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alicegrieco

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La fortuna dello Sposalizio della Vergine

Laura Picchio Lechi, storica dell’arte e archivista, ha realizzato un’acuta analisi dello “Sposalizio della Vergine” di Raffaello, sottolineando somiglianze e differenze con il quadro raffigurante il medesimo soggetto realizzato dal Perugino. Il volume “Lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, tra fortuna critica e documenti inediti”, pubblicato dalla casa editrice fiorentina Leo S. Olschki, ripercorre la creazione del mito raffaellesco, indaga il contesto intellettuale, politico e collezionistico. Lo “Sposalizio della Vergine” è una pala d’altare realizzata da Raffaello Sanzio, datato 1504 è conservato nella Pinacoteca di Brera a Milano, commissionato da Filippo Albizzini nel 1501 per la cappella dedicata a San Giuseppe e al Nome di Gesù. Firma e data vengono posti sulla sommità del tempio: Raphael Urbinas, MDIII. Posizione molto evidente che rivela il proprio compiacimento sia nei confronti del quadro, sia della propria patria. Ricordando la propria terra d’origine nell’iscrizione sul tempio – ricorda l’autrice – Raffaello manifesta l’attaccamento dalle proprie origini culturali proprio quando è in procinto di abbandonare l’Umbria.  L’opera rimanda alle antiche celebrazioni del 23 gennaio, data dello sposalizio della Vergine Maria e di San Giuseppe. La bellezza ideale emerge come amore per le architetture ordinate, è un modo per ricordare la struttura universale armonica e la perfezione divina. Non è un caso se la prima forma geometrica su cui cade l’occhio è il triangolo che sormonta la porta del tempio. Nella sua forma equilatera il triangolo simboleggia l’armonia e la proporzione ed esprime un senso di equilibrio dinamico tra le parti.

Come emerge dagli studi di Claudia La Malfa, dai carteggi di Giuseppe Lechi, Raffaello si fa portavoce di un linguaggio rivoluzionario ispirato all’antico. Per molti secoli lo stile delle sue opere ha costituito il fondamento stesso dell’idea di classicità.

Era la tavola di Raffaello divina, e non dipinta ma viva, e talmente ben fatta e colorita da lui, che fra le belle che egli dipinse mentre visse, ancora che tutte siano miracolose, ben poteva chiamarsi rara.

Secondo Giorgio Vasari, Raffaello raggiunse il canone della bellezza perfetta attraverso l’applicazione dei precetti che regolano la proporzione dei copri e dello scorcio in prospettiva ricavati dallo studio dell’arte classica. Le sue invenzioni sono apprezzate per la capacità di rappresentare il mondo reale nella dimensione dell’ideale. La sua grandezza risiede nella divina perfezione. Come emerge dalle “Vite” di Vasari, Raffaello incarnò gli ideali artistici e le tendenze della tradizione umanistica. L’Urbinate assimilò il mondo classico arrivando a una comprensione dell’antichità, difficilmente raggiunta da altri. L’artista è stato in grado di fondere la grazia del misticismo umbro con lo scandire plastico e spaziale fiorentino, che, in alcune circostanze, ricorda un po’ Piero della Francesca. 

Ricordiamo che studiando le fatiche de’ maestri vecchi e quelle de’ moderni, prese da tutti il meglio, e fattone raccolta, arricchì l’arte della pittura di quella intera perfezione che ebbero anticamente le figure d’Appello e di Zeusi. Inoltre, in Raffaello gli stessi soggetti sono strutturati in modo solido, inseriti in suggestivi paesaggi, pervasi da moti affettivi, da architetture perfette, da elaborazioni prospettiche che rimandano a Leonardo e a Bramante.

LEGGI L’ARTICOLO COMPLETO NELL’EDIZIONE MENSILE DI BOOKREPORTER, https://www.europeanaffairs.it/bookreporter/prodotto/bookreporter-gennaio-2023-copia/

Quanti colori vediamo? Ne vediamo tantissimi, ne discriminiamo solo una parte.

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Quanti sono i rossi? Vediamo 10 milioni di colori? Il giallo è felicità? Di che colore sono i sogni?
Tante volte ci capita di soffermarci sugli aspetti più inconsueti del colore, ad esempio quando in cucina ci domandiamo se la ricchezza dei colori del nostro piatto riuscirà a trasmetterne il sapore. Oppure quando nella vita di relazione ci chiediamo se ci sono tonalità più seducenti di altre. E a chi non è capitato di sognare e di chiedersi se il sogno era a colori o in bianco e nero. 

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Michela Murgia e Azar Nafisi

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Quello che non si può più fare nella aule si fa nel privato, viaggio nell’immaginario di Nabokov.

Michela Murgia dialoga con Azar Nafisi.

Azar Nafisi: «Nello scrivere “Le cose che non ho detto” volevo vedere se sarei stata in grado di scrivere senza menzionare la Repubblica Islamica, uno dei poteri occulti del regime è portare le persone a pensarsi come prede, funziona come il panopticon, l’arte e la letteratura, sottratti al controllo, diventano spazi franchi. Ogni regime ha un obiettivo: assumere il controllo delle parole e delle narrazioni.

L’Italia per me è la Repubblica dell’immaginazione, l’Italia mi ha accolta, mi ha fatto sentire a casa. L’Italia parla al mio cuore. Io ho sentito e provato questa libertà attraverso la letteratura, a tre anni e mezzo papà mi raccontava delle storie e lo faceva in modo democratico. Quindi sì, pur stando nella mia stanzetta in Iran, il mondo veniva a me. La letteratura per me è stata un modo per percepire e vedere due delle caratteristiche umane del mondo:

Curiosità, perché è noioso pontificare su se stessi. La letteratura e l’arte devono essere fatti da altri, Nabokov disse che la curiosità insubordinazione nella sua forma più pura, originaria.

