GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Dicembre 2017 - page 3

Missione Atalanta: passaggio di consegne al comando dell’operazione anti-pirateria

Difesa di

Passaggio di consegne al comando dell’operazione anti-pirateria Atalanta in Africa. Il 7 dicembre 2017 il Contrammiraglio Fabio Gregori della Marina Militare italiana ha lasciato il comando della Task Force 465 al Major General Charlie Stickland. Nei 5 mesi di mandato, iniziato il 27 luglio scorso, il comandante Gregori si è reso protagonista del fermo di sei sospetti pirati somali che il 17 e 18 novembre avevano attaccato una nave mercantile e un peschereccio oceanico. Successivamente i sei sospetti sono stati consegnati alle autorità giudiziarie delle Seychelles. Nel discorso di commiato, tenuto a bordo della Nave Virginio Fasan, il comandante si è dichiarato molto soddisfatto del lavoro svolto negli ultimi mesi ringraziando vivamente tutti i suoi collaboratori.

La missione Atalanta. È una missione diplomatico-militare promossa  dall’Unione Europea, e sostenuta dalle Nazioni Unite, iniziata nel dicembre del 2008. Il fine è quello di prevenire e reprimere la pirateria marittima lungo le coste del Corno d’Africa. Le navi messe a disposizione dai 17 paesi partecipanti dell’Unione Europea possono contare anche di supporto aereo. Dalla data di inizio della missione, in area, opera la Task Force 465 che si pone anche l’obbiettivo di fornire aiuti umanitari alle comunità locali in Somalia e Yemen. La missione Atalanta rientra inoltre nelle attività CiMiC (Cooperazione Civile Militare). Tali attività rappresentano un concreto aiuto allo sviluppo della società locale, e consentono al personale delle forze armate italiane di stringere solidi legami di integrazione e collaborazione con le istituzioni nazionali.

La costante minaccia della pirateria è in atto fin dall’inizio della guerra civile somala nei primi anni novanta del ‘900. Tra i numerosi episodi di pirateria avvenuti in acque del Corno d’Africa, si può sicuramente annoverare quello dell’aprile del 2009. In quell’occasione il comandante della MSC Melody, con una manovra evasiva è riuscito a scappare al tentativo di attacco dei pirati armati di Kalasnikov.

Nuova mossa di Trump: Gerusalemme capitale di Israele.

MEDIO ORIENTE di

La decisione del Presidente degli Stati Uniti, Trump, di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e di trasferirvi l’ambasciata americana da Tel Aviv ha fatto notizia in tutto il mondo. Tra le principali reazioni troviamo naturalmente quelle della zona interessata, da Israele all’Autorità Palestinese, da Hamas alla Turchia, con interventi anche di esponenti delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e dei principali Paesi europei. Nonostante gli avvertimenti vari, da Macron a Erdogan, Trump, lontano da ogni consenso, ha dimostrato ancora una volta che è fedele  ai suoi interessi.

Gerusalemme è una ferita aperta. Un labirinto dal quale nessuno è riuscito a trovare un’uscita. 70 anni fa, l’accordo di spartizione della Palestina aveva collocato temporaneamente la città sotto l’amministrazione internazionale. Ma presto la parte occidentale era stata occupata da Israele e dopo la guerra dei sei giorni, nel giungo del 1967, anche quella orientale (la parte che i palestinesi considerano loro capitale). In questo nido, Trump ha giocato con il fuoco. Sapendo che tutte le ambasciate  hanno sede a Tel Aviv, ha permesso che la sua intenzione di trasferire l’ambasciata trapelasse e ha persino allertato le delegazioni USA sulle possibilità di proteste. Con il suo silenzio, come quando ha ritirato il suo paese dagli Accordi sul clima di Parigi, ha fatto sì che la tensione raggiungesse il culmine. Il risultato è stato che in tutto il Medio Oriente e in Europa le pressioni si sono moltiplicate per costringerlo ad un cambiamento di rotta, mentre lui con tutte le luci puntate addosso, si accomodava sul barile di polvere da sparo per meditare. È il suo modo di fare politica. 

