GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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EUROPA - page 53

Accordi commerciali UE-Singapore: intensificazione della cooperazione tra Asia ed Europa

EUROPA di

Singapore è il principale partner dell’Unione europea all’interno dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), in quanto protagonista di quasi un terzo degli scambi di merci e servizi tra le due entità. Non a caso, in un’ottica geopolitica, Singapore assume un’importanza rilevante: in primo luogo, con l’avvento dell’economia globale,  la posizione della Città-Stato nello Stretto di Malacca è ritenuta un key point importantissimo per il transito delle navi mercantili tra Asia ed Europa; in secondo luogo, si tratta di un territorio connesso storicamente alla colonizzazione britannica e ad una gestione inglese finalizzata a dar luogo un porto libero, dotato di una vasta autonomia in ambito economico.

Nel 2010 l’UE e Singapore hanno avviato dei negoziati in materia di scambi commerciali ed investimenti che si sono conclusi nel 2014. In seguito all’emanazione di un parere della Corte di Giustizia dell’UE nel 2017, nell’aprile del 2018 la Commissione ha proposto due accordi distinti. Sulla base di tale proposta della Commissione, il 15 ottobre, il Consiglio ha adottato delle decisioni relative alla conclusione di un accordo di libero scambio (ALS) e di un accordo sulla protezione degli investimenti. Si tratta dei primi accordi bilaterali in materia di scambi ed investimenti conclusi tra l’UE ed uno Stato membro dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN). Nel 2017 tali scambi commerciali bilaterali hanno raggiunto un valore di 53,3 miliardi di euro: nel dettaglio, le esportazioni dell’Unione europea sono state pari a 33,16 miliardi, principalmente  automobili e macchinari, mentre le importazioni sono state pari a 20,14 miliardi e sono stati importati in particolare prodotti chimici e farmaceutici. Prima dell’adozione delle decisioni risalenti al 15 ottobre, tutte le merci provenienti dall’UE potevano già essere importate a Singapore prive di dazi doganali; l’ASL eliminerà anche le barriere tariffarie residuali, nell’arco di un periodo che va dai tre ai cinque anni in base alla categoria del prodotto in questione, nonché le barriere tecniche, in virtù del riconoscimento delle norme e delle prove di sicurezza europee nei settori chiave come l’elettronica, l’industria farmaceutica ed automobilistica. Relativamente ai prodotti della pesca ed ai prodotti agricoli trasformati importati nell’UE, vigerà ancora l’applicazione di alcune tariffe.

L’ALS eliminerà altresì le restrizioni nel settore dei servizi (settore in cui, nel 2016, gli scambi bilaterali sono stati pari a 44,4 miliardi di euro). A tal proposito l’UE risulta essere il primo partner commerciale di Singapore, mentre più di 10 000 aziende degli Stati membri UE utilizzano Singapore come base per servire l’intera area del Sud-Est Asiatico. Oltre all’eliminazione barriere tecniche e tariffarie, rilevano importanti disposizioni relative alla protezione della proprietà intellettuale, alla liberalizzazione degli investimenti, agli appalti pubblici, nonché alla concorrenza ed allo sviluppo sostenibile.

L’accordo sulla protezione degli investimenti offrirà maggiori certezze agli investitori ed al contempo, permetterà di salvaguardare i diritti delle due controparti di legiferare nel perseguimento dei propri interessi ed obiettivi di politica pubblica, tra cui la protezione della salute, della sicurezza e dell’ambiente. Tale accordo sostituirà i 12 trattati bilaterali vigenti tra Stati membri dell’UE e Singapore in materia di investimenti.

La firma dei due accordi, nonché di un accordo di partenariato e di cooperazione, è prevista a margine del 12° vertice Asia-Europa (ASEM) del 18 e 19 ottobre a Bruxelles. Con riguardo all’accordo di libero scambio, esso concerne materie di competenza esclusiva dell’Unione europea, pertanto è richiesta solo l’approvazione del Consiglio e del Parlamento europeo prima dell’entrata in vigore, mentre, relativamente all’accordo sulla protezione degli investimenti, esso ha per oggetto settori di competenza concorrente tra UE e Stati membri, pertanto dovrà essere sottoposto a delle procedure di ratifica nazionale in tutti gli Stati membri prima di poter entrare in vigore, impiegando tempi più lunghi.

I due accordi consentiranno ulteriori progressi verso la definizione di norme rigorose nella regione dell’ASEAN e contribuiranno a gettare le basi per un futuro accordo interregionale in materia di scambi commerciali e di investimenti.

A tal proposito, il 15 ottobre, il Consiglio ha altresì adottato le conclusioni sul tema intitolato “Collegare l’Europa e l’Asia – Elementi costitutivi per una strategia dell’UE”, in seguito ad una comunicazione congiunta della Commissione europea e dell’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, risalente al 19 settembre. La strategia delineata prevede una cooperazione rafforzata a livello regionale tra Unione europea ed Asia, partendo dall’assunto secondo cui la prima dovrebbe prendere in considerazione lo sviluppo di approcci regionali volti ad individuare nuove opportunità di cooperazione.