Empatia, non possiamo essere ovunque nel mondo, ma possiamo leggere di quello che accade. Il grande scrittore è colui che esprime la sua vita anche nel personaggio cattivo.

Noi sappiamo come nella Repubblica Islamica le carceri si sono riempite di artisti, dobbiamo chiederci, che potere hanno? L’unico potere è l’arte, le parole. Cos’è che ha spaventato tanto l’ayatollah? Perchè ha paura della penna? 

È qui che risiede il potere sovversivo dell’arte.

Donna, vita, libertà!

Quando il 16 settembre scorso è stata uccisa Amini abbiamo iniziato ad osservare l’Iran con occhi diversi, forse ancora più pregiudizievoli, come una pentola da cui è saltato un coperchio, naturalmente con i nostri filtri, ma man mano che il tempo passava la complessità ha iniziato a far capolino, nostro malgrado. Nel libro “Le cose che non ho detto” Nafisi parla dell’Iran, affermando che i bersagli del regime religioso non erano solo politici, ma qualunque cosa o persona promuovesse la diversità e l’individualità delle voci, ovvero le donne, la cultura e le minoranza.» 

«Ma perchè le donne sono un innesco di ribellione così efficace?» chiede Michela Murgia

«La mentalità iraniana e radicale non tollera le differenze, chi si esprime in modo diverso. In ogni Paese, le donne rappresentano la metà della popolazione, in Iran la religione le ha rese invisibili, parlando della minoranza e della cultura, questi non sono stati i primi obiettivi, i primi sono state proprio le donne. 

Il 9 marzo 1979 l’ayatollah ha obbligato le donne a indossare il velo, in migliaia si sono riversate in massa nelle strade dicendo che la libertà apparteneva al mondo nella sua totalità, come reazione da parte delle forze armate del regime ci sono stati diversi attacchi: con l’acido per sfigurarle, con forbici e coltelli per ferirle e annientarle. Ma le donne non si sono arrese, da sempre sono un gruppo privato di diritti, per questo sono sempre in prima linea, perchè sono le più oppresse. La lotta che c’è ora in Iran non è politica, ma esistenziale, quando ti viene dette che tu non sei quello che credi di essere, quando vogliono farti diventare un prodotto del regime, l’unica soluzione, seppur rischiosa, è reagire. La creazione di prodotti del regime era l’unica strada possibile da intraprendere per appiattire le personalità, per creare uniformità e imporsi come totalitarismo. Ma le donne hanno resistito, nessuno ha il diritto di sindacare come dobbiamo essere, io, ad esempio, ho sempre portato il trucco.» 

“Le donne sono diventate creature pericolose, ma è molto bello essere pericolose, non credete?”

«Donna vita libertà mi ha impressionata, l’ho sentita anche detta dagli uomini iraniani, questa rivoluzione è di tutti, la Repubblica iraniana reprime tutti. È impressionante sentire il genere maschile usare la parola donna come grido di libertà. Qual è il rapporto tra uomini liberi e regime?» chiede Michela Murgia.

«Uomini e donne insieme conquisteranno il successo, le donne non riusciranno a realizzarla senza il loro aiuto, c’erano degli uomini che indossavano l’hijab e donne che lo toglievano. Bisogna ricordarsi che i diritti delle donne sono diritti umani, ogni conquista rappresenta una conquista nei diritti di tutti. Io adoro quello slogan, ha un significato che va oltre la politica, riguarda il diritto di esistere a modo proprio, avendo una propria identità, che il regime vuole annullare. Stamattina è stato giustiziato un altro dimostrante, ma le donne trovano sempre dei modo creativi per opporsi alla violenza che cerca di zittirli. 

Sa cosa rende le donne iraniane così potenti? Essere unite. Tenere le donne nascosta è un modo per garantire la sopravvivenza del regime, ma ora è il regime ad avere paura, per sopravvivere può solo uscire.»

«Nabokov scrive che la fantasia è fertile solo se futile. Lui non si schierò mai in politica, quando la prese la prese per battaglie conservatrici, Marcello Fois mi ha detto che l’abitudine di scrivere saggi di intervento politico è una sorta di adolescenza letteraria di scrittori che pensano di cambiare il mondo presente. La fiction è più efficace?» chiede Michela Murgia. 

«Tutti noi possiamo raccontare e descrivere storie, la letteratura, il romanzo, nello specifico, con la sua struttura democratica è ciò che incute timore. Un romanzo esprime una mentalità che poi porta all’elezione di certi politici.

Volevo raccontarvi un aneddoto riguardo una mia studentessa: ovunque sono andata ho raccontato questa storia, lo faccio perchè lei è morta il suo nome è Racid, frequentava le mie lezioni di “Novel” che tenevo nel salotto della mia abitazione. Racid era una musulmana praticante, veniva da una famiglia molto povera, il padre era morto e la madre era una colf, si occupava delle case delle famiglie più ricche. Nonostante questo, spiccava per la sua lintelligenza, mi raccontò di essere incantata dal mondo di Henry James.

Ora Racid non c’è più, un’altra mia studentessa mi ha raccontato di aver condiviso una cella di un lurido carcere con lei.

