GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Julie Kogler

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Timeless Time, ritratti senza tempo ai divi di Vincent Peters

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La fotografia d’arte arriva a Palazzo Bonaparte di Roma con la mostra Timeless Time. Nel prestigioso complesso situato a piazza Venezia, si è subito attratti dall’immagine fotografica che raffigura una bellissima Venere moderna che, con uno sguardo sensuale, vestita con un panno setato che morbidamente disegna le sue forme femminili, instaura un legame estetico sensoriale col visitatore. Si potrebbe scorgere nel gesto della mano destra un richiamo al gesto pudico della Venere di Botticelli mentre cerca di coprirsi il seno con la mano. Con questa fotografia, scattata all’attrice e modella Charlize Theron, si apre Timeless Time, la prima mostra romana del tedesco Vincent Peters, che rimarrà allestita sino al 25 agosto 2024.

Vincent Peters, classe 1955, anseatico della brulicane Brema, sul mare del Nord, ha tentato la fortuna giovanissimo trasferendosi a New York dove inizia a lavorare come assistente fotografo. Con un bagaglio di esperienze raccolte sul campo nella Grande Mela, a metà degli anni Novanta, Peters ritorna in Europa dove a partire dal 1999 intraprende la carriera di fotografo di moda presso l’agenzia di Giovanni Testino, fratello dell’acclamato fotografo Mario Testino.

Peters scatterà le foto per importanti aziende tra cui Prada, Armani, Hermes, Lancome, Adidas e Louis Vuitton, seguendo in concomitanza una ricerca personale centrata sul ritratto fotografico d’artista. Sono anni intensi in cui Peters conoscerà celebrità del mondo della moda e del cinema, proprio durante le numerose campagne pubblicitarie che esegue su commissione delle grandi case di moda internazionali.

Eppure, negli scatti che si possono ammirare a Palazzo Bonaparte, Peters non enfatizza l’indole fugace della moda che tende a svanire, invece con essi trasmette la sensazione di trascendere il tempo, quando nello scatto sembra dispiegarsi una narrazione sospesa in una dimensione altra.

Lo sguardo di Vincent Peters non scivola sopra l’epidermide lucida e perfetta dei suoi soggetti, invece penetra nelle profondità dell’anima dei suoi modelli, catturando la loro gioia e forza, le paure, i successi e le debolezze che poi si condensano nel pigmento delle pregiate stampe fotografiche. Ispirandosi ad un verso di un poeta anonimo di mille anni fa che recitava che “tra il giusto e il falso c’è un giardino, e io ti incontrerò lì” Peters concepisce l’atto fotografico come un incontro, tra chi si trova dietro l’obiettivo della fotocamera e chi si lascia fotografare, ma anche tra quest’ultimo e chi lo osserverà in un luogo lontano e diverso da quell’istante. In tal modo, ogni incontro sul set fotografico si arricchisce delle tante emozioni che si vivono in questo giardino, luogo di immaginazione dentro ognuno di noi, di memoria e storie, condiviso per la durata dello scatto, dove però si generano anche legami intensi e duraturi, le cui tracce si manifestano nelle immagini.

La luce in alcuni scatti di Vincent Peters richiama i sorprendenti bagliori che irrompono in certe scene dipinte da Caravaggio a cavallo tra Cinque- e Seicento. Nella Vocazione di San Matteo di Caravaggio, posta nella Cappella Contarelli, il fascio di luce che proviene da una fonte fuori dal quadro illuminando i gesti e l’istante della chiamata del santo, appare ripreso e rivisto nella foto di Peters “Adriana Lima II Los Angeles 2021” dell’omonima serie che trova l’ambientazione in uno scenario cinematografico degli anni ‘50. Qui il polviscolo di luce cade sul volto della donna dormiente come un raggio sacrale proiettandola in uno spazio senza tempo, mentre la foto ricorda altresì l’estasi di Santa Teresa del Bernini senza il dramma interiore struggente. Similmente, la foto “Bethany Robbins”, in cui una donna con una gonna dal voluminoso drappeggio in una stanza senza mobili stende le sue braccia nude verso la luce che filtra dalla finestra ampia, rammenta la plasticità delle sculture barocche, creando inoltre un coinvolgente gioco di riflessi, di luci e ombre.