EUAM Iraq: il Consiglio proroga la missione fino al 2020

ASIA PACIFICO/EUROPA di

Il 15 ottobre 2018 il Consiglio dell’Unione Europea ha prorogato la missione consultiva dell’UE in Iraq EUAM – European Union Advisory Mission – fino al 17 aprile 2020. La missione consultiva dell’Unione europea si concentra sull’assistenza alle autorità irachene nell’attuazione degli aspetti civili della strategia di sicurezza nazionale irachena.

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Ricercatore di Amnesty International sequestrato in Inguscenzia (Russia)

EUROPA di

In Inguscezia, nella federazione Russa, migliaia di persone protestano contro un accordo relativo alla demarcazione amministrativa dei confini con la vicina Cecenia. I manifestanti sostengono che l’accordo – approvato dai due parlamenti locali e dai due presidenti – sia una sconfitta per gli ingusci e una vittoria per i ceceni. L’attuale accordo prevede di cedere alla Cecenia un pezzo di territorio che molti ingusci considerano loro: aree non residenziali e coperte di boschi vicino a Dattykh. L’accordo è stato firmato a fine settembre dai presidenti delle due repubbliche, il ceceno Ramzan Kadyrov e l’inguscio Junus-Bek Yevkurov. Lo scorso 4 ottobre i due parlamenti hanno votato la ratifica: i deputati del parlamento ceceno hanno votato in modo compatto, mentre dei 25 deputati che compongono il parlamento dell’Inguscezia 17 hanno votato a favore, 3 hanno votato contro e gli altri si sono astenuti. Le proteste a Magas, la capitale dell’Inguscezia, sono iniziate in occasione della firma dei presidenti e si sono intensificate dopo la ratifica del parlamento. Secondo i manifestanti, il presidente inguscio avrebbe agito in modo autoritario e senza prima una consultazione popolare: tra gli altri, è stato criticato anche il presidente Vladimir Putin, accusato di non essere intervenuto in favore dell’Inguscezia. In questo contesto Amnesty International ha inviato un suo ricercatore a seguire le manifestazioni ma è stato sequestrato, picchiato e sottoposto a terribili finte esecuzioni da uomini qualificatisi come membri dei servizi di sicurezza.

Alle 21 del 6 ottobre un uomo ha bussato alla porta della camera d’albergo di Oleg Kozlovsky sostenendo che uno degli organizzatori delle proteste voleva vederlo. L’uomo ha portato Oleg Kozlovsky all’angolo di una strada, dove c’era un’automobile in attesa. Una volta salito a bordo, due uomini dal volto coperto sono a loro volta entrati nell’automobile. Uno di loro ha chiesto a Oleg di spegnere il telefono, l’altro ha iniziato a colpirlo sul volto.  L’automobile si è diretta verso un campo. Per tutto il tempo Oleg è stato tenuto a capo chino. Giunti a destinazione, Oleg è stato denudato e minacciato di morte se avesse tentato di fuggire. Gli uomini dal volto coperto gli hanno chiesto chi fosse, cosa facesse a Magas e per chi lavorasse, poi hanno tentato di convincerlo a diventare un loro informatore. È stato picchiato a lungo, ha subito la frattura di una costola ed è stato sottoposto due volte a finte esecuzioni con una pistola puntata alla nuca, la seconda volta dopo un invito a dire una preghiera. È stato fotografato nudo e ammonito a non parlare altrimenti le fotografie sarebbero state rese pubbliche. Dopo il rifiuto di diventare loro informatore, i sequestratori gli hanno confiscato telefono e videocamera e lo hanno portato nella vicina Repubblica dell’Ossezia del Nord, dove lo hanno rilasciato nei pressi dell’aeroporto. Uno degli uomini lo ha avvisato: “Non tornare mai più e non scrivere porcherie sull’Inguscezia”.

    Marie Struthers, direttrice di Amnesty International per l’Europa orientale e l’Asia centrale, ha dichiarato “questo è un episodio scioccante e sconvolgente. Le autorità devono sapere che non ci piegheremo alle intimidazioni di chi agisce a volto coperto. Abbiamo sporto formale denuncia alle autorità russe”, ha dichiarato. Oleg Kozlovsky è stato sequestrato di fronte a personale di un albergo e alle telecamere di sorveglianza, in una Magas piena di forze di polizia. I responsabili di questo attacco codardo devono essere rapidamente individuati e portati di fronte alla giustizia”.

 

 

Visti umanitari per i rifugiati: la proposta alla Commissione UE

EUROPA di

Il Parlamento europeo è composto da diverse commissioni di eurodeputati, permanenti e temporanee, ed ognuna ha una propria specializzazione.