Pensando a queste carcere, l’idea di queste due ragazze che parlavano di letteratura e ridevano, dopo ho saputo che è stata giustiziata, ho pensato che James non l’ha salvata, ma la letteratura è stata qualcosa a cui si è potuta aggrappare in punto di morte. La letteratura non fa vincere le guerra, ma quando si è persa ogni speranza la letteratura dona speranza, nelle vette che può raggiungere l’umanità, nei suoi successi, è per questo che è così potente e importante. 

Io credo che le persone che vivono nei paesi democratici debbano leggere ciò che viene prodotto nel resto del mondo. Ogni volta che ho parlato di libertà per le donne in Iran qualcuno ha sempre detto “che sono occidentalizzata, perchè questo fa parte della nostra cultura”, quando qualcuno mi accusa di questo, questo mi ha fatto molto arrabbiare. 

L’Iran è una civiltà millenaria, nel XIX secolo anche noi ci siamo battiti per i diritti per le donne, nel 1979 c’erano due ministri donne. In un certo senso si pensa che queste critiche ci schiacciano, i diritti umani sono diritti universali non appartengono all’occidente, lo trovo un atteggiamento paternalista dal punto di vista culturale.

È come se io dicessi anche il fascismo e il comunismo nelle forme più efferate sono la loro cultura, ma la cultura occidentale non si riduce a questo, così come quella orientale. Voi avete il diritto di combattere il fascismo, ed è il diritto che rivendichiamo anche noi, il diritto di opporci a manifestazioni estreme. La libertà è globale, ma come dicevo io non ho paura delle critiche.»

La rivoluzione che sta avvenendo in Iran non è solo femminile, come ha detto Michela Murgia, è genderless.

Pier Paolo Pasolini un dantista eretico a Più libri più liberi.

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“Dante ha pagato con il rischio della condanna all’Inquisizione e alla morte la dirompente libertà del suo pensiero; Pasolini con il proprio assassinio nel 1975.”

Massimo Desideri, già docente nei licei, durante la prima giornata di Più libri più liberi, conduce un’attenta riflessione sul rapporto tra Dante e Pasolini, come si vedrà il dantismo pasoliniano è il più originale e fedele di tutto il Novecento.

Come emerge dagli studi di Federico Bellini e Massimo Desideri, credo si possa affermare con certezza che Dante è stato uno dei riferimenti centrali per la poetica e per l’intero corpus delle opere di Pier Paolo Pasolini. Ovviamente non parlo di uno scontato o tangenziale riflesso dell’opera dantesca nel lavoro del poeta friulano, cosa che suppongo riguardi tutti gli autori di lingua italiana successivi a Dante, quanto al legame praticamente inscindibile tra, almeno, la Commedia e l’opera pasoliniana. Ne è una prova, se non altro, l’arco temporale in cui si inserisce il tentativo di Pasolini di riscrivere una propria versione della Commedia, da La Mortaccia, scritto del 1959, fino a La Divina Mimesis, pubblicato poco prima della morte, nel 1975. 

Ma come mai il Professor Desideri definisce Pasolini eretico? Eretico per quella che è la nostra visione della vita, ma, soprattutto, della fede. Pasolini si è sempre professato un cristiano, non un cattolico, soprattutto non in senso fideistico, ma in senso umano. Pasolini rivaluta la parola umanità, la collega agli ultimi, agli emarginati, ai reietti, ai servi, per citare La rabbia del poeta apparso sul numero 38 della rivista “Vie Nuove”: 

Uomini umili,
vestiti di stracci o di abiti fatti in serie,
miseri, che vanno e vengono per strade
rigurgitanti e squallide, che passono
ore e ore a un lavoro senza speranza,
che si riuniscono umilmente in stadi
o in osterie, in casupole miserabili o
in tragici grattacieli: questi uomini dai
volti uguali a quelli dei morti, senza
connotati e senza luce se non quella
della vita, questi sono i servi.

Eretico dunque, perchè se in Dante i primi canti sono dedicati allo smarrimento, alla paura provata alla visione delle tre fiere: leone, lupa e lonza, in Pasolini i primi canti sono dedicati al degrado, alla povertà. La protagonista de La Mortaccia, una prostituta, si perde nella degradata periferia romana vicino Rebibbia, l’inferno non è una semplice visione, l’inferno è tra noi, nella periferia di Roma, nella mancanza di umanità. Questa povera ragazza non ha altre possibilità, si perde, esce dalla casa del suo protettore, luogo è buio e oscuro, perde l’orientamento, trova un piccolo monte, simbolo del colle dantesco, ma, a differenza di Dante, non ha una guida, non sa dove andare. Dopo essere stata intimorita da tre canacci neri, evocativi tanto delle fiere, quanto di Cerbero, ha una visione: una figura salvifica le appare per sottrarla da quel buio: Dante. Una sottrazione fittizia, in quanto la porta verso una grande costruzione, il carcere di Rebibbia, qui Pasolini interrompe l’opera. Il lettore si trova davanti ad una ragazza angosciata, consapevole del suo destino: sa di entrare, ma sa che non potrà uscire. Non c’è palingenesi o possibilità di riscatto, non c’è possibilità di un paradiso, di un riscatto. In Pasolini i “paradisi” sono fittizi, illusori, tra questi inserirà anche il consumismo: corrente più corruttrice e pericolosa del classico fascismo, rende il proletariato borghese. 