La grande intensità dei rapporti che l’artista instaura con i protagonisti delle sue opere fotografiche trapela anche dai ritratti agli attori John Malcovich e Vincent Cassel, la cui mimica facciale, eloquente espressione dell’animata vita interiore, Peters svela e ferma con la sua macchina. 

Il fulcro della mostra di Vincent Peters è costituito dalle numerose fotografie a Monica Bellucci, frutto delle sue tante collaborazioni con l’attrice, quale archetipo della classicità italiana e meravigliosa rappresentante dei suoi canoni di bellezza che non tramontano, e che il fotografo immortala spesso nella stessa Città Eterna, elevandoli ad una sfera classica.

Il nudo o seminudo di donna con le sinuose forme tondeggianti in Peters trascende l’aspetto ostentatore per diventare iconico, trasformando la figura ritratta in poesia visiva.  

La sua ammirazione e il rispetto per il femminile risalta dalle fotografie con cui Vincent Peters omaggia la donna, la sua inesauribile bellezza che “salverà il mondo” e che, nutrendo lo sguardo, dona “balsamo all’anima”, anche di chi l’osserva. L’artista serba gratitudine per il sesso femminile che spicca come elemento essenziale per la sua ricerca in cui passato e presente, bellezza e armonia si incontrano in questo giardino sempre fiorito, luogo di infiniti stimoli e scambio di emozioni, che si cristallizzano in opere fotografiche toccanti e consolatorie alludendo ad un mondo ideale. 

Jheronimus Bosch o l’influencer artistico del ‘500

SOCIETA' di

Quando si parla di Rinascimento, comunemente si fa riferimento alla bellezza ideale e ad un classicismo equilibrato che trova la sua maggior espressione nell’ambito tosco-romano nel ‘500, riconosciuto ed apprezzato oltre i confini della storia dell’arte. Ampliando lo sguardo, da quelle forme armoniose si discosta sensibilmente la pittura di Jheronimus Bosch (c. 1450-1516), il poliedrico artista fiammingo, che rappresenta il vero emblema di un Rinascimento alternativo che permette di considerare una pluralità di Rinascimenti con diversi centri artistici diffusi in tutta Europa. Leggi Tutto

Hostia Pier Paolo Pasolini, il grande progetto dedicato al maestro di Nicola Verlato

CULTURA di

Hostia Pier Paolo Pasolini  il grande progetto dedicato al maestro in mostra a Napoli

Lasciandoci alle spalle il brulichio della vita metropolitana di Napoli ed entrando al Maschio Angioino, ci si trova ad ammirare Hostia Pier Paolo Pasolini, il progetto che l’artista Nicola Verlato ha dedicato all’intellettuale, poeta e regista italiano, allestito nella Cappella Palatina del prestigioso edificio medievale. Qui si uniscono pittura, scultura e architettura in un ambiente immersivo che affascina e cattura lo spettatore. Il progetto espositivo nasce dall’idea di realizzare un’opera monumentale, un cenotafio in memoria di Pasolini, artista, pensatore e scrittore tra i più amati e osteggiati del Novecento italiano, proprio all’idroscalo di Ostia, quale luogo famigerato dove si è consumata la sua morte tragica.

