In data 9 ottobre 2019 la Turchia ha dato via all’operazione militare “Primavera di Pace”, annunciata sul profilo Twitter del presidente Recep Tayyip Erdogan come missione volta a contrastare il terrorismo sia sul confine turco-siriano, lungo 911 chilometri, che nel nord-est della Siria. 
L’azione era già stata pianificata nelle settimane precedenti dal presidente turco in comune accordo con il presidente USA Trump che, dopo un temporeggiamento iniziale, ha deciso poi di spostare le proprie forze militari dal confine all’entroterra. Il suo via libera è stato decisivo per la Turchia, in quanto gli Stati Uniti fino a ieri erano l’unica forza estera a presiedere il confine, in virtù di un accordo che era stato raggiunto ad Ankara il 7 agosto sulla creazione di una safe-zone lungo quest’ultimo; ma ora che Washington ha annunciato il proprio disimpegno Ankara ha carta bianca sul territorio.
Gli obiettivi della missione per Erdogan sono due, la progressiva restituzione dei 3,6 milioni di rifugiati siriani che dal 2011 sono entrati in territorio turco e la lotta ai gruppi terroristici; su quest’ultimo punto è necessario però fare un distinguo perché è proprio su questo che la comunità internazionale si sta dividendo. Sotto la definizione di gruppi terroristici Ankara annovera anche le forze curde, oggi riunite nelle SDF (forze democratiche siriane) e nelle YPG e YPJ, ovvero le Unità di Protezione Popolare e delle Donne; queste forze armate sono sì principalmente curde ma de facto proteggono anche le altre minoranze etnico-religiose presenti nella propria giurisdizione, la Federazione Democratica del Rojava, federalismo cantonalistico nato nel 2014 durante la guerra civile e che attualmente conta varie regione tra cui Jazira e Kobane. Il motivo per cui la Turchia considera tali gruppi un nemico ha dietro una lunga storia, che parte dalla creazione della repubblica turca nel 1923 ed ha avuto poi importanti tappe nella seconda metà del ‘900 con il PKK, ovvero il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, organizzazione nata come partito politico ma poi dichiarata fuorilegge a causa del metodo eversivo attraverso cui conduceva le proprie lotte per il riconoscimento del popolo curdo in territorio turco. A fronte di questo conflitto Ankara considera la presenza curda lungo il confine una minaccia per la stabilità del paese che intende combattere.
L’operazione militare ha quindi avuto inizio nel pomeriggio, con il bombardamento aereo di circa 181 postazioni SDF-YPG fino a 30 chilometri dal confine, che a detta del portavoce dei combattenti curdi ha già causato 11 vittime, di cui 8 civili, e che non hanno potuto contrastare in quanto non dotati di contraeree. Questi raid aerei rappresentano soltanto la fase iniziale dell’offensiva, a cui seguirà l’ingresso in territorio siriano dell’esercito turco assieme alle file dell’ESL, le forze siriane ribelli composte perlopiù da cellule d’ispirazione jihadista, che fin dall’inizio della guerra civile sono state largamente supportate da Ankara; tuttavia non si tratta di una sorpresa visto che già la settimana scorsa l’esercito turco aveva dato il via a un dispiegamento colossale di armi al confine. Sempre in giornata le SDF hanno sparato, stando a quanto riporta la BBC, svariati colpi di mortaio in territorio turco, ad Ackakale, provocando la morte di un residente. Si stima che le forze armate delle SDF possano contare su circa 40.000 soldati e che nel frattempo stiano iniziando dei colloqui con le forze governative di Assad per contrastare l’offensiva turca; questione fondamentale per l’esito dell’alleanza resta però il compromesso in caso di vittoria, dato che Rojava vorrebbe essere riconosciuta in un più ampio sistema di federalismo, cosa che Damasco vede come futuro fattore d’indebolimento. Questa non è la prima offensiva turca in territorio siriano, Erdogan aveva già portato a termine nel gennaio 2018 l’operazione “Ramoscello d’Ulivo” nel cantone di Afrin, sempre con l’obiettivo di destabilizzare i territori sotto controllo curdo; in quel caso, nonostante l’alleanza stretta tra i governativi e i curdi, l’esercito di Erdogan era riuscito a prendersi il cantone e a darlo ai ribelli dell’ESL.
Portando alla luce gli eventi che si sono susseguiti negli ultimi anni durante il conflitto, ma anche i recenti sviluppi di questi giorni, emerge l’ambiguità della politica di Ankara in Siria. Oramai il fatto che la Turchia stia portando a suo vantaggio la guerra per fare i propri interessi è diventato più che una suggestione, anzi un fatto noto. Il presidente turco Erdogan giustifica l’offensiva basandosi sull’articolo 51 della Carta dell’Onu, disposizione che deroga il principio di non uso della forza nel caso in cui si verifichi uno stato di necessità per la tutela collettiva di un paese; ciò fintantoché, sempre secondo la disposizione, il Consiglio di Sicurezza non prenda misure necessarie per mantenere la pace. E a tal riguardo si è riunito ieri nel palazzo di vetro a New York per prendere una decisione che non è veramente arrivata. Difatti i paesi europei in blocco (Francia, Germania, Gran Bretagna, Belgio, Estonia e Polonia) hanno chiesto la cessazione immediata delle operazioni militari turche, ma quest’ipotesi è stata rifiutata da Russia e USA; per Mosca questa situazione è una conseguenza diretta del disimpegno americano, mentre Trump tramite Twitter apre alla possibilità di mediazione tra Turchia e Rojava, e se ciò non dovesse arrivare rifletterebbe sull’invio dell’esercito o sull’imposizione di pesanti sanzioni militari. Sempre in sede del Consiglio la Turchia fa sapere tramite una lettera che la sua azione è proporzionata e responsabile, e che infatti prenderà di mira soltanto i rifugi dei terroristi e tutelerà i civili. Sebbene Ankara abbia rassicurato la comunità internazionale sulla cogenza e sulla magnanimità dell’operazione “Primavera di Pace”, è necessario tener da conto alcune considerazioni.
