Israele ha iniziato a curare civili e combattenti siriani dal 2013, all’ospedale di Nahariya

in MEDIO ORIENTE by

Nahariya è una cittadina turistica  situata a nord di Israele sul mar Mediterraneo vicina al confine con il Libano. Arrivando all’ospedale di Nahariya si percepisce immediatamente l’attenzione alla sicurezza e la sua efficienza dettata dall’esperienza israeliana, infatti la struttura stessa è progettata in modo da prevenire   e gestire eventuali attacchi o attentati.

 Dopo una lunga fase organizzativa con gli organismi ufficiali israeliani, è stato possibile visitare il nosocomio che vanta la cura e l’ospitalità data ai feriti di guerra siriani.  Arrivano in modo rocambolesco, oltrepassando il confine israeliano e sfidando la conflittualità fra i due Stati.  Solo feriti con lesioni gravi rischiano questa avventura, proprio per la consapevolezza che in Siria non potrebbero essere curati adeguatamente e per la maggior parte dei casi significherebbe la morte sicura. Passata la linea di frontiera vengono soccorsi dai soldati israeliani e trasportati all’ospedale di Nahariya .

Ci accolgono la portavoce dell’ospedale, due soldatesse e un’ addetto alla censura che ci accompagneranno durante la visita.

Dopo molti passaggi tra corridoi e vari piani accediamo al locale preposto per l’intervista a tre feriti siriani. E’ presente inoltre, una interprete che conosce la lingua siriana e i loro dialetti,  perciò la stanza è affollata di molti sguardi attenti e interrogativi. I pazienti sono al centro e dialogano con noi con molta titubanza, dominati da una grande  tristezza in considerazione della loro sfortunata situazione di feriti  di guerra e in questo momento curati oltre il confine di un Paese da sempre ritenuto nemico dove hanno trovato la speranza di guarire e poter un giorno riabbracciare i loro cari.

Il primo ad esporre la sua storia ha 30 anni,  racconta che si trovava in cucina con la moglie e i due figlioletti, quando improvvisamente una forte esplosione  ha ridotto in macerie la sua casa. E’ riuscito a salvare uno ad uno i suoi familiari, ma durante gli scontri che sono susseguiti  è stato raggiunto da un proiettile alla testa procurando gravi ferite, lacerando anche  parte del viso. E’ ricoverato in Israele da più di 13 mesi ed è stato sottoposto a 15 interventi chirurgici per la ricostruzione facciale. Ora sta abbastanza bene, anche se ancora una enorme fasciatura  copre la parte più colpita e spera rivedere entro breve la sua famiglia.

Si prosegue con la chiacchierata con l’unico del gruppo che si dichiara  un combattente, ha 31 anni, sposato con due bimbe molto piccole, racconta che   mentre sosteneva uno scontro a fuoco è stato ferito ad un braccio. A causa dell’assoluta mancanza di trattamento medico sul fronte, nemmeno quello più basilare, è arrivato in Israele con l’arto completamente infetto e quindi i medici non hanno potuto fare altro che amputare, scongiurando la propagazione dell’infezione, solo qualche giorno di ritardo senza le cure adeguate, sarebbe stato troppo tardi.

Il terzo intervistato ha 28 anni, un’esplosione circa 3 anni prima lo aveva ferito in modo grave alla gamba destra. Riuscito a raggiungere Israele è stato ricoverato per oltre 2 mesi e mezzo prima di fare ritorno a casa. Ora è nuovamente ricoverato per continuare il trattamento medico. Non è facile ritornare all’ospedale quando non si è più in pericolo di vita, perchè l’equilibrio tra il conflitto e la necessità di recarsi in Israele, considerato  un paese nemico, spesso mette a dura prova la loro credibilità e l’onorabilità dagli stessi familiari e connazionali. Anche lui sposato con bambina piccola, quando parla di lei si illuminano gli occhi e si scorge una lacrima.