La commissione LIBE – Libertà civili, giustizia e affari interni – è responsabile della maggioranza della legislazione e del controllo democratico delle politiche di giustizia e affari interni a livello europeo. Con ciò, garantisce il pieno rispetto della Carta dei diritti fondamentali all’interno dell’Unione Europea, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e del rafforzamento della cittadinanza europea. Tale commissione svolge il suo lavoro interagendo con la Commissione europea e il Consiglio dei ministri, per poi cooperare strettamente con i parlamenti nazionali.

Le politiche in materia di giustizia e affari interni sono volte ad affrontare questioni di interesse comune a livello europeo, quali la lotta contro la criminalità internazionale e il terrorismo, la protezione dei diritti fondamentali, la protezione dei dati e della vita privata nell’era digitale, la lotta contro la discriminazione basata sull’origine etnica, la religione, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale.
Nella riunione della commissione LIBE del 10 ottobre 2018, i membri hanno affrontato diverse questioni: il progetto di relazione sulle norme per le minoranze nell’UE, con il relatore József Nagy (PPE) e i visti umanitari, con il relatore Juan Fernando López Aguilar (S&D); l’uso dei dati degli utenti di Facebook da parte di Cambridge Analytica e l’impatto sulla protezione dei dati, con il relatore Claude Moraes (S&D).

In particolare, nell’ambito dei visti umanitari, è emerso che:

– i detentori dei visti avrebbero accesso al territorio dell’Unione al solo scopo di richiedere protezione internazionale;

– i visti sarebbero da rilasciare presso le ambasciate e i consolati dell’UE all’estero;

– il 90% di quelli che hanno ottenuto protezione internazionale nell’UE è arrivato con mezzi irregolari;

– circa 30.000 persone sono morte cercando di raggiungere l’Europa dal 2000.

Dunque, con 39 voti favorevoli e 10 voti contrari, il Comitato per le libertà civili ha approvato la richiesta alla Commissione europea di presentare entro il 31 marzo 2019 una proposta legislativa che istituisca un visto umanitario europeo, che dia accesso al territorio europeo, in particolare allo Stato membro che rilascia il visto, al fine di presentare una domanda di protezione internazionale.

Nel corso dell’incontro, i deputati hanno sottolineato che, nonostante numerosi annunci e richieste di percorsi sicuri e legali per i richiedenti asilo in Europa, l’Unione Europea non dispone di un quadro preciso di procedure di ingresso. I rifugiati, attraverso i visti umanitari, avrebbero accesso al territorio dell’Unione Europea così da poter richiedere protezione internazionale.

Si ritiene infatti che i paesi dell’Unione Europea dovrebbero essere in grado di rilasciare visti umanitari presso ambasciate e consolati all’estero, così da consentire ai rifugiati in cerca di protezione di accedere all’Europa senza rischiare la vita.

Gli obiettivi di tale richiesta sono: tagliare il bilancio delle vittime, combattere il contrabbando e migliorare l’uso dei fondi di migrazione. Secondo la commissione LIBE, i visti umanitari contribuirebbero a far fronte al numero intollerabile di vittime nel mar Mediterraneo e quindi nelle rotte migratorie verso l’Unione Europea; inoltre, i visti servirebbero per combattere il contrabbando di esseri umani che si è creato e per gestire gli arrivi, l’accoglienza e il trattamento delle domande di asilo in un modo migliore. Attraverso i visti umanitari, si dovrebbe anche contribuire all’ottimizzazione da parte degli Stati membri e del bilancio dell’Unione Europea in materia di asilo, per le procedure di applicazione della legge, il controllo delle frontiere, la sorveglianza, la ricerca ed infine il soccorso.

Per poter ottenere il visto umanitario, i rifugiati beneficiari dovranno dimostrare un’esposizione o un rischio di persecuzione nel paese di origine ben fondati e non essere già parte di un processo di reinsediamento; prima di ottenere il visto, ogni candidato verrà sottoposto ad uno screening di sicurezza, attraverso le relative banche dati nazionali ed europee, per garantire che questo non costituisca un rischio per la sicurezza.

Il relatore Juan Fernando López Aguilar (S&D) ha dichiarato: “Nel contesto di un bilancio delle vittime inaccettabile nel Mediterraneo, il Parlamento Europeo deve dare risultati. Il voto di oggi è un passo limitato, ma comunque un segnale politico molto importante per la Commissione europea. Dobbiamo fare di più per aiutare quegli esseri umani bisognosi, poiché attualmente non esistono abbastanza percorsi legali e sicuri per l’UE per coloro che cercano protezione internazionale”.

Per ciò che riguarda i prossimi step, questa iniziativa legislativa sarà sottoposta a votazione da parte del Parlamento europeo nella seduta plenaria di novembre. Se adottata in seduta plenaria a maggioranza qualificata, la Commissione dovrà fornire una risposta motivata alla richiesta del Parlamento.

Amnesty in vista dell’abolizione totale della pena di morte: che cessi il trattamento crudele dei condannati!

