Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite diviso tra crisi malese e lotta alla proliferazione nucleare

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I primi giorni di settembre hanno visto i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, riuniti sotto la presidenza dell’Etiopia, discutere di questioni particolarmente pressanti relative alle operazioni di peace-keeping in corso in Mali, sostenute dalla Missione Onu MINUSMA, e alle attività di proliferazione nucleare portate avanti da Pyongyang che, con il potentissimo test condotto a Punggye-ri domenica 3 settembre, sono tornante a minacciare seriamente la pace e la sicurezza internazionali.

A seguito dell’esplosione di un ordigno all’idrogeno nella regione settentrionale di Hamgyong, i quindici componenti del Consiglio di Sicurezza sono stati infatti convocati d’urgenza nella Norwegian Room da dove hanno condannato in maniera unanime la politica di nuclearizzazione perseguita da Pyongyang in violazione, oltre che del Trattato di non proliferazione (NPT) e del Treaty banning nuclear weapon tests in the atmosphere, in outer space and under water, anche di diverse risoluzioni Onu tra cui il Comprensive Nuclear-Test-Ban Treaty e la storica risoluzione del 24 gennaio 1946 sui pericoli riconducibili alla scoperta dell’energia atomica.

A cominciare dal Sottosegretario Generale per gli Affari politici, che ha ribadito la preoccupazione dell’intera comunità internazionale per l’escalation della tensione in corso nella penisola coreana e per le sue possibili conseguenze sul piano della sicurezza (sia a livello regionale che internazionale), anche i rappresentanti di Stati Uniti, Giappone, Francia e Regno Unito hanno espresso il proprio disappunto, sollecitato l’adozione, da parte del Consiglio, di nuove e più dure sanzioni economiche tese ad ostacolare un’ulteriore sviluppo delle capacità nucleari del regime di Kim Jong-un.

Come suggerito dal delegato sudcoreano Cho Tae-Yul, la prossima risoluzione Onu relativa al programma nucleare e missilistico della RPDC dovrà contenere, non solo disposizioni atte a bloccare l’afflusso di fondi utili allo sviluppo dell’arsenale nordcoreano di armi di distruzione di massa, ma anche altre misure, ancora più drastiche (tra cui il taglio delle forniture di greggio e dei derivati del petrolio), per scoraggiare il programma di nuclearizzazione portato avanti da Kim Jong-un colpendo in profondità il sistema produttivo della Corea del Nord.

Se da un lato, quindi, Europa e Stati uniti hanno assunto una posizione intransigente nei confronti di Pyongyang, fatta di accuse e minacce di ritorsioni, dall’altro Russia e Cina, insieme al rappresentante kazako, hanno invece insistito sulla necessità di proseguire lungo strada dei negoziati, scartando l’ipotesi di una possibile soluzione militare alla crisi (con attacchi preventivi per la distruzione dei siti nucleari nordcoreani) o di una risposta troppo decisa da parte del Consiglio, che invece di risolvere la crisi in atto, potrebbero esacerbare la situazione, spingendo i leader nordcoreani, impegnati a garantire al Paese una forza di dissuasione che gli assicuri la sopravvivenza, a moltiplicare gli esperimenti nucleari e balistici.

La proposta alternativa avanzata dai rappresentati di Mosca e Pechino, che prevede un “congelamento” dei test nucleari e missilistici della Corea del Nord in cambio di una sospensione delle esercitazioni militari congiunte tra Washington e Seul, riflette, confermandoli, gli interessi dei due giganti asiatici, impegnati, rispettivamente, a mantenere la propria influenza nell’area (in funzione anticinese e antiamericana) e ad impedire la caduta di Pyongyang che aprirebbe la strada a una Corea unificata (e sostenuta dagli Usa) rivale di Pechino sul piano strategico.

Con riferimento, invece, alla situazione malese, il Consiglio di Sicurezza ha stabilito, adottando all’unanimità la risoluzione 2374(2017), l’introduzione di nuove sanzioni contro soggetti considerati responsabili delle continue violazioni del cessate-il-fuoco e degli altri obblighi previsti dallo storico Accordo sulla pacificazione e la riconciliazione del Mali, con cui il Governo locale, la coalizione di gruppi armati Plateform e il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad hanno posto le basi per la stabilizzazione politica del Paese.

I destinatari di tali sanzioni saranno, pertanto, tutti i soggetti direttamente o indirettamente coinvolti nella crisi malese, che con le loro azioni hanno dimostrato di voler ostacolare il processo di pace, mettendo a rischio i deboli risultati sinora raggiunti (soprattutto a livello securitario e nel settore della difesa) nell’implementazione dell’Accordo del 2015. Il riferimento è, segnatamente, a coloro che favoriscono la ripresa delle ostilità (spesso realizzando attacchi contro le forze di sicurezza nazionali, i Caschi Blu delle Nazioni Unite ed altro personale Onu), come anche a terroristi ed organizzazioni criminali (tra cui Al-Qaeida, Al Mourabitoun, Ansar, Da’esh) responsabili di crimini come il traffico illegale di stupefacenti, il reclutamento di minori, l’ostruzione dell’assistenza umanitaria, il sequestro di persone, ma anche le esecuzioni extra-giudiziarie, il traffico di migranti e le violenze a sfondo sessuale.

Si tratta di attività che pongono serie minacce per la pace e la sicurezza, non solo di Bamako, ma dell’intera regione del Sahel e che richiedono pertanto un intervento deciso di attori locali e sub-regionali che permetta di individuare organizzatori e perpetratori di queste gravi violazioni del diritto internazionale che contribuiscono a mantenere nell’instabilità uno dei Paesi più problematici dell’Africa sub-sahariana.

Per favorire un simile processo, e garantire quindi la graduale stabilizzazione del Paese ed una maggiore protezione della popolazione civile, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha previsto l’adozione, per un periodo iniziale di 12 mesi, di un travel ban che vieta l’ingresso ed il transito sul territorio di tutti i Paesi membri ai soggetti individuati da un apposito Commitee (creato ai sensi del paragrafo 9 della S/RES/2374) ed inseriti nell’elenco dei possibili responsabili della perdurante instabilità socio-politica del Mali.

Per scoraggiare le attività di questi gruppi, il “divieto di viaggio” sarà accompagnato dal congelamento immediato di fondi, risorse economiche ed altri assets finanziari, presenti sul territorio degli Stati membri, che risultino controllati, direttamente o indirettamente, da soggetti che figurano nella “black list” elaborata dal nuovo Comitato.

Contestualmente, i membri del Consiglio hanno anche deciso di istituire un nuovo panel di esperti incaricato di assistere il Committe nello svolgimento delle sue attività e di analizzare tutte le informazioni provenienti da Stati, INTERPOL, organi delle Nazioni Unite ed altre organizzazioni coinvolte nel processo di implementazione della risoluzione in esame, utili per monitorare il comportamento delle parti al conflitto ed individuare eventuali incidenti o violazioni che ostacolano la conclusione della guerra in corso nel Paese dal marzo 2012.

di Marta Panaiotti

Bookreporter Settembre

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