La Mortaccia finisce qui, ma non il suo rapporto con Dante. Il dantismo pasoliniano continua, Desideri indaga non solo l’ambito letterario, ma anche quello cinematografico. Come emerge da alcuni appunti: nella seconda bolgia di Petrolio, il Modello rappresenta la nuova criminalità con le sue nuove leggi e le sue nuove caratteristiche, qui Pasolini, ancora una volta, si rivolge a Dante per descrivere questi nuovi esseri disumani che hanno perso anche le apparenze del ben dell’intelletto, sono pure e semplici forme della Matta Bestialità. 

Massimo De Vico Fallani presenta a Roma la sua opera: Le cancellate romane Sette-Ottocentesche. 

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Lo scorso 24 novembre, Massimo De Vico Fallani ha presentato “Le cancellate romane Sette-Ottocentesche” all’interno dell’Archivio Storico Capitolino, una scelta tutt’altro che casuale.

Massimo De Vico Fallani, un nome che è un’autorità nell’ambito architettonico e paesaggistico. È stato funzionario architetto della Soprintendenza ai Monumenti di Firenze e Pistoia (1980-1986) e di quella Archeologica di Roma (1986-2008) con l’incarico di direttore dei parchi e giardini. Coordina il Corso di Restauro di Parchi e Giardini storici della Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio della ‘Sapienza,’ Università di Roma. È autore di diversi progetti di restauro di giardini storici e sistemazione di parchi archeologici, l’ultima “fatica letteraria” lo ri-porta a Roma, in particolar modo si sofferma sullo studio delle cancellate, dei portoni, dei cancelli singoli o multipli. 

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Non c’è trattatistica o metodo inerente allo studio delle cancellate, non in Italia, De Vico Fallani è un vero e proprio pioniere. Nella sua opera monumentale, frutto di un lavoro durato anni, il nostro Autore ha consultato archivi di Stato, biblioteche, ha approfondito la conoscenza di un tipo di manufatto artistico, di un tipo di artigianato che in Italia, a differenza di altri Paesi, non è adeguatamente preso in considerazione dalla letteratura professionale e dall’opinione pubblica. Dunque, fulcro dell’opera sono le cancellate romane, in particolar modo quelle settecentesche e ottocentesche. In realtà, l’Autore pone l’attenzione su cinque epoche: Medioevo, Rinascimento, ‘600 (ornato da cancellate gentilizie), ‘700 e ‘800 (animato da cancellate decorative). 

“Le cancellate romane” si presenta come un libro particolare, all’interno non è accademico, non è esclusivo, è un libro che nasce da una curiosità. A proposito di ciò è interessante partire da una recensione asprissima di Mario Praz nei confronti del Manierismo, uscì su “Il Tempo”. Praz vedeva la sua Roma come una città ancora affascinante, ma di fatto degradate, decaduta. Del resto credeva che l’arte, non fosse veramente arte, ma solo la documentazione di un’epoca. 

Quanto detto da Praz è tanto illuminante, quanto criticabile, basti solo chiudere gli occhi e tornare indietro nel tempo, in particolar modo al pontificato di Alessandro VII: il Pontefice amava lo scintillio dell’acqua, amava osservarla dalle spallette sul Ponte di Castel Sant’Angelo (spallette che crollarono nel 1450, anno del Giubileo cristiano a causa di un numero esorbitante di persone). Per evitare un’altra tragedia chiese a Bernini di ampliare la sezione delle spallette, di decorarle, la Musa ispiratrice del noto architetto fu la maglia delle reti da pesca. Dio viene riscoperto partendo da un elemento che, solitamente, si dà per scontato: la grata di ferro. Il ferro, materiale duro, violento, diventa malleabile, si lascia plasmare, si trasforma in un filo con il quale ricamare la città. Come il baco da seta ha un capo da tirare per svolgerlo e dipanarlo, così il libro ha un filo dorato che bisogna seguire per immergersi nell’evoluzione delle cancellate, un itinerario per percorrere anche l’evoluzione del gusto artistico

In conclusione, De Vico Fallani pone l’accento su una specifica tipologia di portoni: l’analisi critica di circa 17.0 cancellate ha portato a individuare il particolare valore e l’identità figurativa di questa produzione artistica. Soffermandosi sulle origini, lo sviluppo, i rapporti con paesi esteri quali Francia e Gran Bretagna; le innovazioni tecnologiche e produttive legate alle nascenti industrie siderurgiche e metallurgiche hanno portato allo sviluppo di un nuovo artigiano: il fabbro ferraio, a lui il merito della realizzazione della cancellate romane.

Più libri più liberi: perdersi per ritrovarsi.

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Più libri più liberi, la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria, promossa e organizzata dall’Associazione Italiana editori torna alla Nuvola dell’Eur dal 7 all’11 dicembre. Chiara Valerio e Silvia Barbagallo dirigono la nuova edizione, come commenta il presidente Riccardo Franco Levi “con l’arrivo di Chiara Valerio il gruppo di lavoro di Più libri più liberi si arricchisce di una nuova presenza femminile – commenta Annamaria Malato, presidente della Fiera – in linea con lo straordinario lavoro che Silvia Barbagallo ha svolto in questi anni e che tanto ha contribuito alla crescita della nostra manifestazione. Siamo certi che Chiara, nei prossimi anni, saprà disegnare i contenuti culturali della Fiera dando continuità alla costante ricerca di innovazione che caratterizza il continuo mutamento del nostro mondo”.