EUROPA di

In occasione della giornata mondiale contro la pena di morte, che si tiene il 10 ottobre, Amnesty International ha dichiarato che i prigionieri condannati a morte devono essere trattati con umanità e dignità, oltre che ad essere detenuti in condizioni rispettose delle norme e degli standard internazionali dei diritti umani. In occasione del 10 ottobre Amnesty ha lanciato una campagna in Bielorussia, Ghana, Giappone, Iran e Malaysia affinché i rispettivi governi pongano fine alle inumane condizioni dei condannati a morte e assumano iniziative in favore dell’abolizione totale della pena capitale.

Nel 2017 Amnesty International ha registrato 993 esecuzioni in 23 paesi, il quattro per cento in meno rispetto al 2016 e il 39 per cento in meno rispetto al 2015. La maggior parte delle esecuzioni ha avuto luogo in Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan ma questo dato non tiene conto delle migliaia di esecuzioni avvenute in Cina, dove le informazioni sull’uso della pena di morte restano un segreto di stato.  Stephen Cockburn, vicedirettore del programma Temi globali di Amnesty International, ha dichiarato che “A prescindere dal crimine che possa aver commesso, nessuno dovrebbe essere costretto a subire condizioni inumane di detenzione. Invece, in molti casi, i condannati a morte sono tenuti in rigido isolamento, vengono privati delle cure mediche di cui necessitano e vivono nella costante ansia di un’imminente esecuzione. Il fatto che alcuni governi notifichino l’esecuzione ai prigionieri e ai loro familiari pochi giorni, se non addirittura pochi minuti prima, aggiunge crudeltà alla situazione. Tutti i governi che ancora mantengono la pena di morte dovrebbero abolirla immediatamente e porre fine alle drammatiche condizioni di detenzione che troppi condannati alla pena capitale sono costretti a subire”.

La dichiarazione universale dei diritti umani all’articolo 3 dice che “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”. Il diritto alla vita è inerente alla persona umana e deve essere protetto dalla legge in quanto nessuno può e deve essere privato arbitrariamente della vita.  La Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) con il protocollo numero 6 ha fatto enormi passi in avanti verso l’abolizione della pena di morte. All’articolo 1 dichiara che la pena di morte è abolita in quanto nessuno può essere condannato alla pena capitale o essere giustiziato. Rimaneva però la possibilità per lo  stato di prevedere nella propria legislazione la pena di morte per atti commessi in tempo di guerra o di pericolo imminenti di guerra solo nei casi previsti dalla legislazione. A questo si accompagnava l’obbligo di comunicare al segretario generale del Consiglio d’Europa le disposizioni in materia della legislazione nazionale. Il protocollo numero 6 è stato il primo strumento giuridico obbligatorio in Europa e nel mondo che ha sancito l’abolizione della pena di morte in tempo di pace, non essendo permesse deroghe in situazioni di emergenza né riserve. L’ulteriore passo in avanti è stato fatto con il protocollo numero 13 relativo all’abolizione della pena di morte in qualsiasi circostanza (maggio 2002). Gli stati firmatari del protocollo, determinati a compiere il passo definitivo al fine di abolire la pena di morte in qualsiasi circostanza, hanno vietato qualsiasi deroga e riserva alla norma sull’abolizione della pena di morte. In Italia la pena di morte, invece, era stata abolita già nel 1948 all’articolo 27 della costituzione, per reati comuni e per i reati commessi in tempo di pace. Poi con la legge 589 del 1994 è stata disposta l’abolizione dal codice militare di guerra e dalle leggi militari di guerra. Ad oggi, l’articolo 27 della costituzione, semplicemente, stabilisce che “non è ammessa la pena di morte”.