Il monumento funebre laico, di cui è esposto un modellino, prevede oltre al cenotafio – che consiste in un mausoleo a pianta centrale che prende spunto dal Tempietto di San Pietro in Montorio del Bramante -, un museo, una sala cinematografica e un teatro all’aperto, che dovranno costituire i punti cardine di una piazza, ispirata al Camposanto di Pisa, già set filmico per Medea, tutto con l’intento di celebrare il grande artista nei suoi aspetti più importanti, restringendo le corde della memoria anche e soprattutto con la “sua” gente. Richiamando l’arte classica attraverso l’architettura viene conferita una funzione tuttavia contemporanea al complesso. In tal modo, il museo è concepito con un andamento rettilineo incluso in un lungo porticato che permette al visitatore di percorrere le tappe della vita di Pasolini in maniera cronologica, e addentrandosi sempre di più nelle viscere dell’edificio e dunque nella sua esistenza, si giunge poi alla fine, che corrisponde alla brusca interruzione della vita del famoso autore italiano.

Il dipinto che costituisce il cuore della mostra e che è considerato il seme (detonatore) che ha portato all’immaginazione del progetto per la città di Ostia, è Hostia, devoto ad alludere al sacrificio, al martirio, all’ultimo passaggio prima che Pasolini espiasse la sua vita. Seguendo una tripartizione in verticale, il grande olio su tela raffigura l’interno del futuro Mausoleo dal cui oculo soprastante la cupola si affacciano oltre al presunto assassino Pino Pelosi, gli agenti della polizia, alcuni spettatori e giornalisti, evocando l’affresco quattrocentesco dipinto dal Mantegna nella Camera degli Sposi a Mantova. Dall’apertura nel quadro di Verlato, che incarna la prospettiva dal hic et nunc dello spettatore, precipita il corpo di Pasolini, in una discesa che paradossalmente appare come un viaggio a ritroso nel tempo, verso un momento felice della sua infanzia. Così, in basso, su una sorta d’isolotto Pasolini si ritrova bambino seduto sul grembo della madre che gli insegna la poesia sotto l’occhio vigile di Petrarca, con cui scambia sguardi intensi, e in presenza del poeta Ezra Pound nudo e semisdraiato come un dio fluviale. Dall’isolotto si erge un albero dalle sembianze di un leccio le cui fronde giungono quasi all’oculo, e che affonda le radici in questo scenario idilliaco dell’infanzia, nell’alveo di un mondo classico antico che è contornato da un colonnato di colonne corinzie, volutamente ribaltato rispetto all’ordine dorico svelando l’inversione del passato con il presente, mentre il fusto arborio si trova all’altezza mediana del tempietto laico dove si dispiega una danza orgiastica di corpi nudi dalle fattezze e corporature michelangiolesche, che sprigiona la potenza narrativa simile al Giudizio Universale della Cappella Sistina. Il tempo appare congelato laddove il giudizio è sospeso, mentre i personaggi hanno lasciato le loro connotazioni specifiche per abbandonarsi a questo intreccio di fisici scolpiti dalle pennellate realiste e ben calibrate del pittore veneto. Il leccio pertanto, in un’accezione trascendente come descritto nei “Detti” del beato Egidio, rimanda all’albero prediletto di Cristo in quanto fu l’unico a intuire che dovette sacrificarsi, come il Salvatore, per contribuire alla Redenzione. Riferendosi alla figura di Pasolini, è come se solamente attraverso il sacrificio (voluto e consapevole) della persona fisica mediante questo atto violento, il suo opus ovvero il suo corpo poetico fosse potuto risuscitare per permanere nella storia.

       

 

 

 

 

 

 

Nella mostra, tre piccoli ritratti dipinti sono messi a confronto con alcuni busti di personaggi rilevanti nella vita dell’autore. Raccogliendo più immagini possibili esistenti dei medesimi soggetti, Verlato le elabora con l’espediente del computer per ottenere fattezze autentiche e organiche che poi trasforma in busti in gesso o in sculture realizzate con la stampante 3D.

