA di

I trasporti sono l’unico settore rilevante nell’ambito dell’Unione europea in cui le emissioni di gas a effetto serra continuano ad essere in aumento. Al fine di rispettare gli impegni sottoscritti alla COP21 di Parigi nel 2015, è necessaria un’accelerazione della decarbonizzazione dell’intero settore, con l’obiettivo dell’azzeramento delle emissioni inquinanti entro la metà del secolo.

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Francesca Scalpelli
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