In Ghana i condannati a morte denunciano che spesso non ricevono le cure mediche necessarie per curare malattie o disturbi di lunga durata. Decine di prigionieri del braccio della morte, compresi sei con disabilità psicointellettiva certificata, hanno dovuto affrontare condizioni carcerarie deplorevoli, caratterizzate da sovraffollamento e da mancanza di assistenza medica e di opportunità educative e ricreative. Meno del 25 per cento dei reclusi del braccio della morte, intervistati da Amnesty International, era riuscito a presentare un ricorso in appello contro il verdetto di colpevolezza o la propria condanna. Pochi dei prigionieri intervistati sapevano come presentare appello o accedere a una rappresentanza legale d’ufficio, mentre la maggior parte di loro non poteva permettersi economicamente una consulenza legale privata. In Iran, Mohammad Reza Haddadi, nel braccio della morte da quando aveva 15 anni, ha dovuto subire la tortura di vedersi fissata e poi rinviata l’esecuzione almeno sei volte negli ultimi 14 anni. Le autorità iraniane continuano ad effettuare centinaia di esecuzioni di persone condannate al termine di processi iniqui e alcune delle esecuzioni sono avvenute in pubblico. A ciò si accosta una propaganda che definisce “antislamiche” le campagne pacifiche contro la pena di morte e le vessazioni e incarcerazioni di attivisti contrari alla pena di morte. Hoo Yew Wah ha presentato una richiesta di clemenza alle autorità della Malaysia nel 2014 ed è ancora in attesa di una risposta. La pena di morte è obbligatoria per alcuni reati tra cui il traffico di droga, l’omicidio e l’uso di armi da fuoco con l’intenzione di uccidere o di far del male in determinate circostanze. A novembre, il parlamento ha emendato la legge sulle droghe pericolose, dando alla magistratura la facoltà di decidere sull’obbligatorietà della pena di morte, nel caso in cui l’accusato fosse un corriere della droga e avesse cooperato con la polizia nel “fermare le attività del traffico di droga” anche se la disposizione includeva obbligatoriamente 15 colpi di frusta. Il clima di segretezza che circonda l’uso della pena di morte in Bielorussia fa sì che le esecuzioni non siano note all’opinione pubblica e vengano portate a termine senza alcuna comunicazione preventiva ai prigionieri, alle loro famiglie o agli avvocati. Per esempio, ad aprile è stata effettuata l’esecuzione di Siarhei Vostrykau, che era nel braccio della morte da maggio 2016 e la a corte regionale di Homel ha ricevuto conferma della sua esecuzione il 29 aprile. L’ultima sua lettera ricevuta dalla madre era datata 13 aprile. Nel frattempo, Matsumoto Kenji, in Giappone, soffre di delirio molto probabilmente a causa del prolungato isolamento in cui trascorre l’attesa dell’esecuzione.

Amnesty International si oppone sempre alla pena di morte, senza eccezione e a prescindere dalla natura o dalle circostanze del reato, dalla colpevolezza, dall’innocenza o da altre caratteristiche del condannato e dal metodo usato per eseguire le condanne a morte. La pena di morte è una violazione del diritto alla vita,  è l’estrema punizione crudele, inumana e degradante.

La Macedonia al voto per un futuro in UE e NATO

EUROPA di

Il 30 settembre 2018 i macedoni sono stati chiamati a votare sul cambio del nome del paese e non solo, poiché il risultato ha avuto conseguenze anche sul piano politico europeo: i cittadini che hanno partecipato al referendum  si sono trovati a dover scegliere per l’ingresso nell’Unione Europea e nella Nato della Macedonia, accettando l’accordo con la Grecia sul cambio del nome del paese. In particolare, la domanda sulle schede referendarie è stata «Sei favorevole a entrare nella NATO e nell’Unione Europea, e accetti l’accordo tra Repubblica di Macedonia e Grecia?».

La questione è tutt’altro che semplice: l’instabilità che caratterizza il paese dei Balcani è dovuta anche alla disputa con la Grecia per il nome. Dall’indipendenza della Macedonia nel 1991, vi è stato un continuo scontro con la Grecia sul nome del paese, territorio dell’ex Jugoslavia. In particolare, Atene non accettava il nome “Macedonia” a causa della possibilità che poi la Macedonia potesse nutrire ambizioni espansionistiche sulla provincia greca. Il paese è stato indicato con l’espressione “Repubblica ex jugoslava di Macedonia”, e la Grecia ha sempre posto il veto su ogni accenno di volontà di Skopje di entrare a far parte dell’Unione europea o della Nato. La situazione sembra essere migliorata grazie al raggiungimento di un compromesso con l’accordo di Prespa nel giugno 2018 tra i due paesi, nel quale si è utilizzato il nome “Repubblica di Macedonia del Nord”, così da distinguere lo Stato con la provincia greca.

Con il referendum del 30 settembre è stato proposto di sostituire i nomi “Repubblica di Macedonia” ed “Ex repubblica jugoslava di Macedonia” – Fyrom, usato nelle organizzazioni internazionali – con “Repubblica della Macedonia del Nord”. Sebbene si sia raggiunto un accordo che sembra essere una soluzione alla questione ultradecennale, all’interno di entrambi i paesi la situazione è tutt’altro che tranquilla.

Fin dall’inizio, l’opposizione al governo socialdemocratico di Zoran Zaev si è schierata contro l’accordo e quindi anche contro il referendum in questione, facendo leva sull’identità nazionale in funzione antieuropeista, mentre il governo di centro sinistra, autore dell’accordo con la Grecia, ha fatto campagna per il sì, sperando che un superamento del quorum potesse essere anche una legittimazione popolare per il suo operato. Non si è arrivati ad un vero e proprio boicottaggio da parte dell’opposizione, tuttavia si è spinto verso un astensionismo che ha inciso molto sul risultato referendario. Il referendum è consultivo e non vincolante, dunque per ratificare l’accordo con la Grecia sarebbe comunque necessaria l’approvazione parlamentare con una maggioranza di due terzi. Tale referendum ha molta importanza anche a livello europeo: a dimostrazione di ciò, molte figure importanti dell’Unione Europea e della Nato hanno visitato Skopje durante la campagna referendaria.