In questo modo, i tre piccoli ritratti dipinti, ripresi dal dipinto Hostia, derivano proprio da questi busti, le cui fisionomie si manifestano come ricostruzioni piuttosto veritiere di questi protagonisti, ed evidenziano le attinenze con la vita di Pasolini. Un ritratto è dello stesso Pasolini, raffigurato con un rametto di palma che allude al suo martirio, un altro di Ezra Pound con l’alloro del poeta e il terzo di Petrarca con la trecentesca tonaca. Pasolini che da bambino sognava di seguire le orme di un poeta come Petrarca, ad un certo punto sente la sua figura di poeta rigettata dalla società, che non concedeva più il diritto d’esistenza a quest’arte, portando così l’autore a percorrere una metamorfosi, e spingendolo a compiere l’atto estremo dell’uccisione affinché la sua poesia e la realtà coincidessero con la trasformazione di lui stesso in corpo poetico. Non era più la sua poesia, ma l’ascesa del suo corpo dopo la morte fisica alla sfera mitologica.

Nicola Verlato elabora ulteriori e sorprendenti parallelismi tra Pasolini e figure storiche che hanno segnato il passato di Roma; tra questi Caio Sempronio Gracco (154-121 a.C.) condensato nei dipinti “Gaio Sempronio Gracco ucciso dal suo schiavo” (olio su tela), e “Il cadavere di Tiberio Sempronio Gracco gettato nel Tevere” (olio su tela).

 

Gracco, il tribuno della plebe romana, eletto nel 123 a.C., propose leggi che vollero ristabilire l’effettiva sovranità del popolo ridimensionando il potere del senato. Similmente, il regista e scrittore comunicava con gli intellettuali del suo tempo ma frequentava il popolo delle periferie, facendosi portavoce di quei personaggi provenienti da ambienti disagiati e rendendoli protagonisti dei suoi film e di molta sua poesia. Cercando l’autenticità di Roma e della sua gente, era amato dal popolo e nonostante ciò trovò la sua morte in quella notte fatidica del 2 novembre 1975 lontano dalle luci della Capitale, nell’idroscalo di Ostia, assassinato violentemente proprio da uno di questi ragazzi di strada.

Si trova una convergenza tra i due personaggi, Gracco e Pasolini, nel modo e nel significato dell’uccisione. Se la morte di Caio Gracco, che si fece uccidere da un servo sulle pendici del Gianicolo, poteva apparire come una sconfitta dello sforzo di ripristinare la sovranità del popolo romano, questo fatto dimostrò in seguito che l’aristocrazia poté reggersi contro le esigenze dei plebei solamente con la violenza. Pasolini, invece, per permettere alla poesia di risorgere deve immolarsi, portando la sua stessa vita alla sfera mitologica.

La completa nudità dei corpi di questi dipinti può alludere alla spogliazione dai connotati socio-culturali, ma rimanda altresì alle opere statuarie e alle sculture dell’antico mondo greco-romano, che, celebrando la bellezza e la perfezione della scultura classica, caratterizzano l’identità cittadina in Italia, di cui Verlato si rende eccellente ed innovativo interprete.  

Nel quadro dell’uccisione di Gracco ambientata su una roccia sopra la città di Roma, Pino Pelosi ha prestato il volto al servo che si regge al fusto di un albero, dopo che con la mano sinistra ha ficcato il pugnale nel fianco della vittima incarnata da Pier Paolo Pasolini. Gli ignudi della plebe raffigurati ai piedi del colle si agitano con i bastoni in mano. Sullo sfondo appare la veduta del centro di Roma con l’Altare della Patria (Vittoriano) e le numerose cupole delle chiese.

 

Similmente, nel dipinto “Assassinio di P.P.P. n.1” che Verlato espone alla mostra partenopea, tre aggressori con i bastoni di ferro in mano sono congelati nell’atto di infliggere delle violenze a Pino Pelosi e al corpo di Pasolini, che sta cadendo a terra dopo che è stato investito dalla sua stessa auto. Si presume che Pino Pelosi non sia stato unico responsabile a porre fine alla vita del poeta ma che, come ha affermato dopo la sua scarcerazione, ci siano stati altri colpevoli coinvolti.

