GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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REGIONI - page 83

Mercati, ospedali e mortai: Guerra in Yemen e rischi per i civili

MEDIO ORIENTE di

Negli ultimi giorni sale la paura per l’escalation nella città portuale yemenita di Hodeidah, città importantissima per la posizione strategica sul mar rosso e vitale per l’arrivo degli aiuti internazionali di farmaci e alimenti. Il rischio è quello di un imminente massacro di civili se le parti coinvolte nel conflitto non prenderanno misure volte a proteggere i civili. Gli ultimi giorni hanno visto i combattenti Huthi assaltare un ospedale e prendere posizione sul tetto mettendo in pericolo personale medico, degente e molti bambini all’interno della struttura. La struttura sanitaria era supportata da Save the Children e ha riportato gravi danni a una delle farmacie che fornisce medicinali salvavita. Il problema è rappresentato dal fatto che ci sono molti civili e che questi non hanno un altro posto dove recarsi per ricevere cure mediche che potrebbero risultare di vitale importanza. Chiunque attacchi una struttura medica, civile e in cui le persone lottano tra la vita e la morte, rischia di rendersi responsabile di crimini di guerra.

La presenza di combattenti Huthi sul tetto dell’ospedale viola il diritto internazionale umanitario, secondo il quale queste strutture non possono essere impiegati per scopi militari. Ma questo dato di fatto non deve rendere l’ospedale, i pazienti e il personale medico un obiettivo legittimo per gli attacchi aerei della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti come è accaduto molte volte nel corso della guerra. La militarizzazione degli ospedali è un ulteriore capitolo di una guerra in cui la coalizione a guida saudita ed emiratina compie regolarmente attacchi aerei devastanti contro aree civili. Da quando sono iniziati gli scontri nel dicembre 2017, la situazione nel governatorato di Hodeidah e nella città stessa si è fatta sempre più drammatica.

Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, circa la metà dei 600.000 abitanti di Hodeidah sono riusciti a lasciare la città prima che gli scontri in corso chiudessero in trappola l’altra metà. L’unica via d’uscita aperta resta quella verso nord, ma l’aumento del costo del carburante e il crollo della moneta locale, ulteriori conseguenze del conflitto, rendono impraticabile per molti anche questa soluzione. Resa, tra l’altro, ulteriormente più difficile dal fatto che la coalizione non ha istituito quei corridoi umanitari che si era impegnata a istituire il 24 settembre. Mentre proseguono al Consiglio di sicurezza le discussioni su un possibile cessate-il-fuoco, gli scontri si sono estesi alla periferia meridionale e orientale della città. Il sottosegretario delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari e coordinatore per gli aiuti di emergenza ha ammonito, a causa dell’offensiva contro il principale porto dello Yemen, il paese è alle soglie di una massiccia carestia: agli otto milioni di yemeniti che già si trovano in una situazione d’insicurezza alimentare, potrebbero presto aggiungersi altri tre milioni e mezzo di persone.

Amnesty International denuncia, inoltre, che dall’Italia continuano a partire carichi di bombe aeree per rifornire la Royal Saudi Air Force. L’ultimo carico, con migliaia di bombe, è partito in gran segreto da Cagliari. L’associazione ritiene che si tratti anche questa volta di bombe aeree del tipo MK80 prodotte dalla RWM Italia, azienda del gruppo tedesco Rheinmetall, con sede legale a Ghedi (Brescia) e fabbrica a Domusnovas in Sardegna. La conferma dell’utilizzo delle bombe italiane nel conflitto in Yemen arriva anche dal “Rapporto finale del gruppo di esperti sullo Yemen”, trasmesso il 27 gennaio 2017 al Presidente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Alcune organizzazioni specializzate, riportano la possibilità concreta di almeno sei invii di carichi di bombe dall’Italia verso l’Arabia Saudita. Nell’ottobre 2016 l’allora Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni per la prima volta ammetteva, in risposta ad una interrogazione parlamentare, che alla RWM Italia sono state rilasciate licenze di esportazione per l’Arabia Saudita. La responsabilità del rilascio delle licenze di esportazione ricade sull’Unità per le Autorizzazioni di Materiali d’Armamento (UAMA), incardinata presso il Ministero degli Esteri e della Cooperazione e che fa riferimento direttamente al Ministro. Ma nel percorso di valutazione per tale rilascio incidono con ruoli stabiliti dalla legge i pareri di vari Ministeri, tra cui soprattutto il Ministero della Difesa. Va inoltre ricordata la presenza di un accordo di cooperazione militare sottoscritto dall’Italia con l’Arabia Saudita (firmato nel 2007 e ratificato con la Legge 97/09 del 10 luglio 2009) che prevede un rinnovo tacito ogni 5 anni, e grazie al quale si garantisce una via preferenziale di collaborazione tra i due Paesi in questo settore, comprese le forniture di armi. La legge italiana 185 del 1990 che regolamenta questa materia afferma infatti che le esportazioni di armamenti sono vietate non solo come è già automatico verso le nazioni sotto embargo internazionale ma anche ai Paesi in stato di conflitto armato e la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione della Repubblica. Il 22 giugno 2017, l’associazione ha presentato una proposta di Mozione parlamentare alla Camera insieme ad alcune organizzazioni e reti della società civile italiana. Il 19 settembre 2017, con 301 voti contrari e 120 a favore, la Camera dei deputati ha respinto la mozione che chiedeva al governo di bloccare la vendita di armi a paesi in guerra o responsabili di violazioni dei diritti umani come disposto dalla legge 185/1990, dalla Costituzione italiana e dal Trattato internazionale sul commercio delle armi.