Più libri più liberi pone lo spettatore, il lettore, l’autore, davanti ad un telaio. Telaio attraverso cui si tessono fili. Fili rossi del destino. Fili di lana che avvolgono l’atmosfera con il loro calore. Sono fili di seta, come il mare di Lorenzo Mattotti, che, anche quest’anno, si occupa della grafica dell’evento, sui quali si galleggia. Navighiamo o semplicemente galleggiamo? É realtà o invenzione? Ci siamo resi conto che questo è ciò che è stato il Mediterraneo per secoli. Il Mare è un simbolo fondamentale dell’immaginario collettivo. Racchiude un insieme di immagini archetipiche che riviviamo spesso nei nostri sogni, paesaggio di storie e avventure dai profondi significati simbolici

“L’acqua, il mare, è il simbolo dell’inconscio per eccellenza, con tutti i contenuti rappresentati da tutti gli esseri che vivono nelle sue profondità. Noi tutti abbiamo navigato nel mare uterino delle nostre madri e l’acqua ci ricollega a uno stato in cui non ci sentivamo ancora separati dal grande universo. (Norma Bärgetzi Horisberger)”

L’intersezione razionale e occasionale di linguaggio ed emozione porta alla luce la ricchezza, la conoscenza, la religione e l’ateismo, la letteratura e la scienza. La fiera ha un obiettivo: la perdita. Perdersi per ritrovarsi. Perdersi per conoscersi. Perdersi per andare verso una morbida luce dorata, luce che risuona attraverso molti oggetti e luoghi senza identità. Dunque, il Mediterraneo funge da metafora di tutti i mari e di tutte le tempeste, da qui è nato il tema del 2022.

Tra gli ospiti annunciati, Alessandro Baricco, Michela Murgia, Pilar del Río Gonçalves (presente in fiera per un ricordo del Premio Nobel Josè Saramago nel centenario della nascita), Paul B. Preciado, Erling Kagge, Mohamed Mbougar Sarr(Prix Gouncourt 2021), Licia Troisi, Marco Malvaldi, Djarah Kan, Pietro Turano, Zerocalcare, Marcello Fois, Carlotta Vagnoli e molti altri. E tra gli appuntamenti più attesi quello con l’iraniana Azar Nafisi.

Incandescente di Lucrezia De Lellis

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La poesia attraversa la distanza tra significati e significanti. Ha il compito di dissolvere, dal participio passato latino DIS-SOLUTUS: disfare, separando e disordinando le parti che compongono un tutto o mandando questo in frantumi. Le metafore, incandescenti, infuocate, ripristinano più veri e più lucenti i legami tra le parole, e delle parole con il nostro personale vissuto. Essa germoglia tra le macerie dell’anima dopo che, imprudente, si sporge a osservare la profondità del divario tra sé e il mondo. All’origine non vi è mai una pace interiore ma una vertigine di fronte al paradosso che fonda il senso.

Edoardo Buroni affermava che nella poesia e nell’essere poeti si individuano spunti semantici, enciclopedici o metalinguistici molto interessanti, che sovente si intersecano con altri temi cari all’autrice quali la dimensione spirituale, l’amore, la sofferenza, la carnalità, la pazzia e la vita. Sono tentativi di definizione evocativi, icastici, a volte ben circoscritti, a volte aperti a ulteriori pensieri non delimitabili in un orizzonte chiaramente definito; lo si può vedere già a proposito della poesia stessa. 

É quello che emerge in “Incadescente”, raccolta poetica di Lucrezia De Lellis, in grado di trasportare il lettore all’interno di una magia. La magia, secondo François Truffaut, non è quella dell’ipnologo tradizionalmente inteso, il quale è supposto a cercare, in vari modi, di veicolare il proprio ‘senso’ nella mente altrui, ma è il contrario! La magia non è altro che il sapere aprire l’accesso al ‘non-senso’ e a equipaggiare lo spettatore, a godere di esso invece di soffrirne. Scrivere versi non è dunque qualcosa che astrae dal mondo, ma qualcosa che conduce all’interno di una duplice dimensione: essere e non-essere, reale e non-reale.

“Scopro nuovi modi

Di essere me stessa,

Non trovo il fondo

Di questa mia essenza.”

Basta chiudere gli occhi, immergersi nelle parole della poetessa, abbandonarsi al proprio immaginario, al proprio reale. Lucrezia De Lellis regale un viaggio introspettivo, un viaggio di comprensione e accettazione di sé, del proprio essere, del proprio non-essere. Alda Merini diceva che la poesia è vita e la vita è poesia. Bisogna soprattutto vivere, stare fra la gente, avere contatti con le persone che ci interessano, magari andare a vedere un buon film altrimenti si parla solo di sé stessi. La prima condizione della poesia è la libertà, la gioia. La poesia è gioia, è transfert; non si può fare poesia in un luogo ristretto della dimora del proprio essere. La poesia è totale. 

Totale.

É questa la parola che descrive “Incandescente”.

Una poesia totale, matura, incredibilmente vera.

Il poeta altro non è che un uomo isola che viaggia tra sogno e realtà, che vive in quegli spazi fantastici dell’immaginario. La verità che emerge dai versi è una verità cruda, memorabile, talvolta sofferente, ma che si racconta come storia, come aneddoto, come appiglio alla vita, alla sopravvivenza. Il poeta è un buon giocatore, le sue bische clandestine sono le sue parole. È un giocatore “truccato”, fuorilegge della realtà.

“Cado negli 
Odori 
Dell’universo

Livido
Lo spessore 
Del silenzio 

Lascio sciogliere 
In questo buio 

Corpo senza scheletro, 
Cedo le mie ossa.”

Sognavamo al cinema

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È il 1976 Vania Protti e Manfredi Traxler davano vita ad una stagione unica: quella dell’Academy Pictures, una stagione che permette di “essere nel cinema”, di vivere il cinema, grazie alla distribuzione cinematografica di film d’autore. 