L’altro quadro che fa trapelare delle analogie tra Pasolini e un personaggio storico è “Assassinio di P.P.P / Marlowe”. Il controverso drammaturgo cinquecentesco, accusato di libertinaggio ed omosessualità che pugnalò il capo dei servizi segreti inglesi, rimase egli stesso colpito da una coltellata in un occhio, morendo poi in circostanze tutt’ora non chiarite.

Nell’opera pittorica di Verlato si vede Pasolini nelle vesti del britannico Christopher Marlowe, ferito da un amico ad un occhio con il coltello, mentre sta cadendo da uno sgabello di una locanda, sotto lo sguardo attonito degli altri compagni commensali seduti al banchetto. Attraverso una dinamica intricata tra il divenire vittima e l’agire da carnefice, Pasolini trova l’identificazione con le vicissitudini della vita e morte di Marlowe. Entrambi eroi della poesia, trovano l’affermazione di quest’ultima nel superamento del proprio corpo materico.

 

Infine, il dipinto “Ritrovamento del corpo di P.P.P.” s’ispira nella composizione al Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio (conservata a Siracusa). In primo piano un cameraman con le sembianze dello stesso Verlato di una troupe televisiva diretta da Orson Welles come nel film “La ricotta”, riprende la scena del delitto, penetrando il piano dello spettatore. Ricompare la figura di Ezra Pound che corrisponde al vescovo officiante della tela di Caravaggio. Il corpo di Pasolini esanime, nella stessa posizione della santa, è steso con il volto verso il basso. L’agire delle figure in primo piano si contrappone alla quiete del gruppo di personaggi dietro la barella, come nelle tele antiche affollate da santi e beati. Qui sono sostituiti da alcuni dei protagonisti dei film di Pasolini, tra cui Maria Callas, Franco Citti, Anna Magnani, Ettore Garofalo e Totò, che insieme alla madre, compiangono silenziosamente il corpo del defunto. Il gesto della mano di Welles che indica Pasolini rievoca il gesto di Cristo della famosa Vocazione di San Matteo realizzata da Caravaggio per la Cappella Contarelli a San Luigi dei Francesi.

Se Nicola Verlato da una parte predilige soggetti contemporanei per le sue opere, dall’altra sceglie composizioni classiche per raccontarli, consapevole del mondo moderno in continua trasformazione, ma anche della forza identitaria scaturita dall’antico. Il suo metodo consiste nella raccolta di quella massa di dati accumulati degli individui su un determinato soggetto, che poi trasforma in modello; produce una metafisica al contrario, ricavando l’idea di un soggetto dalle sue varie manifestazioni concrete. La scultura di Verlato sfocia in pittura, e la pittura sfocia in scultura, quando si coagula al centro dell’istallazione in una scultura che raffigura lo stesso Pasolini sospeso per aria, ricollegandosi nuovamente al quadro Hostia.

Così, il corpo libero di Pasolini viene fissato nell’istante del suo precipizio, appeso a fili invisibili, che tengono il legno di cui è fatto. Come i crocifissi di molti paesini medievali, tanto cari a Pasolini, come anche l’arte medievale che ha l’uomo al centro di ogni prospettiva. Riecheggiano alcuni versi di Mamma Roma, “Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, …”

Il peso del suo corpo ormai è evanescente, tuttavia, rimane la bellezza, la sublimazione della sua quintessenza.  L’istallazione è completata dal brano per coro e orchestra di Verlato sul canto “Strappa da te la vanita” di Ezra Pound, trasformando il progetto Hostia in un Gesamtkunstwerk che apre a nuovi scenari nell’arte. 