Amnesty International chiede al governo di intraprendere un percorso nuovo nella difesa dei diritti umani e del rispetto del diritto internazionale sospendendo l’invio di materiali militari all’Arabia Saudita, come fatto recentemente dalla Svezia.

Per partecipare alla raccolta firme di Amnesty International “clicca qui

LIFE Programme: la Commissione europea approva nuovi investimenti per ambiente e clima

EUROPA di

Il programma LIFE è lo strumento di finanziamento dell’Unione Europea per l’ambiente e per il clima. L’obiettivo generale di LIFE è contribuire all’attuazione, all’aggiornamento e allo sviluppo della politica e della legislazione europea in materia ambientale e climatica mediante il cofinanziamento di progetti europei.

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Il grande fratello sulle notizie, il caso Khashoggi

MEDIO ORIENTE di

Giornalisti e persone che lottano per i diritti umani sotto scorta, che subiscono minacce di morte o che subiscono violenze fisiche e verbali. Irruzioni dentro le case per rubare computer o documenti confidenziali. Persone che vengono schiaffeggiate o colpite da una testata davanti ad una telecamera mentre fanno domande. Persone che molti vorrebbero solo mettere a tacere facendogli mangiare fogli di carta. Criminalizzazione dei media e dei giornalisti che “non piacciono” a un determinato schieramento o pressioni politiche.  Questa è la situazione di attivisti o giornalisti in tutto il mondo e anche quando le maglie della giustizia si stringono addosso ai colpevoli, spesso, arrivano gli insulti, le fake news, le minacce o gli auguri di morte da parte di esponenti o simpatizzanti di una forza politica. In questi contesti non si sa dove sia lo stato, se ci sia e da che parte sia. Molti giornalisti scelgono l’autocensura per non finire in prigione o per salvare il proprio posto di lavoro ma c’è chi ancora, in un momento di “relazione complicata con le notizie”, combatte per un diritto che dice che “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere” (art. 19 DUDU).

 

     Nel pomeriggio del 2 ottobre un cittadino saudita si è recato al consolato saudita di Istanbul per chiedere i documenti necessari per il matrimonio. Per farlo ha preso la precauzione di lasciare i telefoni alla sua fidanzata dicendola di chiamare le autorità se non fosse tornato entro 2 ore. Non si sono più visti, lei lo ha aspettato 12 ore fuori dal consolato. Quel cittadino era Jamal Khashoggi, giornalista saudita che ha collaborato con diversi giornali in lingua araba e in lingua inglese in Arabia Saudita anche prestando servizio come redattore capo del quotidiano saudita al-Watam, di proprietà di un membro della famiglia reale. Nel settembre 2017 fuggì dall’Arabia Saudita, temendo l’arresto. Poco dopo la sua partenza, le autorità saudite hanno arrestato dozzine di importanti dissidenti, intellettuali, accademici e religiosi. Dalla fine del 2017 Khashoggi ha regolarmente partecipato a eventi pubblici a Washington e ha scritto colonne per The Washington Post in cui criticava la crescente repressione dei dissidenti in Arabia Saudita . Lo scorso 3 ottobre l’Arabia Saudita ha negato di averlo arrestato con una dichiarazione tramite l’agenzia governativa saudita, mentre nello stesso giorno il portavoce della Turchia ha dichiarato durante una conferenza stampa:  “Le informazioni che abbiamo sono che il cittadino saudita in questione è ancora nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul”.