La decisione è stata già comunicata  al leader palestinese, Mahmud Abbas, e al re giordano Abdullah II con un giro di telefonate. La sua intenzione è quella di riconoscere la “realtà storica” di Gerusalemme e spostare l’ambasciata il prima possibile. Il cambiamento di sede era già stato deciso dal Congresso nel 1995, ma per motivi di sicurezza nazionale era stato sospeso da tutti i presidenti precedenti a Trump. La Casa Bianca sostiene comunque che il trasferimento per quanto desiderato richiederà anni, a causa dei permessi e per questioni di sicurezza. In ogni caso, il riconoscimento di Gerusalemme, con il suo enorme onere simbolico, significa gettare benzina sul fuoco. Non solo Trump pone fine a quella tregua internazionale ormai decennale, ma riafferma la sua fede filo-israeliana, che tanti voti gli ha portato durante la campagna elettorale, e avverte i palestinesi che il suo obiettivo è quello di aprire  un nuovo ciclo in cui la soluzione a due stati non è necessaria.

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha qualificato come atto storico la decisione di Trump e ha invitato gli altri paesi a fare la stessa cosa, affermando di essere profondamente grato al presidente americano per la scelta fatta e che qualsiasi accordo di pace nella zona deve tenere conto di Gerusalemme come capitale di Israele. L’indignazione cresce nella zona interessata e in Europa. Una nuova tempesta  che è stata accolta  con costernazione in un’area devastata da decenni si sangue e fuoco. Il leader palestinese, Mahmud Abbas, ha dichiarato in un intervento televisivo che Gerusalemme è la capitale storica  dello Stato Palestinese, puntando il dito contro la decisione americana e rifiutando qualsiasi mediazione nelle negoziazioni con Israele.   Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ha già minacciato una nuova intifada, secondo cui la decisione di Trump “apre le porte all’inferno”, etichettandola come un’aggressione contro il popolo palestinese. L’OLP (l’Organizzazione Palestinese di Liberazione) ha definito la misura come “il bacio della morte” per la pace. In Turchia, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha manifestato la sua contrarietà, minacciando la chiusura di rapporti diplomatici con Israele, definendo la questione come una linea rossa per il mondo musulmano. In modo meno bellicoso, ma sempre indignata è stata la reazione dell’Organizzazione  della Cooperazione Islamica, che riunisce i paesi musulmani, dichiarando che il trasferimento significherebbe ignorare l’occupazione di Gerusalemme Est come territorio palestinese. Dall’Europa sono arrivati dichiarazioni da Macron, secondo cui la scelta di Trump va contro le risoluzioni dell’ONU, e dall’Alto Rappresentante UE Mogherini che ha espresso preoccupazione  per le conseguenze della mossa del presidente statunitense.

Tuttavia, secondo alcuni analisti, la mossa di Trump, per quanto spregiudicata, è meditata. I paesi arabi protesteranno formalmente, ma esistono interessi più grandi che non possono essere compromessi. Soprattutto sul fronte di Riyad, il legame tra USA e Arabia Saudita è indirizzato nell’opposizione all’ascesa dell’Iran, una battaglia condivisa con lo stesso Israele, e per essere forti su questa lotta al potere degli ayatollah, i sauditi hanno bisogno del supporto statunitense. Naturalmente fra i motivi di questa decisione bisogna citare la chiara strategia di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica verso la politica internazionale, cercando di distoglierla dallo scandalo del Russiagate con le sue ultime novità (possibile coinvolgimento del consigliere capo e genero di Trump, Jared Kushner). Non da ultimo il chiaro furore ideologico, ereditato anche da presidenze passate, secondo cui Israele è il bene assoluto.

Di Mario Savina

Cancellati 222 voli verso l’Afghanistan, in Germania i piloti si rifiutano di rimpatriare i migranti

SICUREZZA di

Diventa un caso quello che coinvolge almeno 6 compagne aeree e 222 piloti. “I comandanti possono decidere di non far salire i passeggeri sull’aereo, appellandosi alla sicurezza del volo”. Tra i mesi di gennaio e settembre 2017, infatti, sono stati cancellati 222 voli di ripatrio diretti in Afghanistan. Le cifre sono state diffuse dal partito tedesco Die Linke.

Le decisioni sono state prese direttamente dai piloti che si sono rifiutati di rimpatriare i migranti a cui è stato negato asilo politico nel territorio tedesco. Azioni individuali dunque, ma che molti in Germania vedono come atti di “coraggio civile”, per non partecipare ad azioni ritenute ingiuste. Infatti come spiega un portavoce della compagna aerea Lufthansa, “i piloti non possono opporsi giuridicamente all’imbarco ma possono decidere arbitrariamente di far scendere un passeggero qualora venga ritenuto un pericolo per la sicurezza del volo”, queste le sue parole, citate dai media internazionali.