All’indomani del voto, ci si rende conto di come il referendum sia stato un vero e proprio flop: l’affluenza alle urne non ha raggiunto il quorum necessario – 50% +1 – con una partecipazione ferma circa al 35%. Tra i voti ottenuti, il 90,8% degli elettori ha votato a favore del cambio del nome del Paese – e di tutto ciò che ne consegue – mentre vi è stato solo il 6,18% di voti contrari, poiché chi voleva esprimere una posizione contraria ha preferito astenersi, così da non far raggiungere il quorum per la validità del referendum. Secondo il primo ministro macedone, è stato il boicottaggio operato dall’opposizione a provocare una così bassa affluenza, causata anche dalle dichiarazioni del Presidente della Repubblica, il nazionalista Gjorgje Ivanov, il quale considera l’accordo di Prespa come una violazione della sovranità nazionale macedone.

Si può quindi parlare di una vera e propria vittoria della destra e del centrodestra, ma il primo ministro Zaev sembra tutt’altro che scoraggiato: europeista convinto e fautore del referendum in questione, promette di continuare a lottare per garantire al paese balcanico l’integrazione in UE e NATO. La questione del referendum macedone ha avuto delle reazioni anche a livello europeo; l’Alto rappresentante dell’Unione Europea Federica Mogherini e il commissario europeo per l’Allargamento Johannes Hahn hanno infatti dichiarato che “la stragrande maggioranza di coloro che hanno esercitato il proprio diritto di voto ha votato sì all’accordo Grecia e al percorso europeo; ciò è un’opportunità storica per il Paese verso l’Unione Europea”. I due esponenti dell’UE hanno poi confermato il pieno sostegno di Bruxelles alla Macedonia, aggiungendo che “ora spetta a tutti gli attori politici e istituzionali agire seguendo le loro responsabilità costituzionali al di là delle linee politiche”.

Resta un dato di fatto che il referendum non è andato nel verso giusto rispetto a chi lo aveva proposto e promosso, poiché l’affluenza è rimasta molto al di sotto delle aspettative, mentre a festeggiare è stato il Partito Democratico per l’Unità nazionale (Vmro-Dpmne). Tuttavia, il premier Zaev si sofferma sull’importanza del risultato raggiunto, affermando che la volontà degli elettori dovrebbe trasformarsi in un’attività politica del Parlamento macedone; in caso contrario, si è disposti a procedere con delle elezioni anticipate. La già complessa situazione potrebbe allora continuare a complicarsi, alla luce del fatto che alle elezioni del 2016, il Vmro-Dpmne e i Socialdemocratici dovettero negoziare sette mesi per poter formare il governo.

La Macedonia potrebbe trovarsi di nuovo in una difficile campagna elettorale e la possibilità di entrare nell’UE e nella NATO si allontanerebbe ulteriormente.

La sfida UE sulle emissioni CO2: nuovi obiettivi delineati dal Parlamento Europeo

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I trasporti sono l’unico settore rilevante nell’ambito dell’Unione europea in cui le emissioni di gas a effetto serra continuano ad essere in aumento. Al fine di rispettare gli impegni sottoscritti alla COP21 di Parigi nel 2015, è necessaria un’accelerazione della decarbonizzazione dell’intero settore, con l’obiettivo dell’azzeramento delle emissioni inquinanti entro la metà del secolo.

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Rapid Alert System for Food and Feed: la Commissione europea pubblica il report annuale

EUROPA di

L’Unione Europea ha uno dei più alti standard di sicurezza alimentare al mondo, in gran parte grazie alla solida serie di normative europee in vigore, che garantisce che il cibo sia sicuro per i consumatori. La politica dell’UE per la sicurezza alimentare riguarda l’intero ciclo alimentare – dalla fattoria alla tavola dei consumatori – e punta a garantire: la sicurezza dei generi alimentari e dei mangimi; elevati standard di salute e benessere per gli animali e di tutela per le piante; informazioni chiare sull’origine; il contenuto e l’uso degli alimenti. In particolare, la politica alimentare dell’UE comprende: una legislazione esaustiva sulla sicurezza degli alimenti e dei mangimi e sull’igiene alimentare; una valida consulenza scientifica sulla quale basare le decisioni; controlli e verifiche.

A tal proposito, il RASFF – il sistema di allarme rapido per alimenti e mangimi – è lo strumento chiave per garantire il flusso di informazioni per consentire una reazione rapida quando vengono rilevati rischi per la salute pubblica nella catena alimentare.

Creato nel 1979, tale sistema consente di condividere tutte le informazioni in modo efficiente tra i suoi membri, quali le autorità nazionali di sicurezza alimentare dell’UE, la Commissione, l’autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), l’Autorità europea di vigilanza (ESA); inoltre, fornisce un servizio disponibile 24 ore su 24 per garantire che le notifiche più urgenti possano essere inviate, ricevute e possano ottenere una risposta nel modo più efficace. Grazie al RASFF, è stato possibile evitare molti rischi per la sicurezza alimentare, prima che potessero essere dannosi per i consumatori europei. Il RASFF è un sistema solido e maturato negli anni che continua a mostrare il suo valore per garantire la sicurezza alimentare nell’UE: lo scambio di informazioni che avviene tramite il RASFF può avere come conseguenza il ritiro dal mercato di determinati prodotti.