L’Arabia saudita permette solo i media non indipendenti e tollera i partiti politici non indipendenti. Ad oggi, nel paese vi è un elevato livello di autocensura poiché vi sono gravissimi rischi, sia per i giornalisti che per i cittadini, per ogni commento critico di far partire l’ordine di arresto ai sensi della legge contro il terrorismo o ai sensi della legge per il cyber-crimine. Le accuse potrebbero essere quelle di blasfemia, insulti alla religione, incitamento al caos o di minaccia all’unità nazionale. Dal settembre 2017 più d 15 persone sono state arrestate e nella maggior parte dei casi gli arresti non sono stati confermati ufficialmente se non dopo la certezza della condanna. Questo è stato il caso di persone come Saleh El Shihi, Esam Al Zamel, Turad Al Amri o Fayez Ben Damakh e altre persone come le attiviste per i diritti delle donne Loujain al-Hathloul, Iman al-Nafjan e Aziza al-Yousef. Persone che sono arbitrariamente detenute da mesi,  senza accusa, e che rischiano, insieme ad altri detenuti, lunghe pene detentive se non addirittura la pena di morte per aver esercitato in forma pacifica i loro diritti alla libertà di espressione, di associazione e di manifestazione. Per questo le autorità turche dovrebbero prendere provvedimenti per impedire agli agenti sauditi di rimpatriare con la forza Khashoggi in Arabia Saudita. Se rimpatriato forzatamente lì, Khashoggi si troverebbe di fronte al rischio reale di un processo iniquo e di una lunga detenzione.

     A questo proposito il Comitato per la protezione dei giornalisti, Human Rights Watch, Amnesty International e Reporter senza frontiere hanno sollecitato la Turchia a chiedere al Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che sia svolta un’indagine Onu sulla possibile esecuzione extragiudiziale del noto giornalista saudita Jamal Khashoggi. Robert Mahoney, vicedirettore generale del Comitato per la protezione dei giornalisti ha dichiarato che “La Turchia dovrebbe chiedere alle Nazioni Unite di avviare un’indagine tempestiva, credibile e trasparente. Il coinvolgimento dell’Onu è la migliore garanzia contro ogni insabbiamento da parte saudita o i tentativi di altri governi di nascondere questo caso sotto il tappeto al fine di mantenere i lucrosi legami economici con Riad”. Le autorità turche hanno annunciato di aver avviato un’indagine il giorno stesso della sparizione di Khashoggi. In tale ambito, il 15 ottobre hanno perquisito il consolato saudita di Istanbul. Alcune informazioni sono filtrate o sono state condivise con i media turchi, tra cui quella riguardante l’esistenza di registrazioni audio e video che dimostrerebbero che Khashoggi è stato ucciso all’interno del consolato. Lo stesso 15 ottobre il re dell’Arabia Saudita ha ordinato al procuratore generale di aprire un’inchiesta sulla sparizione di Khashoggi. Dato il possibile coinvolgimento di autorità saudite nella vicenda e la mancanza d’indipendenza della magistratura del paese, vi sono forti dubbi sull’imparzialità di un’inchiesta del genere. Le autorità turche ritengono che Khashoggi sia stato ucciso, e il suo corpo sia stato smembrato, da agenti sauditi all’interno del consolato.

La Turchia, l’Arabia Saudita e tutti gli altri stati membri delle Nazioni Unite dovrebbero cooperare in pieno con l’indagine Onu onde assicurare che questa abbia tutto il sostegno e l’accesso necessari per scoprire cosa è accaduto a Khashoggi. Per facilitare l’indagine, l’Arabia Saudita dovrebbe rinunciare alle protezioni diplomatiche – come l’inviolabilità dei luoghi ritenuti importanti nell’indagine e l’immunità dei suoi funzionari – previste dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 1963. È quanto del resto ha chiesto la stessa Alta commissaria Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet. Inoltre la Turchia dovrebbe fornire tutte le prove, comprese le registrazioni audio e video che funzionari turchi hanno ripetutamente detto ai giornalisti di avere e che confermerebbero l’avvenuta uccisione di Khashoggi all’interno del consolato.

Il caso di Khashoggi ci dovrebbe ricordare l’importanza del diritto all’informazione e alla libertà di stampa. Ci dovrebbe ricordare come il “grande fratello” del controllo agisce ovunque e in diversi modi, sia a livello istituzionale che nella società. Per il caso Khasoggi Amnesty International ha lanciato un appello.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Accordi commerciali UE-Singapore: intensificazione della cooperazione tra Asia ed Europa

EUROPA di

Singapore è il principale partner dell’Unione europea all’interno dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), in quanto protagonista di quasi un terzo degli scambi di merci e servizi tra le due entità. Non a caso, in un’ottica geopolitica, Singapore assume un’importanza rilevante: in primo luogo, con l’avvento dell’economia globale,  la posizione della Città-Stato nello Stretto di Malacca è ritenuta un key point importantissimo per il transito delle navi mercantili tra Asia ed Europa; in secondo luogo, si tratta di un territorio connesso storicamente alla colonizzazione britannica e ad una gestione inglese finalizzata a dar luogo un porto libero, dotato di una vasta autonomia in ambito economico.

