Gran Bretagna, gli inglesi e l'Europa

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In un momento d’allarme in Europa, la Gran Bretagna riprende il dibattito circa la sua permanenza o meno all’interno dell’Unione Europea. Il paese appare diviso a metà. Gli ultimi sondaggi riportano la maggioranza dei votanti favorevoli alla “Brexit” -l’uscita del paese dall’UE-, mentre solo il 47% appoggia la membership. Altrettanto spaccata è la classe politica, con il partito indipendentista (UKIP) che preme per la scissione ed un Primo Ministro che tenta di negoziare condizioni più favorevoli. Il tutto in attesa del referendum di fine 2017, che darà modo al popolo britannico di esprimere la propria opinione.

La nazione al di là della Manica ha sempre goduto di una posizione particolare nel continente, vicina sì alle dinamiche europee, ma contemporaneamente isolata abbastanza da esserne protetta. Da un punto di vista politico, la Gran Bretagna fa parte dell’UE, sebbene non ne condivida tutti gli aspetti. La sterlina ha avuto la meglio sull’euro; il trattato Schengen, invece, non arriva oltre Callais. Non solo. Pur mantenendo una posizione economica forte, Londra ha fallito nel giocare un ruolo leader nel continente, obiettivo più spesso tentato (e realizzato) da Francia e Germania. Eppure, la National Security Strategy sottolinea la volontà di mantenere un ruolo di guida a livello regionale ed internazionale.

Sorge, quindi, spontanea una domanda: che cosa vogliono di preciso gli inglesi? 4 le richieste di Cameron. In primis, il riconoscimento di un’Unione multi-valuta, al fine di tutelare maggiormente gli interessi dei paesi non aderenti alla moneta unica. Secondo, l’abolizione di regole e limiti inutili che frenano la crescita e la competitività del mercato europeo. Terzo, maggiore sovranità (per tutti i parlamenti nazionali), conferendo il diritto di non aderire a determinate riforme o politiche (opzione opt-out). Infine, maggiori controlli sull’immigrazione e concessione di benefici agli stranieri solo dopo 4 anni di residenza nel paese.

Pretese comprensibili? Analizziamo tre aspetti principali, che sintetizzano ciò che l’Europa rappresenta per la Gran Bretagna.

  • La GB gode dei benefici di un mercato singolo basato sulla libera circolazione di beni, servizi e capitali. Ciò facilita l’esportazione dei prodotti inglesi a prezzi competitivi, aspetto che risulterebbe compromesso qualora scegliesse di lasciare l’Unione. In quest’ottica, il paese non sarebbe più vincolato dalla legislazione europea vigente, ma molti stati potrebbero trovare più conveniente concludere affari con i “fratelli” del blocco europeo.
  • Nonostante difetti o debolezze interne, l’Unione Europea rappresenta –o almeno dovrebbe- la “voce d‘Europa”. Esserne membro significa avere a disposizione un mezzo per esprimere i propri punti di vista e proteggere gli interessi nazionali, facendosi portavoce di quelli comuni. Essere escluso da questo circolo porterebbe il Regno Unito ad essere una voce isolata, un outsider, a perdere contatto con la realtà europea e la possibilità di assumere la leadership del continente.
  • Una politica di difesa comune che dovrebbe garantire maggior efficacia rispetto all’azione dei singoli stati. Ma c’è un rovescio della medaglia: pur non aderendo agli accordi di Schengen, la libera circolazione impone alla Gran Bretagna di applicare meccanismi di controllo più semplici per chi viaggia dai paesi UE (es. non è richiesto il visto). Sin dalla fine della guerra nei Balcani, l’abolizione delle barriere ha facilitato il trasporto di armi. Oggi, la storia si ripropone, aggiungendo alle armi, la circolazione di cellule terroristiche, dotate di passaporti europei e libere di spostarsi di paese in paese bypassando ogni tipo di controllo. All’indomani degli attentati di Parigi, diversi membri UE hanno messo in dubbio questo regime.

Quale sarà, dunque, la scelta inglese? Potrebbe verificarsi una tendenza verso l’isolazionismo, per cercare sicurezza e benessere economico al di fuori del blocco europeo. Ma può bastare a garantire un futuro più sicuro alle isole britanniche? Molti dubbi a riguardo. Focolai di tensione e pericoli sono già radicati nella società inglese, UE o no. E farsi carico di una battaglia politica, economica e sociale da soli potrebbe essere meno semplice di quanto sembri. Dall’altro lato, potremmo assistere ad una GB che, forte delle concessioni ottenute, si impegna per rafforzare l’Unione e assumere le guida di un continente che sembra aver perso orientamento e compattezza. Altrettanti dubbi. Quello di Cameron sembra più un ennesimo tentativo di rimanere con un piede dentro ed uno fuori. “Yes, but…”, un atteggiamento non nuovo a Downing Street.

Ma è giusto in un’istituzione di 28 membri assecondare gli interessi di un singolo come condizione chiave per mantenerne l’adesione? Se Londra può avere condizioni particolari allora anche Budapest, Madrid o Praga ne hanno diritto. E qual è il senso di un’Unione se ognuno vi partecipa solo nella misura in cui più gli giova?

Paola Fratantoni

Bookreporter Settembre

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