Il 5 ottobre 2022, presso la Casa del Cinema di Roma, è stato presentato il volume “Sognavamo al cinema”, di Vania Protti Traxler. In una lunga intervista Vania Traxler racconta la sua brillante carriera di distributrice cinematografica: dalle origini – il nonno conobbe i fratelli Lumière – ai film e ai registi distribuiti. Tra gli altri, Emir Kusturica, Rainer W. Fassbinder, Wim Wenders, Peter Greenaway, Spike Lee, Eric Rohmer, Agnès Varda, Mike Newell, Baz Luhrmann, Peter Jackson, Leos Carax: con i Traxler il cinema d’autore è diventato mainstream. Per l’intervista ha scelto 50 film, tra i più importanti e indimenticabili, per chi li ha visti e per chi lo farà: come dice lei, “per sognare ancora”. I coniugi Traxler fecero conoscere al grande pubblico alcuni dei più grandi registi contemporanei di grande livello come Kusturica, Greenaway, Wenders, Rohmer, Jarmusch, Egoyan, Almodóvar, Kieslowski, Lee, Ford, Solondz e tanti altri. La scelta dei film avveniva tramite l’autenticità e il valore che i Traxler coglievano dalla visione del prodotto, non era mai una scelta dettata dal calcolo. Promuovevano la pellicola fidelizzando il pubblico e attivando un rapporto di fiducia con gli esercenti che grazie a questo, davano spazio anche ai film più deboli del loro listino.

“Sono convinta che l’emozione procurata dal primo impatto con un film sia la cosa più importante. Come continuo a sostenere che il più bel film della storia del cinema sia Via col vento. Non ci sono santi.”

“La storia comincia nel 1904 quando mio nonno di Libiola, un piccolo paese vicino Mantova, insieme a un gruppo di ragazzi all’avanguardia mise su un cinema improvvisato: c’era chi stampava le locandine e chi suonava il piano perché allora i film erano muti”. All’inizio Vania non segue però le orme della sua famiglia e si mette a lavorare in una boutique, ma il cinema le “ribolliva nel sangue” Tanti gli aneddoti presenti nel libro. Uno su tutti: “A Venezia comprai A single man di Tom Ford. L’ufficio stampa mi ossessionava con le richieste del regista. Mi dissero che voleva tutto bianco. Per cui presi tovaglie bianche, fiori bianchi, pesce bianco. Lui mi chiese perché fosse tutto bianco. E io esplicitai i diktat che avevo ricevuto. Mi rispose: ma scusa io sono texano mangio le fiorentine anche di tre chili”.

Intervento di Marco Tullio Giordana: l’Academy ha avuto un ruolo di cerniera, ha portato nel circuito del cinema film indipendenti, facendo in modo che questi ultimi potessero avere un grande successo. La scoperta di un film diventava condivisa.

Intervento di Vania Protti, autrice del libro: l’idea di scrivere un libro che raccogliesse la storia di una famiglia meravigliosa le è stata data dal nipote, Filippo. Filippo le chiese di combinare la passione del cinema e quella della cucina nel libro. Dunque, un viaggio nelle generazioni attoriali del cinema, un viaggio all’interno di ricette casalinghe, un viaggio che avvolge il lettore e lo catapulta altrove.

Intervento di Francesca Boschiero: l’obiettivo era quello di portare alla luce una storia che non si rivolgeva solo al passato, ma anche al futuro. Ci sono film che non hanno tempo, antichi, ma attuali. Film che rapiscono le nuove generazioni e consentono loro di appassionarsi a questo mondo.

Intervento di Giovanni Gifuni: ci siamo tuffati nella storia di Vania, nella sua memoria, nella sua famiglia. Ci siamo nutriti di aneddoti, di risate, di uscite. È un libro godibile per tutti. 

Attraverso questo libro si capisce il significato del cinema.

Articolo scritto da Alice Grieco e Anna Tulimieri

“Ad una voce”, tra Purgatorio e Paradiso.

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Ilaria Gallinaro mette su carta la “voce”; la “voce” di cui si occupano questi saggi è quella di Dante, intesa come spia autobiografica o metaletteraria nascosta dietro le voci dei suoi personaggi, soprattutto quella di Pia e Piccarda: la prima per il suo rapido cenno alla fatica del viaggio, che è anche viaggio di scrittore e di scrittura; la seconda per l’allusione al concetto del voto, che non è solo voto religioso, ma anche promessa, sfida, sacrificio, per raggiungere il compimento della propria opera.

Percorrere i sentieri del mondo poetico di Dante è sempre un’avventura seducente, affascinante, specialmente se questo mondo è quello della sua Commedia. Il lettore si trova infatti davanti personaggi, paesaggi, situazioni, dialoghi, che nel loro variare, catturano la sua attenzione, parlano alla sua ragione, alla sua fantasia e soprattutto al suo cuore; e il poeta deve soprattutto parlare al cuore del lettore con cui deve dialogare per suscitare in lui sentimenti e, possibilmente, creare sintonia di affetti oltre che di idee. In questo grandioso affresco della Commedia, realizzato da Ilaria Gallinaro, emergono due personaggi femminili: Pia de Tolomei e Piccarda Donati.