Nel 2010 l’UE e Singapore hanno avviato dei negoziati in materia di scambi commerciali ed investimenti che si sono conclusi nel 2014. In seguito all’emanazione di un parere della Corte di Giustizia dell’UE nel 2017, nell’aprile del 2018 la Commissione ha proposto due accordi distinti. Sulla base di tale proposta della Commissione, il 15 ottobre, il Consiglio ha adottato delle decisioni relative alla conclusione di un accordo di libero scambio (ALS) e di un accordo sulla protezione degli investimenti. Si tratta dei primi accordi bilaterali in materia di scambi ed investimenti conclusi tra l’UE ed uno Stato membro dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN). Nel 2017 tali scambi commerciali bilaterali hanno raggiunto un valore di 53,3 miliardi di euro: nel dettaglio, le esportazioni dell’Unione europea sono state pari a 33,16 miliardi, principalmente  automobili e macchinari, mentre le importazioni sono state pari a 20,14 miliardi e sono stati importati in particolare prodotti chimici e farmaceutici. Prima dell’adozione delle decisioni risalenti al 15 ottobre, tutte le merci provenienti dall’UE potevano già essere importate a Singapore prive di dazi doganali; l’ASL eliminerà anche le barriere tariffarie residuali, nell’arco di un periodo che va dai tre ai cinque anni in base alla categoria del prodotto in questione, nonché le barriere tecniche, in virtù del riconoscimento delle norme e delle prove di sicurezza europee nei settori chiave come l’elettronica, l’industria farmaceutica ed automobilistica. Relativamente ai prodotti della pesca ed ai prodotti agricoli trasformati importati nell’UE, vigerà ancora l’applicazione di alcune tariffe.

L’ALS eliminerà altresì le restrizioni nel settore dei servizi (settore in cui, nel 2016, gli scambi bilaterali sono stati pari a 44,4 miliardi di euro). A tal proposito l’UE risulta essere il primo partner commerciale di Singapore, mentre più di 10 000 aziende degli Stati membri UE utilizzano Singapore come base per servire l’intera area del Sud-Est Asiatico. Oltre all’eliminazione barriere tecniche e tariffarie, rilevano importanti disposizioni relative alla protezione della proprietà intellettuale, alla liberalizzazione degli investimenti, agli appalti pubblici, nonché alla concorrenza ed allo sviluppo sostenibile.

L’accordo sulla protezione degli investimenti offrirà maggiori certezze agli investitori ed al contempo, permetterà di salvaguardare i diritti delle due controparti di legiferare nel perseguimento dei propri interessi ed obiettivi di politica pubblica, tra cui la protezione della salute, della sicurezza e dell’ambiente. Tale accordo sostituirà i 12 trattati bilaterali vigenti tra Stati membri dell’UE e Singapore in materia di investimenti.

La firma dei due accordi, nonché di un accordo di partenariato e di cooperazione, è prevista a margine del 12° vertice Asia-Europa (ASEM) del 18 e 19 ottobre a Bruxelles. Con riguardo all’accordo di libero scambio, esso concerne materie di competenza esclusiva dell’Unione europea, pertanto è richiesta solo l’approvazione del Consiglio e del Parlamento europeo prima dell’entrata in vigore, mentre, relativamente all’accordo sulla protezione degli investimenti, esso ha per oggetto settori di competenza concorrente tra UE e Stati membri, pertanto dovrà essere sottoposto a delle procedure di ratifica nazionale in tutti gli Stati membri prima di poter entrare in vigore, impiegando tempi più lunghi.

I due accordi consentiranno ulteriori progressi verso la definizione di norme rigorose nella regione dell’ASEAN e contribuiranno a gettare le basi per un futuro accordo interregionale in materia di scambi commerciali e di investimenti.

A tal proposito, il 15 ottobre, il Consiglio ha altresì adottato le conclusioni sul tema intitolato “Collegare l’Europa e l’Asia – Elementi costitutivi per una strategia dell’UE”, in seguito ad una comunicazione congiunta della Commissione europea e dell’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, risalente al 19 settembre. La strategia delineata prevede una cooperazione rafforzata a livello regionale tra Unione europea ed Asia, partendo dall’assunto secondo cui la prima dovrebbe prendere in considerazione lo sviluppo di approcci regionali volti ad individuare nuove opportunità di cooperazione.

Francesca Scalpelli
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