La base giuridica del RASFF è il regolamento (CE) n. 178/2002. L’articolo 50 del regolamento istituisce il sistema di allarme rapido per alimenti e mangimi come una rete che coinvolge gli Stati membri, la Commissione come membro e gestore del sistema e l’Autorità europea per la sicurezza alimentare. Ogni qualvolta un membro della rete dispone di informazioni relative all’esistenza di un grave rischio diretto o indiretto per la salute umana derivante da alimenti o mangimi, tali informazioni sono immediatamente notificate alla Commissione nell’ambito del RASFF.

Il 25 settembre 2018 la Commissione europea ha pubblicato il report annuale, riferito al 2017, sul RASFF: nel 2017 sono state inviate alla Commissione europea un totale di 3832 notifiche riguardanti alimenti o mangimi. In merito a tali notifiche, 942 sono state classificate come un vero e proprio “allarme”, in quanto indicano un serio rischio per la salute, per il quale è stata necessaria un’azione rapida; 596 come informazioni per il follow-up, dei controlli periodici e programmati; 706 come informazioni per richiamare l’attenzione su una determinata questione; 1588 come notifica di rifiuto alla frontiera.

Il tipo di rischio segnalato nelle notifiche di allarme riguardava principalmente la salmonella nella carne di pollame, che è risultato essere il problema più frequentemente segnalato negli alimenti controllati al confine dell’Unione Europea, insieme alle segnalazioni di mercurio nel pesce spada negli alimenti controllati sul mercato dell’Unione Europea. Solo una piccola percentuale delle notifiche nel 2017 riguardava i mangimi (6%) e il materiale a contatto con gli alimenti (3,1%). Sempre nel 2017, vi è stato un elevato numero di notifiche relative ai residui di fipronil nelle uova, a causa dell’uso illegale di questa sostanza come biocida: quello del 2017 è stato lo scambio di informazioni più intenso nella storia di RASFF e ha aiutato a rintracciare e rimuovere le uova interessate dal mercato.

Vi sono diverse tipologie di notifiche da poter inviare, così da differenziare le diverse segnalazioni e le cause delle stesse. Le notifiche possono riguardare: tipo di prodotto, quindi cibo, mangime o materiale a contatto con gli alimenti; tipo di notifiche, quindi avviso, informazioni, rifiuto dal confine; base della notifica, indicando il tipo di controllo, relazioni o indagini posti sulla base della notifica (controllo di frontiera; controllo sul mercato; controllo della società; reclamo del consumatore; intossicazione alimentare).

Ciò che emerge dal report pubblicato è che l’Italia nel 2017 ha avuto un livello di guardia molto alto da parte delle autorità italiane in materia di sicurezza alimentare. Infatti, l’Italia è stato il paese più attivo nel sistema RASFF, con più di 1400 notifiche e segnalazioni inviate alla Commissione europea.

In generale, il 46% delle notifiche RASFF riguardava controlli alle frontiere esterne dell’area economica europea, principalmente nei punti di entrata o di ispezione alle frontiere, mentre la più ampia categoria di notifiche riguarda i controlli ufficiali sul mercato interno.

Rispetto al 2016, il numero di notifiche di allerta, che denunciano il grave rischio per la salute a causa di prodotti che circolano sul mercato, è aumentato dell’11% con il 24% in più di notifiche trasmesse. Le cifre complessive presentano un aumento molto significativo del 28% delle notifiche originali, che rappresentano un nuovo caso segnalato su un rischio per la salute rilevato in una o più partite di un alimento o mangime, rispetto al 2016, con un aumento complessivo del 26% nel 2017.

Al via l’ultima fase dei negoziati per la Brexit

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Mercoledì 19 settembre, durante un summit speciale nell’ambito del Consiglio europeo in corso a Salisburgo, la Prima Ministra britannica, Theresa May, ha tenuto un discorso con l’intento di aggiornare i leader europei sullo stato delle trattative per la Brexit, segnando, secondo alcuni, l’inizio dell’ultima fase dei negoziati con l’Unione europea.

Le due parti, nonostante i vari mesi di negoziati, non hanno ancora raggiunto un’intesa sulle due questioni cruciali: il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord e le future relazioni commerciali con l’Unione europea. Tuttavia, la Prima Ministra May ha affermato che il Regno Unito non ha intenzione di prorogare i negoziati e dunque l’avvio della Brexit, previsto per il 29 marzo del prossimo anno e ha dichiarato che l’onere di portare a termine l’accordo è di tutti. Per ragioni tecniche tale accordo dovrà essere concluso entro la metà di novembre, in quanto alla fine del mese avrà luogo un vertice straordinario per ufficializzare l’accordo. Pertanto, i negoziatori, hanno a disposizione meramente altri due mesi per decidere se vi sarà un accordo o una Brexit “no deal”. “Riconosciamo tutti che il tempo è breve, ma estendere o ritardare questi negoziati non è un’opzione” ha dichiarato la May.