 

Hostia Pier Paolo Pasolini

Mostra di Nicola Verlato

Napoli – Maschio Angioino

Dal 7 luglio al 27 agosto 2023

 

 

 

 

Jheronimus Bosch o l’influencer artistico del ‘500

CULTURA/SOCIETA' di

Quando si parla di Rinascimento, comunemente si fa riferimento alla bellezza ideale e ad un classicismo equilibrato che trova la sua maggior espressione nell’ambito tosco-romano nel ‘500, riconosciuto ed apprezzato oltre i confini della storia dell’arte. Ampliando lo sguardo, da quelle forme armoniose si discosta sensibilmente la pittura di Jheronimus Bosch (c. 1450-1516), il poliedrico artista fiammingo, che rappresenta il vero emblema di un Rinascimento alternativo che permette di considerare una pluralità di Rinascimenti con diversi centri artistici diffusi in tutta Europa. Proprio una ricostruzione della diversità di linguaggio artistico e stile rispetto al Rinascimento “classico”, di cui Bosch è stimato protagonista, è stata messa in scena alla mostra “Bosch e un altro Rinascimento” presso Palazzo Reale a Milano. Più che una monografica di Jheronimus Bosch, questa vasta esposizione intende fornire una prospettiva diversa sull’opera del Maestro nel contesto della sua epoca, offrendo varie sezioni tematiche, che sottolineano l’importanza e la popolarità in Europa di cui ha goduto l’artista già durante la sua vita. Leggi Tutto

L’Eredità di Cesare e la conquista del tempo – Un’istallazione virtuale anima gli antichi marmi

Adrenalina Affairs di

 di Julie Kogler

 In queste settimane, dalle incertezze esistenziali e dal tempo sospeso, ci si offrono momenti di riflessione, nell’alveo di un dialogo stimolante tra antichità e contemporaneità, tra testimonianze di ere gloriose del passato e nuove tecnologie veicolanti inedite vedute e illustrazioni di certi celebri scenari antichi.

 La cornice di questo incontro sono gli splendidi Musei Capitolini, in particolare le sale del Palazzo dei Conservatori dove si dipanano i racconti di avvenimenti storici insieme ai nomi dei suoi protagonisti attraverso i Fasti Capitolini che vi vennero collocati nel 1546, una volta ritrovati e ricomposti mediante il concorso di Michelangelo.

 I Fasti, preziosi calendari costituiti da frammenti di iscrizioni nel marmo che documentano i nomi dei consoli (i Fasti consolari) così come le liste dei trionfi dei generali (i Fasti trionfali), sono il fulcro di un’originale istallazione multimediale che viene proiettata sugli stessi marmi, generando un’illustrazione ibrida, inedita e coinvolgente.

Per donare maggior campo visivo e risalto ai Fasti Capitolini e al progetto virtuale, la Lupa Romana ha lasciato la sua abituale collocazione al centro della sala per trovarne una diversa nella sala dell’Esedra. Sulle incisioni antiche dei Fasti con i nomi dei consoli e degli avvenimenti militari dell’Antica Roma vengono proiettate parole e frasi chiave riprese dalla stessa parete marmorea mediante un videomapping, che si alterna ad una video proiezione di figure e silhouette colorate di quei personaggi che possono rievocare l’andamento della storia di Roma, dalla sua fondazione (753 a. C.), passando per episodi cruciali dell’età repubblicana, e fino agli albori dell’Impero (31 a. C.).

Una voce narrante ( che si alterna in lingua italiana e in lingua inglese) accompagna lo spettatore durante la visione della proiezione. Uscendo dalla sala e dirigendosi alla sala dell’Esedra si viene rapiti dalla veduta della bronzea statua equestre di Marco Aurelio collocata originariamente al centro della Piazza del Campidoglio e che lì è sostituita da una copia per tutelarla dai danni da agenti climatici ed esterni. 1 In questa grande aula circolare vetrata si possono ammirare la Lupa Capitolina, per l’appunto, la testa della statua colossale di bronzo di Costantino e la sua mano sinistra così come il gruppo scultoreo del Leone che azzanna il cavallo, risalente all’età ellenistica.