Come emerge dagli studi condotti da Giuseppe Ledda, si tratta di due figure femminili che Dante ha posto sul suo cammino, quasi come un preludio, un’ouverture di una grande sinfonia poetica dove le note non sono segni musicali, ma parole cariche di armonia atte a suscitare idee, immagini e sentimenti nel cuore del lettore. Pia fu una nobile donna della famiglia senese dei Tolomei andata in sposa a un signore guelfo del castello maremmano della Pietra, podestà di Volterra, Nello dei Pannocchieschi definito come “bello e savio cavaliere”, ma altrettanto “vile uomo e poco leale.” 

La figura di Pia appare alla fine del Canto V del Purgatorio, dove si trovano le anime di coloro che morirono di morte violenta ed è la prima donna che Dante incontra nel Purgatorio. 

“Deh, quando tu sarai tornato al mondo, 
e riposato della lunga via 
seguitò il terzo spirito al secondo, 
ricorditi di me, che son la Pia”

Come ricorda Sermonti, la sua è un’apparizione molto breve, ma di forte intensità, in quanto prega Dante di ricordarsi di pregare per la sua anima una volta arrivato in Terra e riassume in questo piccolo discorso la sua tragica sorte, ossia indica il luogo di nascita e di morte, conosciuti da chi nell’atto di sposarla le fece infilare l’anello nuziale al dito. Pia ricorda solamente l’amore verso colui che ha sposato e il momento delle nozze ci indica l’amore verso il marito, anche se l’ha uccisa. L’emozione che trasmettono le sue parole brevi è il riflesso della violenza patita, a causa della quale essa riposa nell’eternità della morte. La presenza di Pia nell’antipurgatorio, tra le anime pentitesi in fin di vita, giustifica forse l’ipotesi della sua infedeltà coniugale. Se anche fosse accaduta, Pia si sarebbe pentita all’ultimo momento. Pia con le sue dolci parole esprime la preoccupazione per la fatica di Dante nello scalare la montagna del Purgatorio ed è il primo personaggio di tutto il poema che mostra affetto per la condizione di Dante, in quanto uomo vivo in un mondo ultraterreno “Deh, quando tu sarai tornato al mondo, e riposato della lunga via.” 

Come ha notato la Gallinaro, attraverso gli studi della Chiavacci Leonardi, la vicenda di Pia rappresenta il momento fondamentale della fine della vita di ogni cristiano: il distacco, sempre terribile, dalla vita; il pentimento e il perdono, dato a chi ha fatto del male e ricevuto per il pentimento stesso.

Piccarda, figura dominante del Canto III del Paradiso. A causa della trasfigurazione celeste della fisionomia delle anime, Dante non riconosce subito Piccarda, che gli si mostra nella dimensione mistica e corale della vita terrena come una figura trasparente. Con la sua disponibilità al colloquio con Dante, la Donati diventa la concreta realtà di quella carità che è l’essenza del Paradiso. Essa diventa l’emblema dell’amore verso il prossimo e verso Dio nel quale solamente si può godere la pace e la felicità piena, quasi come immersi in un naufragio di beatitudine immensa. Per Dante, Piccarda è bellissima, così tanto da non averla riconosciuta all’istante e si scusa in quanto non fu a “rimembrar festino”, perché le anime assumono un aspetto diverso da quello che avevano in vita. 

“E io all’ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza‟ mi, e cominciai, 
quasi com‟uom cui troppa voglia smaga”

Piccarda risponde al primo dubbio di Dante con occhi sorridenti, che è la condizione dei beati e gli spiega la gerarchia di beatitudine del Paradiso. Non esiste rammarico nelle anime beate siccome la parte essenziale della loro beatitudine è la concordanza perfetta della volontà loro e divina. Nel linguaggio usato da Piccarda si fonde la dottrina teologica e l’espressione dei sentimenti e dell’ardore che le anime beate esprimono, evidente nelle parole come: affetti, infiammati, letizian, carità, piace,’nvoglia. In seguito, Dante vuole conoscere la vita privata di Piccarda. La sua risposta è l’esempio della differenza tra la narrazione della vita dei beati, dei dannati e delle anime purganti. L’esperienza terrena viene collocata nella prospettiva dell’eternità e i momenti più ardenti vengono osservati con distanza. Piccarda racconta a Dante di essere stata in vita una suora ed è posta sul grado più basso di beatitudine assieme alle altre anime, perché i loro voti non furono adempiuti. 

Dunque, non solo memoria e rielaborazione di ciò che la precede, Piccarda è anche prefigurazione di ciò a cui il viaggio della Commedia tende. La domanda che Dante pone a Forese Donati, nel canto XXIV del Purgatorio “Ma dimmi, se tu sai, dov’è Piccarda”, potrebbe apparire pleonastica, perché la donna viene, comunque, rievocata nel cielo della Luna, ma la sua eco giunge fino alla rosa dei beati, fino all’ultimo sorriso di Beatrice. 

Proprio in questa Beata visio, costellata prettamente di figure femminili, Dante incontra le due donne che arricchiscono ancor di più il suo viaggio. Attraverso queste l pensiero politico-ecclesiale dantesco si consolida di ulteriori convinzioni, relativamente alla necessità di una totale rigenerazione del genere umano e al compito, che in tal senso è affidato alla parola stessa del poeta, di preannunciare i tempi e i modi d’una nuovissima età cristiana. 

“Ad una voce” cantano le anime appena giunte sulla spiaggia del Purgatorio. “Ad una voce” con Dante parlano, se le si ascolta attraverso i molteplici echi che contengono la lunga storia di Piccarda e il brevissimo intervento di Pia. Un unisono significativo nel grande coro del poema, dove le voci si inseguono e si rispondono, disegnando consonanze e dissonanze.

