In Sudamerica il Covid-19 si è innestato su sistemi sanitari già fragili e profonde disuguaglianze sociali. Con qualche eccezione. Con l’Asia e l’Europa che sembrano essere in via di faticosa e lenta guarigione, la corsa per l’infausto primato mondiale nella terribile classifica dei contagi e delle morti per Covid si riduce ormai ad un macabro testa a testa tra Nord America e America Latina.
Ad oggi infatti, secondo i dati della Johns Hopkins University, gli Stati Uniti sono ancora il paese più colpito al mondo con circa 3 milioni e mezzo di contagiati ed oltre 135 mila morti, che se associati ai 110 mila positivi e quasi 9 mila deceduti del Canada, fanno comunque ancora del Nord America la macro-area globale più affetta da coronavirus. Ma gli esperti temono che presto l’epicentro della pandemia di Covid-19 si possa definitivamente spostare nel Continente Sudamericano.
Il virus dilaga in Brasile
Con oltre il 70% delle morti registrate in tutta l’America Latina, è il Brasile a detenere il triste record di impatto negativo del Covid sulla popolazione, ed è secondo nel mondo solamente agli USA: nelle ultime settimane c’è stata infatti una progressiva e costante impennata di casi, che ammontano al momento ad oltre 1 milione e 900 mila positivi e circa 75 mila decessi.
I numeri sono effettivamente molto elevati, e colpiscono nonostante potesse essere prevedibile un’alta possibilità di penetrazione e diffusione del virus in una Nazione dal territorio immenso e con una popolazione di oltre 210 milioni di abitanti, per lo più concentrata intorno a megalopoli tentacolari come San Paolo e Rio de Janeiro e relative favelas, zone ad altissima densità abitativa, precarie condizioni socio-sanitarie e difficilmente controllabili e monitorabili.
Ma il dilagare dell’epidemia potrebbe non essere dovuto solamente a motivazioni geografiche e demografiche.
La gestione della crisi da parte della politica brasiliana è infatti stata oggetto di aspre critiche e messa fortemente in discussione dall’OMS, che ha accusato il governo carioca di “approccio non scientifico”. Ampi settori della comunità internazionale hanno fortemente accusato il Presidente Jair Bolsonaro, risultato proprio in questi giorni nuovamente positivo al Covid, di comportamenti e dichiarazioni pubbliche controproducenti e dannose in quanto tendenti fin dall’inizio a minimizzare la reale portata del virus. Inoltre la popolazione risulterebbe fortemente disinformata e le misure di prevenzione adottate fin qui non sarebbero state efficaci.
Resta il fatto che in Brasile il numero di contagi e di decessi è altissimo, che nello Stato di San Paolo (il più colpito) gli stadi da calcio sono stati trasformati in giganteschi centri di primo soccorso e le crude immagini di centinaia di sepolture improvvisate hanno ormai fatto il giro del mondo.
In Messico, Cile, Perù e Argentina ci si ammala per lavorare
Molti altri Paesi del Centro e del Sud America, nel complesso, non se la passano meglio del Brasile: la pandemia è ormai deflagrata, come confermano gli ormai oltre due milioni di contagiati accertati, nonostante siano stati imposti lockdown più o meno totali e puntuali.
In Messico il virus si sta diffondendo con una velocità sempre più preoccupante e si registrano oltre 300 mila contagi e più di 30 mila morti. Cile e Perù hanno superato l’Italia per numero di positivi al virus (anche se registrano meno decessi), mentre l’Argentina malgrado le rigorose regole dettate dal Governo conta comunque oltre 100 mila malati e più di 2 mila morti.
Le dimensioni del fenomeno sono impressionanti e secondo alcune analisi le ragioni sarebbero da ricercare non soltanto nei provvedimenti inefficaci dei singoli Paesi, ma in alcuni aspetti peculiari che affliggono tutto il “sistema sudamericano”.
Non ci si poteva aspettare, ad esempio, che i sistemi sanitari dei Paesi dell’America Latina potessero reggere a lungo l’urto della pandemia: l’accesso alle cure primarie e agli ospedali è molto spesso un lusso per pochi (si stima che in Sudamerica più del 30% della popolazione non abbia accesso alle cure gratuite) e i posti in terapia intensiva sono da sempre insufficienti.
Inoltre, il distanziamento sociale in molti casi non è stata un’opzione praticabile: le misure preventive sarebbero state impossibili da far rispettare nelle zone a più alta povertà, dove la maggioranza della popolazione è costretta a continuare a svolgere lavori saltuari e illegali per mantenersi. Ad esempio in Perù, da mesi in lockdown, più del 70% dei lavoratori è impiegato nella cosiddetta “economia informale”, cioè quei lavori esposti e non coperti da protezioni sociali, in “nero”. E per loro restare a casa avrebbe voluto dire essere condannati a morire. Non di coronavirus, ma di stenti.
Infine, secondo la Pan American Health Organization (PAHO) l’emergenza Covid si sarebbe sommata alla già difficile gestione di altre infezioni epidemiche, come morbillo, dengue e malaria.
Le virtuosità di Uruguay e Cuba
Ma nel drammatico contesto del Continente, fa eccezione il trend positivo dell’Uruguay (997 contagiati, 31 morti) e di Cuba (2432 contagiati, 87 morti).
Rispetto ad altri Stati dell’America meridionale l’Uruguay si distingue per alcune caratteristiche che l’hanno reso meno vulnerabile al diffondersi del virus: mentre altrove gran parte della popolazione vive a stretto contatto in enormi metropoli come San Paolo o Città del Messico, in Uruguay c’è una sola grande città, la capitale Montevideo. Ma soprattutto, in Uruguay solo il 23% della popolazione lavora nel “settore informale” (la percentuale più bassa della regione).
Per quanto riguarda Cuba, invece, la politica del governo per contenere il contagio del Covid-19 è stata efficace e le misure di prevenzione adottate hanno funzionato, ma è stato soprattutto il sistema sanitario nazionale gratuito, all’avanguardia e da sempre fiore all’occhiello del regime (ex)castrista, a dimostrare con i fatti tutta la sua efficienza.
Le misure di prevenzione adottate sono state sostanzialmente le stesse messe in campo dai Paesi che hanno affrontato nel modo più virtuoso l’emergenza sanitaria, come Corea del Sud, Nuova Zelanda e Germania, ma Cuba si è contraddistinta anche per alcune qualità uniche del suo sistema medico: per sopperire alla mancanza di posti letto negli ospedali (in linea con la media UE), il governo cubano ha effettuato uno “screening attivo” della popolazione, anche attraverso il “porta a porta”, affidandosi alla diffusissima rete di medici di base del Paese (a Cuba c’è il più elevato rapporto al mondo medici/popolazione, 9 ogni mille abitanti, il doppio della Germania e dell’Italia) rinforzata da 28 mila studenti di medicina chiamati in servizio.
Se si confronta la situazione cubana con quella di altri vicini caraibici o ad esempio con quella del Cile, che ha quasi il suo stesso numero di abitanti, la differenza è impressionante, anche a prescindere dai possibili dubbi sui numeri diffusi dalla propaganda dell’Havana.
Andrea D’Ottavi