Le procedure di rimpatrio sono cominciate a seguito delle considerazioni del governo di Berlino, che vedrebbero nell’Afghanistan un paese sicuro, e dunque in grado a tutti gli effetti di poter accogliere i respingimenti. La situazione sul territorio afgano è però diversa. Il paese è martoriato dal terrorismo ormai da tempo, con la forte presenza dei talebani e dei fondamentalisti dell’Isis. Ad essere sotto accusa in questo momento, oltre alle tratte dirette in Afghanistan anche quelle verso i paesi del medio oriente Siria e Iraq. Le persone coinvolte sarebbero circa 30.000

Secondo Amnesty International, associazione internazionale per i diritti umani, il bilancio delle vittime civili nel territorio afgano, nei mesi scorsi, è “drammaticamente alto”, circa undicimila l’anno scorso, ottomila tra gennaio e ottobre 2017. L’associazione inoltre sconsiglia vivamente ai governi europei di procedere con le operazioni di rimpatrio, affermando che nessuna parte del paese è sicura.

Stando alle cifre riportate dal “Corriere della Sera”, a opporsi sono stati principalmente i piloti della Lufthansa, in 63 casi, e quelli delle compagne low cost da essa controllata Eurowings e Germanwings. A seguire Air Berlin, Air Algerie e Qatar Airwais. I voli erano in programma soprattutto dall’aeroporto che rappresenta il principale polo del traffico aereo in Germania, quello di Francoforte, con una parte di questi in programma a Dusseldorf.

 

Croce Rossa; Al via l’8 dicembre gli “Stati Generali della Gioventù”

SICUREZZA di

Il prossimo otto dicembre sarà il giorno d’avvio degli Stati Generali della Gioventù al Crown Plaza Hotel di San Donato Milanese. Una tre giorni che vedrà partecipare 400 giovani volontari della Croce Rossa italiana, in rappresentanza dei 40.000 under 32 che compongono, oggi, un terzo del corpo della CRI. Tre giorni che proietteranno questa ampia fetta dell’associazione verso le future e  complesse sfide umanitarie globali. L’evento, come si legge nel comunicato dell’associazione CRI, ha l’obbiettivo di fornire risposte ai dubbi odierni delle giovani generazioni, a seguito di questi anni di crisi profonda, non solo economica ma anche culturale e valoriale.

Il programma prevede due plenarie nella giornata d’apertura, che avranno luogo a partire dalle 14.000. Interverranno, tra gli altri, il sottosegretario del ministero del lavoro e delle politiche sociali, Luigi Bobba, e in chiusura il presidente dell’associazione della Croce Rossa Italiana Francesco Rocca.

 L’evento culmine sarà sicuramente quello della giornata di chiusura. Il 10 dicembre, infatti, saranno approvate le proposte di modifica dei regolamenti e dello statuto dell’associazione, nonché definita la strategia d’azione di CRI verso i giovani.

Per il 9 invece è prevista una corposa attività, divisa in due momenti. Nel corso della mattinata si alterneranno 8 speaker condividendo visioni nuove e stimolanti che favoriranno riflessioni sull’innovazione sociale e un nuovo approccio motivazionale. Nel pomeriggio ci sarà una sorta di “officina delle idee”, in cui avrà luogo un confronto non formale al quale parteciperanno anche rappresentanti di associazioni “partner” di CRI, e che con essa condividono missioni ed obbiettivi. Tra questi interverrà il Direttore Generale dell’Agenzia Nazionale per i giovani, Giovanni D’Arrigo.

“La tre giorni – spiega il vice presidente di CRI, Gabriele Bellocchi – intende sviluppare delle concrete strategie di crescita della nostra Gioventù. Si lavorerà concretamente per tirar fuori i sogni, gli obiettivi e le sfide per il futuro. Vogliamo rinnovarci, ripartendo dai bisogni concreti della gioventù italiana, analizzati da uno studio sviluppato nel corso del 2017 in collaborazione con Ciessevì Milano e Università Cattolica del Sacro Cuore, per rispondere in modo innovativo ed efficace a ciò che ci viene chiesto”.

Somalia: Un comunicato del Comando americano in Africa smentisce il coinvolgimento di 10 civili in un attacco aereo ad Agosto

AFRICA di

Secondo quanto riportato da un comunicato stampa del U.S Africa Command datato 29 novembre 2017, il raid aereo avvenuto il 25 agosto scorso per mano delle forze armate congiunte somalo-americane, non avrebbe causato la morte di nessun civile. In quella data fu effettuato un attacco nei pressi di Bariire, in Somalia, con l’intento di colpire il gruppo terroristico Al-Shaabab.