La scienza come dovere civile. Due scritti di Angelo Messedaglia.

AUTORI/CULTURA by

La straordinaria attualità di Angelo Messedaglia risiede nella sua apparente complessità, nel suo essere a un tempo cielo e terra, razionalità scientifica, senso della realtà e aspirazione all’interesse generale. Un’epistemologia, capace a un tempo di scongiurare irrealistici salti in avanti – conseguenza inevitabile di approcci esclusivamente teorici – e inconcludenti analisi meramente pratiche, orientata e subordinata al bene civile e collettivo del proprio Paese. E questo bisogno, più di ogni altro, giustifica ad abundatiam la pubblicazione del presente lavoro.

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Economista, statistico, parlamentare, eruditissimo uomo di scienza, nativo di Villafranca Veronese, con la sua vita e le sue opere lasciò una traccia profondissima nella storia italiana. Autorità indiscussa e indiscutibile in Italia e all’estero ai suoi tempi, unanimemente ritenuto il fondatore della scienza statistica accademica in Italia, ancor oggi si erge grande tra i grandi, per un insuperato insegnamento metodologico ed epistemologico applicato all’economia. Primo, autentico ed esemplare sostenitore dell’utilizzo del metodo matematico alle scienze sociali, ebbe tuttavia chiarissimi i limiti, oltre che i pregi, di una teoria economica espressa in formule matematiche. Infatti, mentre già nella prima metà del XIX secolo dimostrò che il metodo matematico avrebbe consentito all’economia di conseguire risultati insperati, simultaneamente insegnò che l’estensione acritica di quest’ultimo alla descrizione di ogni fenomeno, sarebbe stata la negazione stessa del valore scientifico della dismal science. Quanto sia ancor oggi tragicamente attuale questo insegnamento – il richiamo alla necessità di un confronto permanente tra i modelli teorici e la realtà effettiva dei fenomeni economici, in cui alla fine è la teoria a doversi conformare ai fatti e non il contrario – è sotto gli occhi di tutti. Anche in virtù del suo approccio globale e sovranazionale alla ricerca scientifica, il primato della sua metodologia fu riconosciuto universalmente e gli guadagnò fama e riconoscimenti ben oltre i confini nazionali. Notissimo tra i maggiori economisti del tempo, ossequiato come studioso, fu chiamato a ricoprire prestigiosi incarichi in ognuno degli ambiti in cui operò, alla luce di un prestigio internazionale espresso dai più illustri tra i suoi colleghi europei, contemporanei e postumi. Tutto ciò ricordato – nonostante quindi l’importanza straordinaria del suo apporto teorico – in realtà ciò che conferisce grandezza, originalità e sempiterna memoria alla sua opera di studioso è innanzi tutto la sua concezione politica e civile. Infatti, per Messedaglia – nella vita e nelle opere – non esiste una scienza puramente astratta e teorica, tantomeno se si discute di economia. La vera scienza è solo ciò che contribuisce al miglioramento concreto della vita delle persone e della società legittimamente organizzata, e chi vuole essere un buono scienziato deve sapere e deve ricordare di essere prima di ogni altra cosa un buon cittadino: «la scienza non è soltanto il vostro compito professionale; essa è altresi il debito vostro di patria». L’originalità, la rilevanza, l’attualità di questa visione etica e civile del lavoro dello scienziato giustificano certo, ma – crediamo – rendono urgente la riproposizione, a oltre duecento anni dalla nascita, dell’esempio di questo grande studioso, parlamentare, Presidente dei Lincei e gloria della cultura italiana, anche attraverso la pubblicazione di alcune – introvabili – tra le sue opere più significative.

Considerato uno dei padri della metodologia statistica in Italia, Messedaglia si oppose al prevalente indirizzo deduttivo nella scienza economica, invitando a procedere, secondo lo specimen galileiano, con il metodo dell’osservazione, elaborando i fatti per preparare con essi i fondamenti delle teorie. Avversario del meccanicismo e dell’evoluzionismo di Buckle e di  Darwin, chiarì il significato della regola in base alla quale i fenomeni statistico-demografici o demologici si ripetevano, scoprendo da un lato l’esistenza di un “ordine” nell’insorgere dei fenomeni e dall’altro che la scansione ripetitiva (o ricorrente) degli accadimenti era riferibile alla collettività indistinta, non all’individuo, perché l’individuo, anzi, per meglio dire, l’uomo, nella singolarità del suo essere, conservava la libertà e la responsabilità dell’agire. Lo studio del metodo come mezzo di progresso delle scienze sociali rappresentò uno dei temi centrali della sua attività scientifica. Seguace del positivismo come metodo di ricerca, non come sistema filosofico, Messedaglia ebbe come norma costante d’indagine di non concludere che nei limiti dei fatti osservati. La continua ricerca della perfezione scientifica, i numerosi lavori interrotti o ritirati quando erano ormai in corso di stampa, la necessità di provare e riprovare, la curiosità intellettuale, che lo portava a spaziare in tutti i campi dello scibile, condizionarono sul piano quantitativo, non qualitativo, la sua produzione.

E la scienza, nel modo e cogli intenti con cui si professa in generale nell’età nostra, sarà, o signori, il soggetto del mio discorso. Io vorrei dirvi dei caratteri che distinguono l’odierna cultura scientifica, mostrarvene la pratica efficacia, fermare più specialmente la vostra attenzione su quella che io considero come la condizione essenziale di tutto il resto, il culto, cioè, e l’onore della scienza pura, della scienza per sé medesima.

alicegrieco
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