E’ presente altresì la scultura detta dello Spinario – anch’essa spostata dalla sua originaria sala all’inizio del percorso museale. Dunque, attraverso questi bronzi si possono ripercorrere alcune tappe significative delle epoche antiche. Eppure non sono soltanto gli emblemi di queste ere insigni a rendere la visita del Palazzo dei Conservatori tanto appassionante. Un lato della sala dell’Esedra si apre ai maestosi basamenti del Tempio di Giove, di Giunone e Minerva, voluto dai re Tarquinio Prisco e Tarquinio il Superbo nel VI secolo a. C., e che fu inaugurato dal consonsole M. Horatius Pulvillus nel 509 a. C., all’inizio del periodo repubblicano. Il Tempio fu ricostruito più volte nel corso dei secoli poiché sistematicamente saccheggiato per cavarne i blocchi di marmo per nuove costruzioni in età post-antica.

Tuttavia, le sue possenti fondazioni, che coprono l’area corrispondente all’ampiezza del cinquecentesco palazzo Caffarelli, e realizzate in blocchi di cappellaccio, si possono ancora osservare facendosi condurre tramite un ricco percorso di disegni ricostruttivi e plastici nell’esplorazione archeologica di questa architettura monumentale, la quale è stata completata nel 2000 nell’area del Giardino Romano. Nondimeno il Colle Capitolino si riserva il primato di essere stato costantemente abitato sia in età arcaica che durante l’età del ferro e del bronzo.

 Lo documentano innumerevoli reperti esposti nelle vetrine lungo il percorso, rinvenuti nell’area degli scavi condotti nel Giardino Romano, sul lato orientale del Tempio, ora sala dell’Esedra. L’esposizione precede di qualche mese la mostra alquanto rilevante centrata sull’età repubblicana dell’Antica Roma, in programma ai Musei Capitolini per l’autunno 2021.

 Un luogo ricchissimo di storia quello costudito dentro l’odierno Palazzo dei Conservatori, che merita essere visitato, e che insieme ai Fasti Capitolini resi più fruibili tramite il neo ideato spettacolo multimediale permette di calarsi nei fasti di epoche passate attraverso le grandiose testimonianze tramandate dai suoi uomini più intraprendenti. E che ancora oggi ci donano la consapevolezza delle importanti origini per offrirci – si spera – al contempo prospettive per future imprese coraggiose.

L’Arcaico Raggio, Alchimia nel Terzo Millennio, rinnovamento e trasformazione

Adrenalina Affairs di

In un’epoca in cui tutti gli ambiti si intrecciano, in cui le delimitazioni si sciolgono per costituire stati nuovi di ibrida convivenza, ritorna in auge la figura dell’alchimista, capace di trascendere la materia attraverso procedure e rituali per giungere a un livello di elevata conoscenza.  Nei secoli si sono susseguiti diversi profili dell’alchimista, rappresentato e descritto attraverso incisioni, numerosi testi ed immagini, che conservano un’essenza unanime nonostante seguano processi divergenti. Leggi Tutto

Canova. Eterna Bellezza, far rinascere l’Antico attraverso il Moderno o plasmare il Moderno mediante il filtro dell’Antico

Adrenalina Affairs di

Che l’arte di Antonio Canova (Possagno 1757 – Venezia 1822) sia inconcepibile senza considerare il suo stretto legame con la città di Roma, è altrettanto impossibile pensare alla Roma sotto i rivolgimenti storici a cavallo tra Settecento e Ottocento senza la figura importante dell’artista di origini venete nel sostentamento della sua posizione di capitale dell’arte. Questo fondamentale binomio tra l’Urbe e l’artista neoclassico è illuminato dalla mostra “Canova. Eterna Bellezza” allestita a Palazzo Braschi, dal 9 ottobre 2019. Leggi Tutto

Julie Kogler
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