La prima considerazione, di natura fattuale, è che dall’inizio del conflitto le forze armate di Rojava non hanno mai aggredito l’esercito turco se non quando questo abbia interferito nelle loro operazioni belliche, perlopiù mirate a liberare i territori del Nord dall’ISIS, come nel caso dell’operazione turca “Ramoscello d’Ulivo”, attuata per evitare che i curdi potessero poi creare un cordone attorno tutto il confine turco-siriano tramite il congiungimento di Afrin a Kobane. Infatti dopo la presa di Afrin i turchi diedero il controllo del cantone all’ESL in modo da avere un più ampio collegamento per rifornirli.
Proprio in merito al Califfato Islamico, ormai debellato, bisogna tener da conto una seconda considerazione, ovvero che le forze curde sono state le più impegnate nella lotta contro Daesh. Quando l’organizazzione jihadista salafita ha avuto nel 2015 la sua massima espansione, con il controllo di gran parte del territorio siriano e iracheno, si è autoproclamata ISIS, ovvero Stato Islamico della Siria e dell’Iraq. Quest’imposizione nel conflitto, assieme alla paura destata dagli attacchi terroristici nel mondo, ha suscitato la dura reazione della comunità che ha dato vita alla Coalizione Internazionale, ovvero a una comunione di sforzi militari da parte di molti stati, perlopiù arabo-occidentali. Gran parte degli stati occidentali hanno attaccato tramite raid aerei il califfato e/o fornito armi e corsi di addestramento ai curdi in quanto maggiori referenti sul territorio, come nel caso dell’Italia che ha fornito armi e ha addestrato circa 2.000 peshmerga. Questo supporto militare ha permesso poi ai curdi siriani e iracheni di reiprendersi gran parte del territorio che era del Califfato; attualmente città siriane che prima erano sotto controllo ISIS come Manjib, Raqqa e al-Bab ora sono nelle mani curde, e in Iraq sono riusciti a respingere la loro offensiva che era arrivata fino a Mosul, a un’ora di macchina dalla roccaforte curda Erbil. Ora l’ISIS come entità territoriale è stato sconfitto, ma restano comunque numerevoli cellule dormienti sul territorio che, se venisse indebolito, riprenderebbero a combattere approfittando della situazione; a ciò va aggiunto che i curdi hanno imprigionato circa 14.000 miliziani jihadisti, tra cui 2.000 foreign fighters, nel Nord-Est della Siria, dove la Turchia sta attualemente portando avanti la sua offensiva. Se Ankara non si avvedesse di questo pericolo potrebbe ridar vita a Daesh e vanificare gli sforzi fatti in questi anni.
Una terza considerazione, ma forse la più importante, va fatta sulla crisi umanitaria. Uno degli obiettivi della Turchia, stando al comunicato ufficiale per il lancio dell’operazione militare, è quello di favorire il ritorno in Siria dei rifugiati che attualmente ospita, circa 3,6 milioni; ma quest’offensiva potrebbe generare l’effetto inverso, quello di aggravare ulteriormente una situazione di per sè già disastrosa. Ieri la Camera dei Deputati ha invitato una delegazione curda, capeggiata da Ahmad Yousef, membro del consiglio esecutivo della Federazione della Siria del Nord (Rojava), in conferenza stampa assieme a Dalbr Jomma Issa, comandante delle YPJ; le loro parole sono state chiare, nei 30 chilometri di confine con la Turchia, ora sotto attacco, vivono circa 2,6 milioni di persone e, se gli attacchi continueranno, creeranno un’altra emergenza umanitaria. Loro chiedono che la comunità internazionale prenda provvedimenti immediati contro Ankara, perché le sole sanzioni economiche minacciate da Washington non basteranno a cessare l’offensiva.
Da parte dell’Italia il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha convocato alla Farnesina l’ambasciatore turco a Roma, Murat Salim Esenli, per condannare formalmente l’attività turca e chiederne la cessazione; sono dello stesso avviso il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, e la maggioranza degli stati europei. Inoltre Tusk a nome dell’Europa condanna fortemente anche le parole di Erdogan, il quale ha minacciato l’Europa di aprire i propri confini con questa se ci dovessero essere delle interferenze. Nel frattempo in meno di 24 ore il bilancio è già aumentato vertiginosamente: mentre la Turchia accerta l’uccisione di 109 curdi e centinaia di feriti, per il SOHR, l’Osservatorio dei Diritti Umani in Siria, già 60.000 persone sono in fuga verso est.