Diverse notizie, uscite nei giorni successivi, parlavano dell’uccisione di almeno 10 civili. Un articolo pubblicato dall’Ansa, il 26 agosto 2017, riporta le dichiarazioni del capo dei militari somali, affermando che il blitz mirato in Somalia, in quello che credevano fosse un campo di addestramento dei terroristi islamici di Al-Shaabab, era invece una tranquilla fattoria, ed ha causato la morte di 10 civili, tra cui tre bambini. La notizia in quei giorni fu confermata da diverse agenzie di stampa e testate,  nazionali ed internazionali. Reuters ha fatto riferimento ad alcune testimonianze oculari sull’accaduto, riportando anche le parole di cordoglio del parlamentare Mohamed Ahmed Abtidon, verso le famiglie delle vittime.  “I dieci civili sono stati uccisi accidentalmente, il governo e i parenti adesso discuteranno del risarcimento. Inviamo le condoglianze alle famiglie”.

La smentita. A distanza di tre mesi dal giorno del raid aereo il comando degli Stati Uniti in Africa smentisce il coinvolgimento di civili. Nel comunicato da cui si apprende la notizia si legge espressamente che; “ Una valutazione approfondita da parte delle forze ufficiali somale, a seguito delle indiscrezioni che parlavano dell’uccisione di 10 civili, nell’operazione guidata dall’esercito, lo scorso 25 agosto nei pressi di Bariire, ha portato alla conclusione che tutte le vittime facevano parte dei combattenti nemici armati” . Si tende a specificare inoltre che “prima di ogni operazione, si conduce una pianificazione dettagliata e un coordinamento per ridurre al minimo la probabilità di incidenti civili, e per garantire il rispetto della legge nel conflitto armato”.

Il contesto.   Al-Shabaab, fondato in Somalia nel 2006 e affiliata ad al-Qaeda, è una delle organizzazioni terroristiche più letali al mondo. Il gruppo mira a rovesciare il governo internazionalmente riconosciuto di Mogadiscio, per imporre la “Sharia”, la legge islamica, in tutto il paese.

Negli ultimi due anni, la cooperazione militare tra l’Unione Africana, le autorità locali e il governo americano, ha costretto i terroristi ad abbandonare importanti roccaforti urbane. Tuttavia, i militanti, attivi soprattutto nel sud della Somalia, continuano a compiere attacchi sistematici contro hotel, check-point militari e palazzi presidenziali, causando la morte di decine di civili.

Da quando il presidente americano Donald Trump è stato eletto alla Casa Bianca, il comando degli Stati Uniti in Africa ha intensificato i raid aerei nel territorio, con l’intento dichiarato di eliminare i miliziani di Al-Shaabab.

Yemen: un nuovo missile è stato lanciato da parte dei ribelli contro i nemici sauditi

MEDIO ORIENTE di

I ribelli Houti hanno lanciato, giovedì 30 novembre, un missile balistico di media gittata diretto in territorio saudita. Secondo quanto riporta Masirah TV, il missile è partito dal nord dello Yemen ed è riuscito a colpire l’obiettivo militare fissato in Arabia Saudita. D’altra parte un video rilasciato dalle forze militari saudite smentisce parte della notizia, mostrando l’abbattimento del missile prima del raggiungimento dell’obiettivo.

Questo sarebbe il secondo missile yemenita lanciato verso l’Arabia Saudita nel mese di Novembre.

L’attacco è stato sferrato poco dopo che il capo del movimento di resistenza Ansarullah, Sayyid Abdul-Malik Badreddine al-Houthi, da cui il nome con cui vengono appellati i ribelli, ha rilasciato un discorso in diretta televisiva. Tale discorso ha avuto una grande visibilità, dieci mila spettatori, in quanto si stavano celebrando i festeggiamenti per l’anniversario di compleanno del profeta Maometto, ricorrenza che quest’anno coincide con l’anniversario di trent’anni dalla liberazione dell’occupazione Britannica in territorio yemenita del 1967.

Al-Houti ha minacciato future rappresaglie contro l’Arabia Saudita, in risposta al blocco areo, navale e terrestre che sta mettendo in ginocchio la popolazione yemenita. “Se il blocco dovesse continuare, sappiamo cosa (quali obiettivi), potrebbero causare grande dolore e sappiamo come raggiungerli” queste sono le dure parole del leader dei ribelli, che arrivano solamente un giorno dopo gli scontri mortali avvenuti vicino la moschea di Saleh, nella capitale.

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