Relativamente alla prima questione cruciale nell’ambito dei negoziati, vale a dire il confine tra Irlanda ed Irlanda del Nord, è importante evidenziare che la frontiera irlandese è lunga circa 400 km e le problematiche da risolvere riguardano le persone e le merci che quotidianamente passano dalla Repubblica dell’Irlanda – Stato membro dell’UE – all’Irlanda del Nord, parte del Regno Unito. Si stima che circa un milione di persone viva nelle comunità di confine. Il rischio è attuare misure troppo restrittive o poco efficienti che potrebbero alimentare vecchie tensioni. A tal proposito le posizioni dei negoziatori europei risultano essere molto distanti da quelle dei negoziatori britannici: i primi propongono che l’Irlanda del Nord rimanga sia nel mercato comune europeo che nell’unione doganale e ciò avrebbe come conseguenza l’istituzione di una sorta di dogana tra Irlanda del Nord e la restante parte del Regno Unito, tuttavia ciò eviterebbe la ricostruzione di una frontiera tra Irlanda e Irlanda del Nord; “L’idea che dovrei approvare la separazione legale del Regno Unito in due territori doganali non è credibile” ha affermato Theresa May; i negoziatori britannici, infatti, affermano che una situazione di questo tipo violerebbe l’integrità territoriale del Regno Unito, pertanto propongono una serie di misure volte a ridurre al minimo i disagi posti in essere dalla creazione di una nuova frontiera. Relativamente alla questione delle future relazioni commerciali tra Unione europea e Regno Unito, vige ancora molta incertezza, causata soprattutto dalla mancanza di precedenti: i negoziatori europei propongono già da tempo un accordo commerciale di libero scambio sulla base di quelli stipulati recentemente con il Canada ed il Giappone; tuttavia, i Paesi che intrattengono dei legami commerciali più stretti con il Regno Unito, come Svezia, Paesi Bassi e Danimarca propongono un accordo che preveda una maggiore collaborazione; anche il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, predilige tale opzione.

Nel corso del suo breve discorso, Theresa May, ha insistito sulle proposte britanniche contenute nella piattaforma negoziale, varata in estate nell’ambito della riunione di governo di Chequers, definendole “serie” e difendendole dalle proposte di modifiche ribadite dai leader dell’Unione europea.Tali proposte a suo avviso “consentono di mantenere un commercio senza frizioni “e si pongono come il solo “piano credibile e negoziabile sul tavolo che rispetta il voto del popolo britannico e al tempo stesso non crea una frontiera chiusa tra Irlanda del Nord e Irlanda”. Inoltre, non ha aperto spiragli relativi all’ipotesi di un secondo referendum sulla Brexit, smentendo gli auspici fatti in alcune interviste televisive dai premier di Malta e Repubblica Ceca.

Il Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha dichiarato, in maniera poco ottimistica, che l’intesa risulta essere ancora lontana, mentre il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk ha affermato che le proposte britanniche devono essere “rielaborate ed ulteriormente negoziate” ed ha aggiunto che “vari scenari sono ancora possibili” a conferma del fatto che raggiungere un accordo non è ancora facile. La Cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha detto di sperare in una Brexit “che si svolga in una buona atmosfera, con grande rispetto tra le parti e con un accordo che renda possibile una cooperazione tra Ue e Regno Unito in settori come la sicurezza”.

In seguito al discorso della May, non si è aperto alcun dibattito, dato che la questione Brexit era l’ultimo tema inserito nell’agenda.

Relativamente ai prossimi sviluppi, al termine del Consiglio europeo ci si attende una dichiarazione congiunta di tutti gli Stati membri. I negoziati riapriranno il 3 ottobre, alla fine del congresso nazionale del Partito conservatore britannico, il partito della May. Entro il 18 ottobre, data in cui si riunirà nuovamente il Consiglio europeo, si auspica che i negoziatori abbiano trovato un accorto per tutte le questioni lasciate in sospeso. A fine novembre, nell’ambito della riunione straordinaria del Consiglio europeo vi sarà l’ufficializzazione degli accordi. Fino a novembre potrebbero mutare molte questioni ed il rischio è che, alla fine dei negoziati, non si raggiunga un accordo. Questo è considerato da tutti il peggior risultato possibile dei negoziati in quanto avrebbe delle conseguenze notevoli sull’economia e sulla burocrazia del Regno Unito nonché dei Paesi limitrofi. Tuttavia tale ipotesi, ad oggi, risulta essere ancora la meno probabile.

Francesca Scalpelli
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