Alla nostra domanda di cosa ne pensano di Israele dopo la loro esperienza, tutti loro concordano nel riconoscere ad Israele un’opera umanitaria che va al di là delle divisioni politiche e che ha salvato loro la vita. 

UNITA’ PEDIATRICA 

Incontriamo il fondatore dell’unità pediatrica nata  nel lontano 1998, mentre la nuova sede che stiamo visitando, è stata costruita nel 2004. 

È molto orgoglioso del reparto da lui fondato e dei suoi collaboratori di cui circa la metà sono di origine araba.

Il reparto è strutturato nel massimo rispetto, qualità e tranquillità dei piccoli pazienti. I muri sono dipinti con colori tenui e sul soffitto sono disegnati soggetti piacevoli in modo che al risveglio i loro occhi incontrano immagini amiche.

Le attrezzature sanitarie sono ultramoderne, con stanze di sei posti letto ed un’unità di isolamento per particolari necessità.

Il Primario fa notare che chiunque oltrepassa il cancello è una persona che ha bisogno di aiuto e quindi razza, religione e colore non contano, per loro sono tutti uguali, in quanto (e lo fa notare con enfasi) un Medico deve essere prima di tutto una persona con una notevole umanità e poi un Dottore.

I piccoli pazienti provenienti dalla Siria vanno subito in terapia intensiva, la maggior parte dei traumi sono ferite di guerra, una piccola parte invece causata da incidenti stradali ed un’altra  da “normali” problemi pediatrici. Hanno avuto anche piccoli pazienti con appena 3 giorni di vita, la maggior parte di essi giungono senza familiari. Come arrivano? Risposta bloccata dalla censura. Sempre vengono raccolti alla frontiera tra i due paesi, i soldati dell’IDF  non fanno domande e portano in ospedale i bambini  che sono quasi sempre incoscienti.

Fa notare un’altra cosa:” Spesso arrivano dei ragazzini di 8,9,10 anni che ci odiano, pensano che noi siamo dei mostri e quando si svegliano e realizzano dove sono,  (continua il Primario) provate ad immaginare il loro comportamento molto diffidente e quasi di disprezzo e pian piano si conquista la loro fiducia.  Duranti i primi anni di attività, oltre che prendersene cura,  tra il personale medico c’era anche un’azione di solidarietà,  ognuno di noi portava da casa qualcosa per loro, dalle t-shirt, ciabatte, pantaloni, sapone, ecc. “. Ridendo ci dice che qualcuno in questo momento in Siria sta camminando con le sue scarpe. Visto che questa era una esigenza continua, perché passavano il confine con i pochi stracci indossati, è stato approntato un deposito di indumenti e altro materiale di prima necessità, sempre frutto di donazioni. 

Dopo aver visitato il reparto, il medico ci accompagna nel suo ufficio sotto lo sguardo torvo delle soldatesse e ci mostra un video relativo ad una bimba di circa 3 anni, operata d’urgenza per una patologia molto grave, al suo risveglio iniziò a piangere e dire qualche parola ma i sanitari non capivano, non riuscivano a calmarla e rischiava di compromettere la guarigione.  Dopo qualche ora si fece avanti una signora  che stava accudendo suo figlio,  e che conosceva il dialetto della bimba così cominciò a collaborare con lo staff sanitario per accudire e calmare la piccola paziente, diventando per lei un punto di riferimento.

Il Dottore ha voluto  sottolineare questi aspetti, invece di elencarci statistiche o farci capire quanto eccellenti sono nel trattamento di traumi di guerra, perché, per lui e per tutto il personale dell’ospedale, l’aspetto umano e la pura dedizione alla cura dei bisognosi prevale su ogni altro aspetto di rivalità di popoli.   

All’ospedale di Nahariya i pazienti sono al 50% israeliani e il restante di varie etnie e confessioni religiosi, ma il trattamento medico è uguale per tutti.

                                 

Loretta Doro

Antonio Scuratti

Bookreporter Settembre

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